Introduzione
IV
l’agire politicamente in uno spazio condiviso tra pari. Ciò è perfettamente
incarnato dalla polis greca e quindi concettualizzato nella nozione
aristotelica di praxis che a quella esperienza politica si ispira. Ma l’agire
politico subisce nel corso della storia un progressivo scadimento. Hannah
Arendt segue tale percorso per spiegare la moderna mancanza di
un’autentica prassi, accompagnata da una altrettanto grave “mancanza di
pensiero”. Nella sua ricerca ella affronta alcuni tra i più grandi filosofi, tra i
quali, oltre a Marx, Platone, Aristotele e Heidegger. È anche nel continuo
confronto con tali pensatori che ella viene maturando la sua analisi
dell’attività umana e definendo la sua reinterpretazione della nozione di
prassi nella modalità dell’azione.
Platone è per lei il maggior responsabile della separazione tra pensiero
ed azione e dell’obliterazione dell’agire politico e di tutto quanto concerne
le “faccende umane”, in nome della filosofia, intesa essenzialmente come
contemplazione. Tale innalzamento della filosofia, e quindi della vita
teoretica, come forma più alta di esistenza, come vedremo, non sarà senza
conseguenze per la politica, che da luogo precipuo di libertà diventerà una
mera “tecnica” di governo, quindi un semplice “mezzo”. I riferimenti della
nostra autrice a Platone sono sempre piuttosto polemici e talvolta, a mio
parere, peccano forse di una certa superficialità. Il confronto con Aristotele
è più complesso e quindi anche più interessante. Aristotele è colui che ha
cercato di rivalutare la sfera delle faccende umane, restituendole
quell’autonomia e quella dignità che aveva perso con l’avvento della
filosofia. Nonostante alcune ambiguità nel pensiero dello Stagirita che ne
rendono talvolta difficile l’interpretazione, egli è importante per la Arendt
soprattutto per l’elaborazione del concetto di praxis come attività fine a se
stessa che si svolge all’interno della sfera pubblico-politica. È sulla base di
tale nozione aristotelica, come abbiamo detto, che la Arendt svilupperà il
proprio concetto di azione, unica forma di prassi autentica. La presenza di
Aristotele nel pensiero arendtiano è evidente soprattutto nella distinzione
stabilita dal filosofo greco, e rielaborata dalla Arendt, tra praxis e poiesis.
Nella riproposizione arendtiana della praxis aristotelica, infine, gioca un
ruolo fondamentale il suo maestro Martin Heidegger. Il rapporto di Hannah
Arendt con Heidegger è senza dubbio il più difficile da interpretare. Per lui
ella nutriva una grandissima ammirazione intellettuale, per la sua capacità
di pensare in modo “radicale”, ovvero di andare sempre alla “radice” delle
cose, esercitando il pensiero come “pura attività”. Heidegger è però nello
stesso tempo anche colui che si lascia affascinare dalla propaganda nazista
e aderisce al partito. Per lei, ebrea, questo rappresenta un evento tragico,
non solo dal punto di vista intellettuale, ma per la sua intera esistenza. Per
Una reinterpretazione del concetto di prassi. Hannah Arendt e l’azione
V
molti anni ella, delusa, non si occupa più di filosofia e si dedica alla
politica attiva, impegnandosi in associazioni a sostegno degli ebrei che
fuggono dalla Germania nazista. Ella stessa è costretta ad emigrare,
dapprima in diverse città europee, per trovare poi la possibilità di una
nuova vita in America. Qui, dove vive fino alla morte, ha la possibilità di
riscoprire la sua passione filosofica, svolgendo una fertilissima attività
intellettuale. La politica rimane comunque sempre la sua grande passione e
il filo conduttore di tutti i suoi scritti più importanti: l’azione, sola vera
prassi, è per lei essenzialmente un agire politico. Dovremo, però, cercare di
capire in profondità la sua concezione della politica, senza dubbio
interessante e per nulla scontata. La politica, e quindi l’azione, è un’attività
che trova nella parola e nel dialogo la propria essenza e “linfa vitale”. La
capacità di parlare e di esprimere in tal modo la propria unicità è ciò che
distingue nella maniera più profonda gli uomini dagli animali. Tra esseri
umani ed animali vi è, infatti, per la Arendt, uno iato incolmabile, parallelo
a quello esistente tra sfera “artificiale”, creata dall’uomo ed avente la sua
espressione più alta nello spazio politico, ed ambito meramente naturale.
La politica è per lei il “luogo” della piena “umanizzazione”, lo spazio nel
quale gli uomini si presentano in quanto uomini. Il termine “politica”
assume quindi un significato molto ampio, non ristretto alla semplice
“gestione” dello Stato, ma comprendente l’ambito più vasto nel quale gli
uomini agiscono e si mostrano per mezzo della parola.
In questa mia ricerca ho ritenuto utile iniziare da un confronto tra le
due categorie greche di praxis e theoria, ritrovandone l’origine ed il
significato: ritengo, infatti, che in tal modo risulti più comprensibile la
nozione di praxis, tema centrale del mio studio. Ho quindi seguito il
percorso arendtiano che indaga la perdita di significato, nel corso della
storia, della nozione aristotelica di praxis. Diversi e complessi sono gli
elementi che contribuiscono a tale scadimento dell’agire, che trova nell’età
contemporanea il suo apice. Vedremo come Hannah Arendt critichi
inesorabilmente non solo la società moderna, ma la quasi totalità della
nostra tradizione di pensiero, della quale la nostra società rappresenta un
“prodotto”. Le critiche arendtiane non sono mai, però, banali, in particolare
quelle riguardanti l’odierna società di massa e la grave lacuna dell’agire in
essa riscontrabile. Mi sono concentrato, poi, su un’analisi il più possibile
approfondita delle tre forme fondamentali della vita activa: il lavoro,
attività ripetitiva che non permette all’uomo di elevarsi al di sopra del
piano meramente animale; l’opera, mediante la quale egli “costruisce” il
proprio mondo; ed infine l’azione, con la quale ella ripropone la nozione
aristotelica di praxis come agire eminentemente politico.
Introduzione
VI
Il pensiero di Hannah Arendt non è certo privo di contraddizioni o
forzature, ma è a mio parere di grandissima portata, per la sua capacità di
proporre nozioni nuove e con le quali varrebbe la pena confrontarsi
seriamente. Penso per esempio (per richiamarne solo alcuni) a concetti
quali quelli di libertà, natalità, spazio relazionale, potere o pensiero.
Ognuno di questi viene dalla Arendt ripensato in maniera “radicale”,
andando all’origine delle varie nozioni e ricercandone il significato più
pieno. Questo modo di procedere le proviene dal suo maestro, Martin
Heidegger, ed ella lo interpreta in maniera magistrale. Come in Heidegger,
anche in Hannah Arendt è evidente lo sforzo di non accettare mai i luoghi
comuni, di andare oltre le risposte “già date” dalla tradizione e di non
accontentarsi di soluzioni “comode”. Nonostante alcuni limiti evidenti che
cercherò di mettere in luce nel corso del mio lavoro, le argomentazioni
della Arendt sono di estremo valore innanzitutto perché ci aiutano a
comprendere la società nella quale viviamo e l’esistenza che in essa
conduciamo. Il pensiero arendtiano, come quello di tutti i grandi filosofi,
sfugge a qualsiasi possibilità di classificazione o di inquadramento
all’interno di scuole o correnti, mostrando sempre una totale autonomia.
Ella è senz’altro, come la definisce Alessandro Dal Lago, «una apolide del
pensiero»
1
, ed anche in questo sta la sua grandezza.
1
Hannah Arendt, Vita activa, p. VII (Introduzione di Alessandro Dal Lago), Milano, Bompiani, 1994; tr.
it. di Sergio Finzi.
Una reinterpretazione del concetto di prassi. Hannah Arendt e l’azione
1
CAPITOLO PRIMO
ALL’ORIGINE DI DUE CONCETTI:
THEORIA E PRAXIS
Per poter comprendere il significato del concetto da analizzare sarà
utile un confronto tra le due nozioni greche, tra loro opposte, di theoria e
praxis. La contrapposizione risale all’antica Grecia e indica due “tipi di
vita” diversi. L’origine di questi due concetti è stata ben indagata da
Nicholas Lobkowicz, in un’opera che, secondo quanto afferma l’autore
stesso, era stata ideata per trattare del concetto marxiano di prassi
1
. Ma
Lobkowicz, terminate la seconda e la terza parte, che trattavano
dell’evoluzione del concetto da Hegel a Marx, sentì la necessità di andare
alle origini e di indagarne la provenienza. Lobkowicz inizia la sua
trattazione parlando della tripartizione aristotelica dei tipi di vita.
Nel primo libro dell’Etica Nicomachea Aristotele espone i tre modi di
vita tra i quali può scegliere un uomo libero
2
: la vita di godimento, la vita
politica e la vita contemplativa. Non sono prese in considerazione tutte le
attività che presuppongono fatica, che servono per sopravvivere o che
hanno come fine il guadagno: non sono quindi degni di un uomo libero il
commercio e le attività che mirano alla produzione di oggetti, come quelle
artigianali. Aristotele stesso dice che la vita che ha come fine il guadagno
«è di un genere contro natura»
3
. Questa non è un’idea del solo Aristotele,
ma qui l’autore non fa che esprimere una convinzione profondamente
1
Nicholas Lobkowicz, Theory and Practice: History of a Concept from Aristotle to Marx, University of
Notre Dame Press, Notre Dame, Indiana, 1967.
2
Aristotele, Etica Nicomachea, I, 5, 1095b 15-1096a 10, Milano, Rusconi, 1993; tr. it. di Giovanni Reale.
3
Ivi, 1096a 6.
Capitolo Primo - All’origine di due concetti: theoria e praxis
2
radicata nella Grecia antica, in cui le attività cosiddette “servili” erano
compiute dagli schiavi o da persone come gli artigiani, per esempio, che,
seppur liberi nella loro persona, non erano pienamente cittadini. Gli uomini
liberi erano coloro che erano appunto totalmente liberati da qualunque
preoccupazione legata alla sopravvivenza materiale. Solo questa pre-
condizione permetteva loro di poter partecipare come cittadini alla vita
della polis. Ma tornando alla tripartizione aristotelica, Lobkowicz fa notare
che i tre tipi di vita si dovrebbero in realtà ridurre a due. Gli uomini non
rozzi (“men of refinement”, come li definisce Lobkowicz) prendono in
seria considerazione solo il secondo e il terzo tipo di vita, quella politica e
quella contemplativa. La prima di queste due è dedita all’azione (praxis) e
ha come fine l’onore, la fama; la seconda consiste nella visione delle verità
eterne, nella pura theoria. Questa opposizione corrisponde quindi a quella
tra i due concetti di praxis e theoria. Ma Lobkowicz va ancora più indietro
e osserva che, secondo quanto testimoniato da Cicerone e da Giamblico, la
tripartizione risalirebbe addirittura a Pitagora. Quest’ultimo, a chi gli
chiedeva che cosa intendesse significare chiamando se stesso “filosofo”,
avrebbe risposto con una similitudine. Ad una fiera si recano diversi tipi di
persone: alcuni per vendere i loro prodotti, altri per mostrare la loro forza e
diventare famosi, e altri ancora solo per guardare, osservare. I secondi
rappresentano coloro che si dedicano alla vita politica e gli ultimi i filosofi.
Secondo la tradizione, sarebbe stato Pitagora ad introdurre il termine
philosophòs (“amante della sapienza”), ma, osserva Lobkowicz, questo non
è certo, e probabilmente Pitagora usò in realtà il termine philotheoròs
(“amante della contemplazione”). Quello che qui è importante, comunque,
è che prima Pitagora e poi Aristotele contrappongono due tipi di vita
profondamente diversi, due scelte che nella Grecia antica si ponevano ad
ogni uomo libero.
Sarà utile ora passare ad una analisi più approfondita dell’elaborazione
aristotelica di questi due concetti e dei tipi di vita corrispondenti. Vedremo,
infatti, che la Arendt riprenderà il significato aristotelico del termine
praxis, come base per la propria elaborazione del concetto di azione, per lei
la forma più alta della prassi umana. E vedremo anche come l’esperienza
della polis greca sarà il suo punto di riferimento privilegiato; e la polis è
anche il luogo da cui Aristotele traeva la sua concezione della praxis.
Una reinterpretazione del concetto di prassi. Hannah Arendt e l’azione
3
1. Theoria
Il termine greco theoria derivava da theoròs, espressione che veniva
usata per indicare gli ambasciatori che ogni città-stato greca mandava nelle
altre città-stato durante le feste sacre per assistere ai giochi. Il loro compito
era, quindi, quello di “guardare” e il loro ruolo era semplicemente quello di
“spettatori”. Il termine theoria, quindi, andò ad indicare un atteggiamento
puramente contemplativo, consistente in una mera “visione”. La vita
teoretica, era un tipo di esistenza dedita esclusivamente alla
contemplazione. Questa concezione si trova in tutta la tradizione filosofica
antica. La vicinanza della theoria con il “vedere” è evidente in molti
termini usati nell’antichità greca e latina con riferimento al conoscere
intellettivo. Il greco idea (idea), per esempio, deriva dal verbo idein
(vedere); theoria e, come si è visto, theoròs, da theaomai (guardare); e il
latino speculari (speculare) da speculum (specchio). E la vita teoretica,
come “puro guardare”, diventerà (secondo Lobkowicz a partire da Pitagora,
secondo la Arendt, come vedremo, a partire da Parmenide e, ancor più da
Platone) la vita tipica del filosofo, e sarà considerata la forma di vita più
alta. Uno dei motivi di questa superiorità era dovuto al carattere di sacralità
degli “oggetti” di tale contemplazione: i giochi ai quali gli ambasciatori
erano mandati ad assistere erano giochi sacri. Theoria, quindi, indicava la
visione di qualcosa che aveva a che fare con il “divino”. Lobkowicz fa
notare il fatto che theoria ha la stessa radice di theòs (dio). Si può ben
capire, quindi, perché la vita teoretica iniziò ad essere considerata superiore
alle altre, qualcosa di “divino”, non pienamente umano. Anche i primi
filosofi avevano come oggetto della loro contemplazione qualcosa di
“divino”: il filosofo greco «contempla l’ordine divino e prende parte alla
sua eternità»
4
. Il filosofo era colui che contemplava il cosmo con tutte le
sue entità, i movimenti dei corpi celesti e l’ordine eterno insito
nell’universo. Anche con Platone questi caratteri rimarranno immutati:
oggetto della “visione” del filosofo saranno le Idee, anch’esse entità eterne
e “divine”.
La migliore difesa dell’ideale di vita teoretico si trova in uno scritto
giovanile di Aristotele, il Protreptico (o Esortazione alla filosofia),
elaborato mentre egli si trovava ancora nell’Accademia platonica.
L’occasione fu una disputa con Isocrate, a capo della scuola concorrente a
quella platonica. L’ideale educativo di Isocrate poneva la retorica come
4
Nicholas Lobkowicz, op. cit., p. 7 (traduzione mia).
Capitolo Primo - All’origine di due concetti: theoria e praxis
4
forma più alta di sapere e criticava l’Accademia perché insegnava la
dialettica, cioè la filosofia, fatta di discorsi inutili, del tutto lontani dalle
necessità pratiche. Aristotele reagì e, col Protreptico difese con decisione il
modello educativo platonico. La vera cultura, afferma Aristotele, non
consiste nell’esercizio della retorica, ma nella filosofia, intesa come ricerca
puramente teorica dei principi supremi. Lo scritto è dedicato a Temisone, re
di Cipro, per esortarlo a dedicarsi alla filosofia, utile, secondo Aristotele
anche agli uomini di stato.
La vera felicità, così inizia Aristotele, non consiste nei beni materiali,
utili solo come mezzi, ma consiste «in una certa condizione dell’anima»
5
.
L’uomo è, nella propria essenza, anima, e la “forma” propria dell’uomo è la
parte più alta dell’anima, l’anima razionale. La felicità suprema consiste in
una buona formazione, cioè nella realizzazione della forma propria
dell’uomo, e questa è quella che i Greci chiamavano paideia, che qui, si
può dire, consiste proprio nella filosofia. La filosofia dà quindi la felicità
perché realizza pienamente l’essenza umana. La filosofia, inoltre ha anche
un valore pratico. Così dice Aristotele:
Le cose di cui disponiamo per vivere, per esempio il corpo e quelle concernenti il
corpo, sono a nostra disposizione come strumenti, e l’uso di esse è pericoloso, ed
a coloro che non le usano come si deve, esse producono piuttosto l’effetto
contrario. Si deve dunque tendere ad acquistare e ad usare nel modo conveniente
quella scienza, per mezzo della quale disporremo bene tutte queste cose. Perciò, se
vogliamo governare rettamente lo stato e condurre vantaggiosamente la nostra
vita, dobbiamo filosofare
6
.
Per agire bene, quindi, è necessario conoscere, ovvero possedere
quella scienza che sa qual è il fine di ogni cosa e quindi anche il bene.
Aristotele sancisce, quindi una netta subordinazione della praxis alla
theoria. Questo deve essere inteso in un duplice senso, come chiarisce bene
Enrico Berti nell’Introduzione. Innanzitutto la prassi è subordinata alla
teoria come il mezzo è subordinato al fine, cioè la prassi non ha una finalità
sua propria, autonoma, ma il fine ultimo della prassi deve sempre essere la
conoscenza, nella quale solamente consiste la vera felicità. La prassi,
inoltre, è subordinata nel senso che i criteri per agire bene, come si è già
visto, ci vengono dati dalla filosofia. La teoria, che è fine a se stessa e non
necessita della prassi, è anche la condizione indispensabile al retto esercizio
della prassi. Quest’ultimo punto è senz’altro da chiarire: Aristotele fa una
netta distinzione tra scienze «che producono le singole cose che sono di
5
Aristotele, Esortazione alla filosofia (Protreptico), p. 42, Padova, ed. R.A.D.A.R., 1972; tr. it. di Enrico
Berti.
6
Ivi, p. 42.
Una reinterpretazione del concetto di prassi. Hannah Arendt e l’azione
5
vantaggio nella vita» (poietiche) e «quelle che di queste cose fanno uso»
7
(pratiche). Tra queste ultime vi sono, naturalmente, l’etica e la politica. Ma
in questi passi le scienze pratiche vengono alla fine fatte coincidere con la
scienza teoretica, cioè la filosofia, come chiarisce Enrico Berti. Infatti le
scienze pratiche concernono l’uso della singole cose e hanno come fine un
bene particolare; la filosofia è la scienza che ha come fine il bene in
generale, nel senso più proprio. Per questo le altre scienze sono ad essa
subordinate come mezzi ad un fine, ed è sempre per questo che la filosofia
ci dà i criteri dell’azione. La filosofia è quindi scienza essenzialmente
teoretica, ma si rivela poi anche supremamente pratica. Così Enrico Berti:
In effetti, al limite, cioè al livello supremo, momento teoretico e momento pratico
vengono a coincidere, in quanto il criterio ultimo dell’azione può essere costituito
soltanto dal criterio ultimo della verità, per cui la somma teoresi finisce con
l’essere anche somma prassi
8
.
È nella filosofia che vengono a coincidere momento teoretico e
momento pratico. Alcune pagine dopo Aristotele distingue tra «le scienze
concernenti le cose giuste e giovevoli» (la filosofia in senso pratico,
concernente la conoscenza del sommo bene) e «quelle concernenti la natura
e la rimanente verità»
9
(la filosofia in senso puramente teoretico). La
filosofia, inoltre, è nella sua essenza “problematica”; essa è
fondamentalmente un ricercare, un domandare, e si distingue dal possesso
pieno della sapienza, che l’uomo può ottenere solo dopo la morte. Ma la
filosofia non riguarda solo la conoscenza del sommo bene: anticipando la
definizione data nella Metafisica, Aristotele ce la presenta anche come
«scienza dei principi o delle cause prime»
10
. Fine del Protreptico è quello
di esortare ogni uomo all’esercizio della filosofia. Aristotele si preoccupa,
quindi, di portare argomentazioni a sostegno di ciò. La filosofia è
“vantaggiosa” (nel senso di conveniente dal punto di vista dell’opinione).
La filosofia è poi “facile” (cioè facilmente attuabile dall’uomo):
Per esercitarla infatti non c’è bisogno di strumenti né di particolari luoghi, ma in
qualunque luogo della terra uno vi ponga il pensiero, allo stesso modo egli attinge
sempre la verità, poiché questa è presente dappertutto
11
.
7
Ivi, p. 43.
8
Ivi, nota n.14 p. 44 di Enrico Berti.
9
Ivi, pp. 48-49.
10
Ivi, nota n.22 p. 51 di Enrico Berti.
11
Ivi, p. 57.
Capitolo Primo - All’origine di due concetti: theoria e praxis
6
La filosofia, nota Berti, si presenta quindi come l’attività propria
dell’uomo, la sua condizione naturale; l’uomo, infatti, è naturalmente in
una condizione di problematicità, di ricerca. Si può dire che, almeno
potenzialmente, «ogni uomo è già dentro nella filosofia»
12
. Nel filosofare
come ricercare, domandare, si trova pienamente l’essere-uomo dell’uomo,
la sua natura, la sua propria essenza. Per questo la filosofia è “facile”. La
filosofia, inoltre, non solo è vantaggiosa, cioè desiderabile
soggettivamente, dal punto di vista dell’opinione, ma è anche “buona”, cioè
desiderabile oggettivamente. Essa è, anzi, la cosa più desiderabile, il bene
supremo, in quanto è la realizzazione della natura stessa dell’uomo e
quindi, come si vedrà, il suo fine più alto.
A questo punto sarà utile seguire le argomentazioni di Aristotele per
dimostrare la superiorità della filosofia e della vita teoretica. L’uomo è
composto di anima e corpo, e il rapporto che esiste tra di essi è un rapporto
mezzo-fine; l’anima, poi, è composta a sua volta di una parte razionale e di
una non-razionale: la seconda è naturalmente subordinata alla prima.
L’ordine (e quindi il bene) si ha quando ogni parte compie la “virtù” sua
propria. Per “virtù” si deve intendere la più alta tra le facoltà che sono
proprie di ogni cosa. Se fra diverse cose esiste un ordine gerarchico, il bene
più alto si avrà quando sarà compiuta la virtù propria della parte più alta.
Quindi, poiché l’uomo è composto di anima e corpo, e poiché la prima
delle due parti è superiore alla seconda, il bene più grande per l’uomo si
avrà con il compimento della virtù propria della parte più alta dell’uomo, e
questa è l’anima, più precisamente l’anima razionale
13
. Anzi, «noi siamo
soltanto o soprattutto questa parte»
14
. Si ha poi un’argomentazione molto
simile, imperniata, però sulla nozione di “compito”. Il compito proprio di
ogni cosa è sul piano delle attività ciò che la virtù è sul piano delle facoltà.
Il bene per ogni cosa è la realizzazione del suo proprio compito. Il bene più
grande per l’uomo sarà quindi la realizzazione del compito proprio della
sua parte più alta, l’anima razionale, e «la verità […] è il compito supremo
di questa parte dell’anima»
15
. Ma l’uomo ricerca la verità per mezzo della
scienza, la virtù grazie alla quale può realizzare il suo proprio compito, e la
migliore delle scienze è la scienza puramente speculativa (teoretica), che ha
come fine la conoscenza della verità in se stessa, e questa è naturalmente la
filosofia:
12
Ivi, nota n.31 p. 57 di Enrico Berti.
13
Mi sono avvalso qui, come nel seguito, della preziose note di Enrico Berti, curatore del Protreptico.
14
Ivi, p. 61.
15
Ivi, p. 63.
Una reinterpretazione del concetto di prassi. Hannah Arendt e l’azione
7
L’esercitare la sapienza, ossia lo speculare, è dunque il compito della virtù, e
questa è la cosa più desiderabile di tutte per gli uomini, come credo sia anche il
vedere per gli occhi, poiché uno desidererebbe averlo anche se per mezzo di esso
non gli dovesse venire nulla di diverso dalla vista stessa
16
.
Quindi la speculazione è il bene più desiderabile, indipendentemente
da ciò che da essa può derivare all’uomo; la speculazione, ovvero la
filosofia, ha un valore in sé, rappresenta, anzi, il valore più alto. In
quest’ultimo frammento è inoltre da sottolineare il paragone non certo
casuale tra la speculazione (la teoria) e la vista. Si è, infatti, osservato in
precedenza come l’atteggiamento teoretico consista in un puro “guardare”,
una contemplazione che si attua mediante un semplice “vedere”. La
filosofia, quindi, è un “vedere” assolutamente fine a se stesso (non con gli
occhi corporei, ma, si potrebbe dire, con gli “occhi” dell’anima razionale).
Aristotele dimostra poi la stessa cosa da un punto di vista “cosmico”.
Sostanzialmente afferma che in natura ogni cosa ha un fine e il fine ultimo
dell’uomo è la sapienza. Quindi, non solo la filosofia è il bene più grande,
ma è il fine stesso dell’uomo. Si conferma ulteriormente quanto abbiamo
già visto in precedenza. Aristotele deve poi dimostrare che la filosofia è
anche utile alla vita pratica. Innanzitutto distingue tra cose utili (Aristotele
dice “necessarie”, da intendersi, naturalmente non in senso forte, ma
appunto, semplicemente come utili) e cose buone. Le seconde sono
superiori alle prime in quanto sono amate per se stesse, mentre le cose utili
sono amate in vista di altro. La filosofia è buona, in quanto ha un valore in
sé, ed è anzi la cosa più buona; ma essa è anche utile alla vita pratica. Chi
cerca solo le cose utili non può essere veramente felice. La filosofia è in sé
“inutile”, ma questo è un segno della sua grandezza: solo così è “signora”,
altrimenti sarebbe “serva”. Dire che la filosofia è anche utile alla vita
pratica significa dire che è utile alla suprema tra le “arti pratiche”, cioè la
politica. La politica, arte pratica per eccellenza, non si occupa come le arti
produttive, del corpo e del bene individuale, ma dell’anima (più importante
del corpo) e del bene comune (superiore al bene individuale): questi sono
tra i motivi della sua superiorità sulle arti poietiche. Entrambe, però, sono
accomunate dal fatto di derivare i propri “strumenti” dalla natura, cioè
dall’imitazione di essa. Ma, mentre le prime imitano la natura sensibile,
esteriore, la politica trae i propri “strumenti” dalla natura più profonda. Gli
strumenti della politica sono i criteri che guidano l'azione, per giudicare ciò
che è bene e ciò che è male. Perciò la politica ha bisogno della conoscenza
16
Ivi, p. 66.
Capitolo Primo - All’origine di due concetti: theoria e praxis
8
della natura ancor più che le arti poietiche; ha bisogno dell’aiuto della
filosofia, che conosce la natura più di ogni altra scienza. Così Aristotele:
Analogamente anche il politico deve avere alcuni criteri derivati dalla natura
stessa e dalla verità, in rapporto ai quali giudicherà che cosa è giusto, che cosa è
bello e che cosa è vantaggioso. Poiché, come in quelle arti gli strumenti di questo
tipo si distinguono da tutti, così anche nella politica il criterio più bello è quello
maggiormente conforme alla natura.
Questo non può essere in grado di fare colui che non ha filosofato né ha
conosciuto la verità. Nelle altre arti si raggiunge un certo sapere prendendo gli
strumenti ed i calcoli più esatti non dalle stesse realtà prime, ma da quelle che
stanno al secondo, al terzo o all’ennesimo posto, e si desumono gli argomenti
dalla realtà empirica. Al filosofo invece, solo tra gli altri, appartiene l’imitazione a
partire dalle stesse realtà esatte, poiché di esse egli è spettatore, e non di copie
17
.
Si può affermare che qui politica e filosofia sono sostanzialmente
identificate. La politica si differenzia, certo, dalla filosofia, in quanto arte
eminentemente pratica, mentre la filosofia è teoria, speculazione.
L’identificazione consiste piuttosto nel fatto che il politico, per essere un
buon politico, non può non essere anche filosofo. Infatti, per agire
rettamente nella sfera pratica, deve contemplare l’ordine della natura ed
imitarlo. Qui certamente la sfera politica non gode di una propria
autonomia. La prassi al suo livello più alto, come già visto in precedenza,
coincide alla fine con la teoria, in quanto i criteri ultimi del retto agire
politico si desumono dalla verità contemplata dal filosofo-politico. Questa
mancanza di autonomia della politica, come vedremo in seguito,
scomparirà nelle opere mature di Aristotele. La politica godrà di una certa
autonomia sia per quel che riguarda la sfera di competenza, sia sul piano
metodologico. Qui, come nota Berti, è presente una concezione idealistica
della politica, cioè il politico deve assumere come criteri modelli divini e
immortali, non deve basarsi sulla storia.
È possibile cercare di dare delle spiegazioni a questa dipendenza della
politica dalla filosofia teorizzata da Aristotele. Quando scrive queste cose
egli si trova ancora all’interno dell’Accademia platonica: è forte quindi
l’influenza dell’insegnamento del maestro. Le teorie esposte da Aristotele
possono essere avvicinate al modello platonico del filosofo-re. Aristotele,
inoltre, scrive l’Esortazione alla filosofia per difendere tale “scienza”
dall’accusa di inutilità (è ovvio quindi che insista sulla sua utilità pratica) e
per difendere il modello educativo dell’Accademia, per il quale la filosofia
è la disciplina più importante. È da ricordare poi che questo scritto è rivolto
ad un re e il suo intento è quello di esortarlo a filosofare: Aristotele deve
17
Ivi, pp. 91-92.
Una reinterpretazione del concetto di prassi. Hannah Arendt e l’azione
9
quindi sottolineare ripetutamente la dipendenza della politica dalla filosofia
e il fatto che un buon politico non può fare a meno di essere anche filosofo.
A questi motivi ritengo debba essere attribuita la sostanziale identificazione
di politica e filosofia. Il Protreptico, però, non è molto interessante per la
trattazione della praxis, ma perché è una grande apologia del modello di
vita teoretico, contemplativo. La conclusione alla quale si arriva è che «il
filosofare è la perfetta felicità»
18
. Tutti, quindi, dovrebbero filosofare.
Anche in altri luoghi Aristotele parla della filosofia come modo di vita più
alto e della sapienza come fine supremo dell’uomo. La Metafisica si apre in
questo modo:
Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le
sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse, anche
indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte, amano la sensazione della
vista: in effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna
intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre
sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre
sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose
19
.
È qui confermato quanto già visto in precedenza. Sempre nella
Metafisica Aristotele parla della sapienza, e quindi anche della filosofia che
ad essa mira, come di qualcosa di divino. Essa è divina in un duplice senso:
perché il suo “oggetto” è divino, come si è già visto, e perché la
contemplazione è l’unica attività svolta da Dio (o meglio, dal Motore
Immobile)
20
, «il pensiero che è pensiero per sé»
21
. La contemplazione,
l’atteggiamento teoretico, ci fa vivere, quindi, in una sfera non pienamente
umana, ma divina. È la sola possibilità concessa all’uomo di elevarsi al di
sopra delle cose propriamente umane, di vivere, anche se solo per periodi
limitati, a contatto con ciò che è divino ed immortale.
18
Ivi, p. 109.
19
Aristotele , Metafisica, 980a 20-28, Milano, Rusconi, 1993; tr. it. di Giovanni Reale.
20
Ivi, 982b 28-983a 12.
21
Ivi, 1072b 17.
Capitolo Primo - All’origine di due concetti: theoria e praxis
10
2. Praxis
Molto meno, nota Lobkowicz, può essere detto sull’origine del
concetto di praxis. Sembra che il primo ad usare questo termine in un senso
“tecnico”, cioè dandogli un significato specifico, sia stato Aristotele. Ed è
proprio questo significato assunto dal termine in Aristotele che vorrei
richiamare. Bisogna innanzitutto considerare una fondamentale distinzione
fatta da Aristotele stesso: quella tra praxis e poiesis
22
. Questa opposizione
ha perso forse di senso nella nostra epoca (e questo ce lo spiegherà molto
bene Hannah Arendt), ma nella concezione greca era assolutamente
evidente. Ciò che oppone in modo fondamentale i due termini è una
distinzione molto chiara. Poiesis indica un tipo di attività che ha un fine,
uno scopo al di fuori dell’attività stessa (la costruzione di una casa, per
esempio) ed un termine ben determinato, che coincide con la realizzazione
dell’opera stessa. Un’attività di questo tipo è svolta in maniera
soddisfacente solo se raggiunge lo scopo prefissato; “poietiche” sono tutte
le attività produttive, artigianali, fabbrili. Praxis, invece, indica attività che
hanno il proprio fine nell’atto stesso (per esempio, il fine del suonare il
flauto è semplicemente il suonare bene il flauto). Secondo Lobkowicz i due
termini potrebbero essere resi in inglese in questo modo: praxis con il
verbo “doing” (inteso come un “fare” non-produttivo, quindi in senso
ampio e generico, per esempio riferito al “fare” musica, sport, politica) e
poiesis con “making” (nel senso di “fabbricare”, “produrre”, per esempio il
costruire case, statue o oggetti di artigianato). Il fine di un’attività
“pratica”, quindi, è semplicemente lo svolgere bene quella stessa attività.
Secondo Lobkowicz, vista in questa maniera la praxis rivela una
significativa parentela con la vita stessa. È Aristotele stesso a suggerire
questo avvicinamento quando afferma che «la vita è azione (praxis), non
produzione (poiesis)»
23
. Ma, prosegue Lobkowicz, vi è un senso più
“tecnico” nel quale Aristotele usa il termine praxis:
Ancora, nel suo senso più tecnico l’espressione praxis ricopre solo quelle azioni
ed attività umane che Aristotele discute nei suoi scritti etici e politici: la condotta
morale e l’attività politica. E poiché Aristotele dichiara esplicitamente che l’etica
è solo una parte dell’episteme politikè, della scienza politica, possiamo
semplicemente dire che praxis è il termine usato da Aristotele per la libera attività
dell’uomo nel regno della vita politica
24
.
22
Nicholas Lobkowicz, op. cit., p. 9.
23
Aristotele, Politica, 1254a 7, Bari, Laterza, 1993; tr. it. di Renato Laurenti.
24
Nicholas Lobkowicz, op. cit., p. 11 (traduzione mia).