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Questo cambiamento che contraddistingue i nostri tempi determina
quella che Lyotard (Lyotard 1991) definisce l’epoca della Post-
modernità.
L’epoca moderna era caratterizzata dalla fiducia in principi unitari
basilari, mentre la post-modernità è caratterizzata dalla caduta di
queste pretese e dal conseguente sfaldamento delle certezze stabili che
possono indicare all’ uomo un qualsiasi sentiero definitivo.
Questa mutevolezza della realtà può sicuramente creare nell’ uomo
un forte senso di instabilità e di crisi, dovuto soprattutto alla velocità
dei mutamenti, ma certamente ha dei risultati positivi.
Il singolo individuo è a disagio perché non riesce a tenere il passo con
l’evoluzione del sapere; la società nel suo complesso è invece pervasa
da entusiasmo e fiducia in un costante miglioramento.
Gli aspetti positivi di questa evoluzione sono: l’ allontanamento da un
capitalismo rigido e “industriale”,il declino delle ideologie totalitarie,
il venire meno del timore dell’ autorità, una nuova disponibilità e
un’accresciuta tolleranza verso la diversità culturale ed etnica, una
maggiore disponibilità di informazioni, le nuove possibilità di
scambio culturale e comunicazione tra gli individui.
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Alla nozione marxista di “capitale economico” subentra il “capitale
culturale” misurato su titoli di studi superiori (Heinich 2001:69).
Ovviamente le aziende che sono in grado di comprendere che l’
informazione e sapere sono le armi più competitive del nostro tempo
sono destinate ad un sicuro sviluppo, mentre le aziende capaci di
riferirsi solo al piccolo riquadro dei prodotti e dei mercati serviti,
senza aprirsi a considerare le possibilità di sviluppo e di crescita,
hanno vita breve.
Il mondo di oggi è ancora abbastanza lineare, le organizzazioni sono
ancora sostanzialmente gerarchiche, funzionali, burocratiche, basate
su tre parole chiave che le compendiano: ordine, previsione, controllo.
In realtà, è sufficiente guardare appena al di là del nostro orizzonte
per vedere che le organizzazioni in futuro diventeranno disarticolate,
confuse, caotiche, piene di sorprese, poiché la necessità vitale sarà
quella di trasformare le intenzioni dei singoli più dotati e innovativi, in
realizzazioni, ciò che comporta incertezza e complessità (Cravera,
Miglione, Ruggeri 2001).
Pertanto è fondamentale imparare ad identificare e a gestire il capitale
intellettuale.
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Si tratta di un bene non tangibile, è il sapere di una forza lavoro ma è
anche comunicazione e condivisione delle conoscenze.
Solamente chi è in grado di gestire le risorse di brainpower (il potere
del cervello) può pensare di porsi in una zona produttiva dell’
economia nell’ era dell’ informazione .
Investire in informazione per molte aziende significa tendere ad una
diminuzione della forza lavoro ma questo è un atteggiamento poco
lungimirante, infatti non deve esserci conflitto fra risorse umane e
sistemi informatici ma bisogna rivalutare la risorsa umana come
strumento di condivisione e di integrazione delle conoscenze e quindi
come motore fondamentale dello sviluppo di una nuova economia.
La competizione in quasi tutti i settori sta aumentando velocemente.
Le imprese non competono più solo sul mercato dei prodotti e servizi,
ma anche su quello del lavoro, per attrarre e mantenere i migliori
talenti, per accrescere la loro conoscenza e il loro patrimonio di
persone e idee.
Gli investitori istituzionali, i piccoli risparmiatori, il manager, il
mercato e tutti i gruppi di interesse che gravitano intorno all’azienda
hanno urgentemente bisogno di nuovi strumenti, metodi e approcci
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che possano guidarli nella comprensione delle nuove dinamiche di
creazione di valore, nella valutazione del capitale intellettuale delle
imprese.
A differenza del capitale economico e finanziario, per sua natura certo
e misurabile attraverso un’unica e condivisa unità di misura – il
denaro- il capitale intellettuale è un concetto più sfumato, che presenta
caratteristiche comuni in tutte le aziende ma necessita di indicatori
costruiti da hoc.
Ciò che è auspicabile sarebbe giungere a una definizione di capitale
intellettuale certa e condivisa, che certamente farà emergere, come
bene assolutamente insostituibile per ogni tipo di attività, il valore
della risorsa- uomo, la sola dotata della flessibilità, della capacità di
adattamento e della creatività che rappresenta il presupposto base per
il progresso del business dell’epoca Post- moderna, basata
essenzialmente sulla capacità di acquisire, comunicare e dinamizzare
un patrimonio di conoscenza.
Il lavoro è strutturato in una prima parte teorica e in una seconda
parte sperimentale. La parte teorica, muove da una riflessione sui
cambiamenti che hanno caratterizzato recentemente tanto le
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organizzazioni quanto la maniera di intendere l’attività lavorativa con
particolare riguardo all’economia fordista nel confronto con il sistema
economico attuale. In seguito, si è esaminato il capitale intellettuale
nelle sue articolazioni tra capitale umano, capitale relazionale e
capitale organizzativo o strutturale, cercando di identificare dei criteri
con i quali esso potesse anche essere misurato.
Infine, è stata focalizzata l’attenzione sulla figura del nuovo manager,
sulle sue responsabilità e sulle strategie che esso sceglie per adeguarsi
ai nuovi obiettivi.
La parte sperimentale ha visto il confrontare dei dati teorici con la
realtà effettiva d’aziende operanti sul nostro territorio per trarne delle
conclusioni.
Il lavoro è stato molto interessante anche se non è stato semplice il
reperimento di materiale che potesse fornire le informazioni
necessarie. La difficoltà è derivata soprattutto dal fatto che l’uso del
capitale intellettuale nelle aziende è ancora in fase di elaborazione e di
verifica.
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Capitolo I
Modifiche delle organizzazioni e della concezione del
lavoro.
1.1 Dal Fordismo all’economia delle risorse umane.
Qualsiasi tipo di azienda è da considerarsi come una organizzazione e
cioè una forma di azione collettiva reiterata basata su processi di
differenziazione e di integrazione tendenzialmente stabili e
intenzionali. (Ferrante, Zan, Xilo 1994:31)
Quando si parla di differenziazione all’interno di una azienda ci si
riferisce alla divisione del lavoro o meglio alla specializzazione del
lavoro, è quel processo attraverso il quale non tutti gli individui fanno
la stessa cosa ma, viceversa, si specializzano nel fare meglio una parte
di un compito più generale.
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Questo crea un sistema di ruoli che tende a consolidarsi nel tempo e
che raramente viene messo in discussione .
Da questa differenza però è necessario arrivare nuovamente all’unità.
Questo avviene attraverso il processo d’integrazione, per questo una
classe dirigente coordina gli sforzi dei singoli per ottenere risultati
unitari.
L’estremizzazione di questa sclerosi dei ruoli è quella che
correntemente si definisce economia Fordista.
Il Fordismo, sistema efficacissimo e sicuramente competitivo quando
nacque nel 1913, consisteva essenzialmente nel creare un insieme di
regole produttive estremamente rigide che essenzialmente
consistevano in una divisione del lavoro tale per cui ciascuno svolgeva
solo compiti minimi, estremamente semplici da apprendere e ripetibili
in maniera meccanica.
Poca importanza avevano eventuali differenziazioni relative tanto alla
domanda quanto all’offerta del prodotto.
Perché l’azienda fosse competitiva si riteneva di dover cogliere gli
aspetti generali e quindi facilmente identificabili sia nella produzione
che nella vendita del prodotto finito.
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Il contesto sociale veniva completamente ignorato per cui si parla di
artificializzazione; si tendeva dunque ad annullare le peculiarità dei
modelli socio-culturali di riferimento in virtù dell’esaltazione di un
modello “universale” cui l’impresa doveva adeguarsi per avere
successo.
Nel momento in cui sia la realtà che i modelli comportamentali
dell’impresa venivano ricondotti ad uno schema “artificiale”, anche le
operazioni lavorative e più in generale i comportamenti degli uomini
all’interno delle organizzazioni, potevano e dovevano essere definiti
in base a modelli pre-determinati. Infatti le grandi organizzazioni
erano caratterizzate dalla presenza di tre categorie di dipendenti: 1)
l’èlite manageriale, cioè le persone che contavano; 2) una classe
professionale di manager intermedi o di detentori di competenze
tecniche; 3)la categoria più bassa, quella dei lavoratori sostituibili, che
assemblavano i prodotti o facevano lavori di bassa routine.
Questi ultimi erano considerati sostituibili perché le loro funzioni
potevano essere assolte da chiunque.
Questo approccio organizzativo si chiamava Management scientifico
e consisteva nell’assoluta disgregazione dei compiti, infatti i lavoratori
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potevano concentrarsi su una o più azioni separate, predefinite e
scrupolosamente misurate.
Tutte le funzioni connesse alla progettazione e al coordinamento degli
sforzi delle maestranze sarebbero state affidate ai manager, ai
supervisori o agli specialisti.
In questo modo il lavoratore non avrebbe avuto responsabilità, né
voce in capitolo, sugli standard di qualità.
Anzi, mentre gli operai si concentravano su lavoro ripetitivo, il
management si preoccupava di creare efficienza attraverso la
riprogettazione dei flussi operativi e l’uso di nuove tecnologie rivolte
ad accrescere la produttività.
I risultati furono veramente impressionanti: nell’ultimo secolo la
produttività nell’industria è cresciuta al ritmo del 3-4% l’anno.
L’enorme incremento di produttività realizzato nel nostro sistema ci
ha permesso di rivoluzionare la nostra società sotto una quantità di
profili. Ma questa focalizzazione quasi ossessiva sulla produttività ha i
suoi lati negativi. Ha fatto sì che i datori di lavoro esercitassero un
controllo ancora più forte sui lavoratori, a tutto danno della loro
creatività, determinando insoddisfazione.