Introduzione
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
(E. Montale)
L’interesse rivolto al fenomeno dell’Hikikomori nasce dalla constatazione che, a
fronte delle migliaia di casi registratisi nel solo Giappone- stime non ufficiali, ma
ugualmente attendibili parlano di più di un milione di individui-, tale fenomeno
rimanga in qualche maniera nascosto da un muro di omertà. La peculiarità della
società giapponese è tale da poter in certo senso motivare la realtà stessa del
fenomeno e delle specificità con cui questo si manifesta in nome della forte pressione
al conformismo e insieme ad un certo senso di annichilimento di sé che essa
incoraggia, non troppo implicitamente.
Il ministero della salute giapponese, non senza remore o senza ritrosia e non senza
ritardi, ha definito Hikikomori quegli individui che rifiutano di uscire dalla propria
casa (più spesso quella dei genitori), isolandosi nella propria stanza per periodi
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superiori ai sei mesi, (che spesso diventano anni), in una condizione di dipendenza
economica. Ma su quelle che siano le reali cause o le possibili tali di un fenomeno
sempre più dilagante, su quello, si pretende ancora di tacere, lasciando passare tra le
righe l’immagine di individui che hanno volontariamente abdicato al loro ruolo
sociale e che per tali motivi sono passabili di biasimo e disapprovazione.
Lo scopo con cui si è giunti ad elaborare tale progetto di tesi è stato quello di
soffermarsi sui fattori sociali, culturali e non per ultimi familiari, propri del
Giappone, nel tentativo di spiegare un fenomeno che, ad oggi, per alcuni particolari
peculiarità rimane proprio del Sol Levante, ma al contempo, non lascia immuni nel
suo dilagare società, come quelle occidentali, che per struttura e valori, possono
apparentemente ritenersi antinomiche rispetto a quella giapponese.
In considerazioni di queste peculiarità, nel corso del primo capitolo si è ritenuto
necessario il tentativo di delineare un quadro, il più esaustivo possibile, delle
principali caratteristiche della cultura giapponese e della struttura della sua società, in
considerazione del fatto che quella giapponese è forse la società in cui la post-
modernità, e ancor prima il periodo post-bellico, hanno lasciato l’impronta più
profonda in termini sia di progresso acquisito, ma anche di malessere “appreso”.
In questa analisi tre sono le fondamentali dimensioni su cui si è creduto necessario
soffermarsi: la dimensione della società in generale, così come questa appare oggi
costituita in termini di nuovi valori emergenti e tradizionali da sempre presenti e
come questi collidono o convivono nell’era della post-modernità; la dimensione
familiare anche questa nella considerazione dello scarto che si è venuto a creare tra
vecchi modelli e nuove esigenze e che ne hanno determinato lo spostamento da un
modello familiare più prettamente “comunitario”, identificato dal sistema dello ie, ad
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un modello sempre più nucleare e tipicamente “occidentale” che ha comportato di
certo un crollo di sicurezze e di conseguenza un certo modo di vivere isolato e
separato; dalle modificazioni del modello familiare si è ritenuto opportuno accennare
alla particolare e specifica importanza che viene in contrasto ad assumere, per il
lavoratore, il mondo dell’azienda che si erge spesso come un vero e proprio sostituto
della famiglia e non solo in termini di spendibilità dei tempi e degli spazi, ma anche
dell’investimento emotivo che si ha nei confronti di questa: all’eclissi della famiglia
si contrappone un investimento, talvolta eccessivo, nella dimensione lavorativa, che
si istituisce come il vero ie e che delimita l’unico spazio fisico e affettivo a cui il
lavoratore sente di appartenere. Un discorso ulteriore merita il particolare sistema
scolastico giapponese giacché esso offre una chiara lente a partire dalla quale
comprendere non solo le dinamiche del conformismo e delle forti pressioni sociali a
cui si è costretti a partire sin dai primissimi anni di scuola, ma da anche modo di
evidenziare come in considerazione di tali fattori e delle delicate fasi di vita che il
periodo scolastico abbraccia, il fenomeno dell’Hikikomori trova un terreno fertile
dove crescere e diffondersi trasversalmente: i dati relativi al futoko, l’abbandono
scolastico, e allo ijime, il bullismo, sono in crescente ed allarmante aumento e
sebbene non esauriscano l’eziologia del fenomeno dell’Hikikomori, evidenziano un
malessere sempre più diffuso e sempre meno gestibile da parte dell’individuo. Un
malessere che, così come discusso, non riguarda solo l’hikikomori, ma anche
fenomeni altri che per il fatto stesso di istituirsi come una sorta di ribellione nei
confronti di un sistema sociale che opprime, vengono spesso confusi con
l’hikikomori, è questo il caso degli otaku, dei NEET e dei freeter.
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Nel secondo capitolo, ci si è preposti di trattare la delicata questione di “amae”,
quella dipendenza che nella cultura giapponese assume sfumature particolarissime e
irriducibili ad altre culture. Parlare del concetto di amae, ci dà modo di tentare di
spiegare non solo il peso e la positiva accezione che la cultura del conformismo
assume in Giappone, ma di comprendere come, diversamente da quanto accade
altrove, la stessa dipendenza e nei confronti del gruppo e nei confronti della famiglia
è incoraggiata ad ogni fase della propria vita, tanto che processi come quelli di
individuazione o di separazione diventano una vera e propria chimera in un contesto,
come quello giapponese, in cui gli stessi concetti di autonomia e libertà appaiono
intrisi di una forte ambiguità che condanna chiunque persegua la sua strada ad essere
tagliato fuori dal gruppo e marchiato come “disertore” della società, in un ambiente
in cui l’esistenza è riconosciuta solo se è riconosciuta l’appartenenza ad un gruppo.
La particolare dimensione di amae rimanda alla centralità del rapporto tra madre e
figlio, centralità che viene rinnovata e assume sfumature francamente distorte e
spesso non comprensibili nella misura in cui il figlio pratica hikikomori, e che al
contempo può leggersi come causa, ma anche effetto dell’hikikomori stesso.
Del concetto di amae in relazione a quella che è la dimensione familiare si è discusso
più a fondo nel corso del terzo capitolo in cui si è tentato di esplorare il fenomeno
dell’hikikomori in relazione al sistema familiare che solitamente si traduce in una
madre eccessivamente presente ed un padre presente nella mente del figlio in forza
della sua assenza. Nel corso del capitolo si è anche affrontata la delicata questione di
ciò che Hikikomori significhi e di come questo viene a costruirsi e quindi a definirsi
agli occhi non solo della comunità scientifica, ma anche della società in generale. Ciò
che emerge ad una prima analisi della letteratura di riferimento è una effettiva
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confusione che ruota attorno all’argomento: se da una parte infatti si ha un
sostanziale accordo sul fatto che l’hikikomori non implichi in alcuna maniera una
patologia mentale, dall’altra l’incapacità di comprendere come realmente si configuri
tale fenomeno fa sì che la questione fondamentale della dimensione del malessere a
cui questo rimanda, venga ad essere sopraffatta dalla necessità di trovare cause
“obiettive” e definizioni specifiche di “cosa” sia l’hikikomori, tralasciando la
dimensione personalissima e più prettamente esistenziale di “chi” fa hikikomori. A
tal motivo, nel presente lavoro si è giudicato opportuno affiancare alle definizioni e
argomentazioni specifiche sull’hikikomori e sulle cause (o presunte tali) di questo -
che vengono a ridursi a tre fondamentali dimensioni: la società, la famiglia e la
scuola/mondo del lavoro-, una dissertazione più prettamente fenomenologica su ciò
che implica o può implicare l’esserci e il costituirsi dell’hikikomori. Si è ritenuto
pertanto pertinente condurre il discorso dall’hikikomori in quanto fenomeno sociale,
all’hikikomori in quanto modalità di essere propria della persona in relazione a
quello che è lo strutturarsi di questa nello sguardo dell’altro: uno sguardo che può in
certo senso “distruggere” – come accade nel discorso sartriano- o una sguardo che
invece può salvare – come accade invece nel discorso di Binswanger- , ma che in
ogni caso istituisce la dimensione stessa dell’essere e dell’esserci della persona
nell’incontro, sia che questo sia effettivo, sia che questo, come nel caso
dell’Hikikomori, sia negato sia affettivamente che effettivamente attraverso
l’ostacolo fisico della porta chiusa.
La porta chiusa che è metafora della stessa chiusura al mondo che pervade il vissuto
Hikikomori, introduce il delicato problema dell’intervento e della riabilitazione.
Posta l’ambiguità in cui chi fa hikikomori vive in termini di fuori e dentro, voglia di
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vivere e ansia di dover sopravvivere ad un sistema a cui non si sente di appartenere
ma a cui allo stesso modo si cercano modi personalissimi di appartenenza, ciò che si
pone come potenzialmente problematico è la questione della “riabilitazione” della
sfera dell’incontro e dell’alterità. Come far si, allora, che lo sguardo possa
attraversare mura e silenzi e indurre un effettivo cambiamento nella modalità di
viversi e di vivere l’altro e il mondo esterno?
La delicata questione dell’intervento e della riabilitazione dell’hikikomori è
affrontato nel corso del quarto capitolo, anche qui, ciò che emerge è la sostanziale
eterogeneità non solo dei modi di “leggere” il fenomeno, ma anche e di conseguenza
dei diversi modi di intervenire su di esso. Quello che tuttavia emerge in maniera
ancora più chiara e problematica è un’indefinita cornice di senso che non solo
condanna l’individuo che pratica Hikikomori ad una solitudine resa ancora più
esacerbata dal sostanziale rifiuto che gli accorda la società più in generale, ma altresì
limita l’intervento stesso di coloro i quali si occupano della loro riabilitazione:
l’urgenza terapeutica che richiama tale fenomeno non trova un’adeguata risposta
nella fattualità della pratica riabilitativa giacché gli stessi terapeuti e volontari, che
del fenomeno si occupano in prima persona, denunciano la sostanziale incapacità e
talvolta impossibilità della famiglia e più in generale della società di rendersi
effettivamente conto della problematicità del fenomeno stesso.
Un ultima riflessione, posta al termine del quarto capitolo fa rifermento alla possibile
“esportabilità” dell’ Hikikomori verso confini occidentali. Se ci si affranca infatti
dalla specifiche modalità di costituirsi di questo in Giappone, modalità giustificabili
dalla particolare connotazione della struttura sociale e della dimensione culturale, si
può concordare sul fatto che un fenomeno come l’Hikikomori non è estraneo a
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territori e contesti altri dal Giappone, giacchè se questo si configura in generale come
nuovo malessere prodotto dalla nuova modernità, esso si costituisce anche come una
nuova modalità di risposta a tale modernità che rimanda essa stessa ad un disagio che
è comune all’uomo odierno al di là di spazi e territori fisici: il rischio
dell’alienazione, lo spettro di una solitudine esistenziale tale da rendere l’insieme di
tutti gli individui e il malessere che ciascuno trascina come una zavorra privata, una
moltitudine sola, dove l’isolamento dell’Hikikomori, va paradossalmente a definirsi
come un silenzioso atto di accusa nei confronti di ciò che dell’umano è stato
dimenticato, ma allo stesso tempo si istituisce come un (necessario) avvertimento di
quanto poco “a misura d’uomo” il mondo stia sempre più definendosi.
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Cap 1. La società degli Hikikomori
“Deku kugi wa utareru”
[Il chiodo che sporge lo si martella forte]
(Proverbio Giapponese)
1.1 Considerazioni sociologiche e culturali sul Giappone della post-modernità
Affrontare il discorso sull’Hikikomori non può esularci dal tracciare una cornice,
quanto più esaustiva, del retroterra sociale e culturale che rende così fertile lo
sviluppo di tale fenomeno. A tal motivo non ci si può esimere se non dall’analizzare,
quanto dal descrivere le principali dimensioni dell’individuo in rapporto alla società:
gruppo e famiglia innanzitutto per poi accennare alla delicata questione della
dimensione educativa e lavorativa che assume in Giappone una rilevanza non
indifferente nel definirsi e diffondersi del fenomeno Hikikomori.
Le presunte differenze tra la cultura occidentale e quella giapponese sono
comprensibili dalla considerazione dei diversissimi contesti storici e culturali in cui
esse si sono sviluppate. Il Giappone per secoli ha vissuto e prosperato come un paese
sakoku (chiuso), in particolare durante il periodo Edo
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, ma il cambiamento più
significativo è forse quello avvenuto in seguito alla scoppio della seconda guerra
mondiale e non solo a motivo dei tristi fatti di Hiroshima e Nagasaki, ma per la
sempre maggiore influenza (e invasione) esercitata dall’Occidente e in particolare
dagli Stati Uniti.
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Il periodo Edo comprende il lasso di tempo che va dal 1600 al 1868, in particolare qui si fa
riferimento ai fatti del 1853,periodo a cavallo tra l’era Edo e l’era Meiji, quando il Giappone fu
“forzato” ad riaprire i suoi contatti (commerciali ed industriali) con il mondo, in seguito all’arrivo del
commodoro americano, Matthew Calbraith Perry. Cfr. Kenneth G. Henshall. Storia del Giappone,
Mondadori, 2005.
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