4
sue numerose manifestazioni. Il problema della Riforma in Italia, dai suoi primi 
successi al suo esaurirsi, si estendeva nella sua opera fino ad includere il contesto 
storico nel quale la riforma si era sviluppata. La documentazione non si limitava 
agli scritti teologici ed ai processi inquisitoriali, ma veniva corredata da fonti 
amministrative di Chiesa e Stato.  
Ma il grande classico per eccellenza della storiografia del ‘900 su questi 
temi è il libro Eretici italiani del ‘500 di Delio Cantimori destinato ad incidere 
sugli studi religiosi cinquecenteschi più del libro di Federico Chabod anche 
grazie all’appassionato magistero che l’autore esercitò. Il libro ha una lunga e 
complessa storia
4
. In questa sede basti accennare che esso fu basato su ricerche 
effettuate in archivi e  biblioteche di tutta Europa e che il momento fondamentale 
in cui il progetto di Cantimori prese corpo fu durante il suo soggiorno a Basilea. 
La ricerca di Cantimori fu soggetta ad una faticosa elaborazione ed il progetto 
iniziale del libro fu cambiato varie volte in corso d’opera a causa della crisi 
intellettuale e morale dell’autore che segnò il passaggio, attraverso la mediazione 
di Benedetto Croce, dalla storia del pensiero filosofico alla storia “delle dottrine e 
dei movimenti politici”
5
.  
Nel frattempo Cantimori si era dedicato alla lettura attenta sia degli studi 
di Francesco Ruffini, di Pierre Imbart de la Tour, di Lucien Febvre, di Marcel 
Bataillon, di Werner Kaegi, di Hubert Jedin, sia degli studi antitrinitari e 
sociniani che in quegli anni svolgevano studiosi americani come Earl Morse 
Wilbur e Roland Bainton
6
. Così Cantimori scoprì gli eretici. Non quelli i cui 
nomi ricorrevano in tutti gli studi sia cattolici che protestanti, bensì gli eretici per 
antonomasia, eretici che fossero stati tali per tutte le chiese in conflitto, ribelli al 
concetto stesso di ortodossia teologica, contro il calvinismo svizzero come contro 
il cattolicesimo e il luteranesimo, rivendicando la libertà di ricerca e di 
discussione teologica. Seguendo questi eretici nei loro ardui percorsi religiosi che 
                                              
4
 Sulla lunga ed intensa gestazione del libro: A. Prosperi, Introduzione, cit., pp. XI-LXIV. 
5
 Ibid., p. XLIII. 
6
 M. Firpo, La riforma italiana del Cinquecento, cit., p. 32. 
  
5
li avevano condotti all’esilio in Svizzera, in Inghilterra, in Moravia, in Polonia e 
in Transilvania, Cantimori ne rilevò le esili tracce affidate a una documentazione 
frammentaria. Il libro di Cantimori ci mette di fronte ad un mondo sotterraneo, 
quello “degli anabattisti, degli spirituali, delle sette religiose, dei gruppi che nel 
bel mezzo del Rinascimento rinnovavano il primitivo comunismo cristiano...”
7
, 
mondo che poteva essere studiato soltanto attraverso la raccolta di indizi. Se 
negli Eretici Cantimori aveva espresso la necessità di scavare nelle premesse 
culturali e sociali di quelle idee e di quegli uomini fuggiti dall’Italia, più tardi si 
manifestò il bisogno di “affrontare la storia degli eretici come spia di una storia 
più vasta, quella delle idee religiose nell’Italia del ‘500 […]. Si partiva 
dall’evangelismo e non dal Valla o dal Ficino, cioè dal mondo di attese e di 
inquietudini diffuse del primo Cinquecento, e si arrivava non più al Sozzini ma al 
De Dominis, cioè all’eretico che torna in Italia e muore sconfitto e deluso”
 8
. 
Appariva dunque in primo piano il problema di una conoscenza più approfondita 
della storia d’Italia, poiché le interpretazioni storiografiche si rivelavano 
definitivamente inadeguate sia per la storia religiosa italiana del Cinquecento che 
per la Riforma protestante. Cantimori pensava ad una “storia della cultura 
religiosa in Italia nel Cinquecento” che avrebbe dovuto comprendere un capitolo 
sulla “devozione popolareggiante (Pietro da Lucca e le sue concezioni ecc.)” ed 
uno su “santi, sante, visionarie, profeti e profetesse, eremiti e solitari”
9
. Grazie 
alle indagini di Cantimori ed al lavoro dei suoi numerosi allievi si è aperto un 
filone di ricerca attento non soltanto allo studio dell’emigrazione ereticale, ma 
anche e soprattutto all’analisi della vita religiosa italiana del Cinquecento. In 
questa nuova prospettiva storiografica rivolta dunque anche allo studio ed 
all’analisi di casi particolari, si collocano più di recente le ricerche di diversi 
specialisti, quali, per esempio, quelle di Gabriella Zarri. 
                                              
7
 D. Cantimori, Serveto e Lelio Sozzini, in “Religio”, XII, 6 novembre 1936, pp.414-438 
8
 A. Prosperi, Introduzione, cit., pp. XI-LXIV, pp. LX-LXII. 
9
 Ibid., p. LXI. 
  
6
Prendendo in esame l’esperienza del sacerdote don Leone Bartolini 
Gabriella Zarri approfondisce, per la prima volta, il tema della direzione 
spirituale come oggetto di ricerca a sé stante. Inoltre l’autrice, attraverso questo 
studio, intendeva proporre una testimonianza che mettesse in luce anche il ruolo 
esercitato dalle donne nella Riforma cattolica
10
. L’esperienza di don Leone 
Bartolini permette di ricostruire, tra la fine degli anni quaranta del Cinquecento 
ed il decennio successivo, due episodi di direzione spirituale: uno comunitario ed 
uno individuale; e la scelta del direttore di passare dall’uno all’altro fu peculiare 
di un cambiamento avvenuto nell’uso della direzione spirituale nella prima età 
moderna. Se agli inizi del ‘500 la direzione spirituale si esprimeva in una cura 
d’anime a carattere più, in un certo senso, popolare, anche se ristretta ad élites 
laiche e devote, in epoca post-tridentina il direttore spirituale stabilì un legame 
privilegiato con la devota e la cura delle anime non fu più intesa in senso 
comunitario ma in senso strettamente individuale
11
. Il legame di don Bartolini 
con le devote era di totale fiducia; le donne dirette dovevano annullare l’amor 
proprio attraverso la rottura della volontà che poteva rappresentare un ostacolo 
durante il percorso ascetico verso l’illuminazione interiore. Il direttore spirituale 
era perciò l’autorità superiore alla quale le donne obbedivano, autorità che non 
teneva conto delle gerarchie sociali e familiari e che dunque poteva anche essere 
in conflitto con l’autorità della famiglia. 
 Il processo inquisitoriale in cui fu implicato don Leone Bartolini fu volto, 
secondo Gabriella Zarri, non tanto a combattere la presunta portata eterodossa 
della sua dottrina, quanto a ridimensionare un’esperienza che poteva apparire 
lesiva per l’autorità ecclesiastica che, in quel preciso momento storico, aveva 
                                              
10
 G. Zarri, Il carteggio tra don Leone Bartolini e un gruppo di gentildonne bolognesi negli anni 
del concilio di Trento (1545-1563), “Archivio italiano per la storia della pietà”, VII, 1986, pp. 337-885. Il 
magistero di don Leone Bartolini, che si era formato sotto la guida del domenicano lucchese Vincenzo 
Arnolfini, presenta affinità con quello di fra’ Battista da Crema (cfr. il secondo ed il quarto capitolo della 
presente tesi). 
11
 Ibid. 
  
7
bisogno di riaffermare il proprio potere anche e soprattutto attraverso le 
istituzioni locali. 
Il caso di Paola Antonia Negri, per certi versi affine a quello di don Leone 
Bartolini poiché anche lei era l’autorità carismatica e la madre spirituale di un 
gruppo elitario, è il più rappresentativo in assoluto del cambiamento del clima 
culturale di quegli anni.  
Ancora Gabriella Zarri, attraverso le sue ricerche, ha mostrato come le 
donne ritenute dotate di poteri straordinari (estasi, profezia, poteri taumaturgici), 
tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, fossero venerate come “sante vive”, 
godessero del favore dei principi ed infine si raccogliessero attorno ad esse 
cenacoli di devoti
12
. È facile immaginare come queste donne, grazie alle loro 
capacità profetiche e divinatorie, riuscissero a dirigere le coscienze di personaggi 
insigni.  
Le “sante vive” ebbero visioni tranquillizzanti durante la crisi degli stati 
italiani;  ciò nonostante le visioni restavano “una pericolosa porta aperta sul 
futuro”
13
, in grado di dar corpo a vere e proprie congiure
14
, dimostrando, una 
volta di più, il legame tra profezia e politica. Ed è proprio la fine di questo 
legame che decretò la fine delle “divine madri”, delle “sante vive” e, più in 
generale, di tutte quelle donne che, in virtù di doni eccezionali, avevano la 
possibilità di “pre-vedere” il futuro
15
. Adriano Prosperi, nel suo saggio “Dalle 
                                              
12
 G. Zarri ha fornito una lettura delle fonti sia in una prospettiva di storia religiosa, che in quella 
delle problematiche proprie della storia della santità. Ha tracciato inoltre una mappa del fenomeno delle 
“sante vive” cercando di esaminare non la “santità” ufficialmente riconosciuta, ma la percezione e la 
rappresentazione della santità nel periodo storico stabilito. G. Zarri, Le sante vive, Torino, Rosenberg & 
Sellier, 1990; G. Zarri, (a cura di) Finzione e santità tra medioevo ed età moderna, Torino, Rosenberg & 
Sellier, 1991, p.11. 
13
 A. Prosperi, Diari femminili e discernimento degli spiriti: le mistiche della prima età moderna 
in Italia, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 1994, n. 2, p. 81; G. Zarri, Le sante vive, cit. 
14
 Per esempio la congiura peruviana che ebbe per protagonista una visionaria peruviana e il 
domenicano Francisco de la Cruz. Ibid., p.84 
15
 Un altro caso straordinario è quello di Francesca Fabbroni studiato da Adelisa Malena. Nel 
caso della Fabbroni, vissuta nella toscana del ‘600, e processata negli anni ’80 del secolo per “affettata 
santità”, quando i roghi di streghe erano ormai praticamente dimenticati, l’Inquisizione fu durissima. E se 
si cerca il motivo di tanto accanimento lo si può trovare in quella che l’inquisitore, il barnabita bolognese 
Costantino Fabbri, definì “l’ambizione politica” di Francesca. A. Malena (a cura di), Il velo e la 
maschera. “Santità” e “illusione” di suor Francesca Fabbroni (1619-1681), Città di S. Gimignano, 
  
8
divine madri ai padri spirituali” ha avviato la discussione sul problema del 
controllo o repressione delle manifestazioni di autorità femminile, attorno alle 
quali, agli inizi del Cinquecento, si erano concentrate le speranze di una riforma 
ecclesiastica che preludesse ad un rinnovamento generale della società
16
. 
Il carisma di queste visionarie era tale da affascinare, soggiogare, 
ammaliare gli spiriti, era un’arma che le donne in questione potevano usare per 
dirigere le coscienze in piena libertà e, a volte, in aperta contraddizione con le 
istituzioni ecclesiastiche. Per questo la Chiesa cattolica cercò in tutti i modi di 
controllare, di guidare e di ”appropriarsi” delle visioni delle mistiche, ed infatti, il 
legame fra donne visionarie e uomini di chiesa è un fenomeno che ricompare di 
continuo e conferisce ad esso un elemento persistente ma allo stesso tempo 
inafferrabile in tutta la sua portata. In seguito alle disposizioni tridentine la 
mistica di turno doveva essere sottoposta ad un regime di isolamento e di 
osservazione, attraverso il quale il confessore sarebbe riuscito a prendere 
possesso della coscienza della donna. Ma dalle denunzie, dalle lettere, dagli 
interventi delle autorità e dei poteri d’ogni tipo, appare come dietro a tutto questo 
si celi l’esigenza, tutta politica, di garantire la quiete pubblica e di impedire i 
grandi turbamenti collettivi che si generavano intorno alle donne con capacità 
divinatorie
17
. La Chiesa cattolica attraverso i Tribunali dell’Inquisizione riuscì a 
disciplinare i fenomeni di profetesse e visionarie intorno alle quali, come nel caso 
di Paola Antonia Negri, si erano formate comunità di fedeli che auspicavano una 
seria riforma ecclesiastica secondo principi evangelici. 
                                                                                                                                    
[s.n.], 2002; Ead, La distruzione della memoria. Il processo inquisitoriale di Francesca Fabbroni (1619-
1681), in “Rivista di Storia e Letteratura religiosa”, n. 3, 1996. 
16
 L’età tridentina segnò il passaggio dalle divine madri ai padri spirituali; furono riaffermate 
tutte le cautele ed i sospetti tradizionali in materia di visioni ed infine ci fu anche chi si preoccupò di 
puntualizzare tutti gli attributi maschili di Dio. A. Prosperi, Dalle «divine madri» ai «padri spirituali» in 
Women and Men in Spiritual Culture XIV-XVII Centuries. A Meeting of South and North, ed. by Elisja 
Schulte van Kessel, The Hague, Netherlands Governement Publishing Office, 1986, pp. 71-90. 
17
 A. Prosperi, Diari femminili e discernimento degli spiriti: le mistiche della prima età moderna 
in Italia,cit., p. 91 e 99. 
  
9
2. La “santa viva” e l’Inquisizione: lo straordinario caso di Paola 
Antonia Negri 
 
Indagando sulla storia della nascita dei chierici regolari della 
Congregazione di S. Paolo, ci si accorge che la bibliografia ufficiale barnabita 
sette-ottocentesca, ma anche quella della prima metà del ‘900, che da Premoli 
arriva fino a Boffito
18
, trascura la crudezza dei conflitti esplosi tra i membri della 
stessa. Il confronto con l’Inquisizione e gli scontri interni che furono scatenati 
dalle direttive degli inquisitori, spinsero alcuni confratelli ad abbandonare la 
congregazione con l’intento di fondarne un’altra che avesse caratteristiche simili 
all’esperienza che avevano abbracciato
19
. Studi recenti hanno cercato di 
riscrivere la storia dell’ordine e, abbandonando gli intenti agiografici
20
 e 
demolendo il quadro idilliaco che era stato disegnato da Premoli, hanno dato 
grande risalto al difficile percorso che la dottrina dei chierici regolari dovette 
compiere in tempi di Riforma luterana, quando bastava poco per attirare i fulmini 
dei censori e degli inquisitori.  
L’Inquisizione romana era stata fondata nel 1542 (ed aveva visto subito la 
fuga di due notevoli personaggi riformatori: Pietro Martire Vermigli e 
Bernardino Ochino) e nel 1545 era iniziato il Concilio di Trento. La risposta 
della Chiesa romana alla Riforma si fece via via più intransigente e molti gruppi 
considerati oggi “riformatori cattolici” divennero sospetti agli occhi degli 
Inquisitori
21
. 
                                              
18
 O. M. Premoli, Storia dei Barnabiti nel Cinquecento, Roma, Desclée & C., 1913; G. Boffito, 
Scrittori barnabiti o della Congregazione dei chierici regolari di S. Paolo: biografia, bibliografia, 
iconografia, Firenze, L. S. Olschki, 1933-1937, 4 voll. 
19
 Il tentativo fu bloccato da Michele Ghislieri che in una lettera a Besozzi dichiarava di aver 
sistemato i ribelli: “Il canonico di Udine Giovanni Francesco Raimondi è carcerato; Marco Pagano è 
scomunicato et così si proseguirà la lor causa”. O. M. Premoli, Storia, cit., p.146. 
20
 E. Bonora, I conflitti della Controriforma, Firenze, Le Lettere, 1998. Si vedano anche i diversi 
contributi di Giusepe Maria Cagni e Sergio Pagano in “Barnabiti Studi”. 
21
 Ad esempio fra’ Battista da Crema sul Dictionnarire de Spiritualitè alla voce Direction 
Spirituelle en Occident è menzionato come uno dei maggiori esponenti della “riforma cattolica” italiana. 
Dictionnaire de spiritualité, Paris, Beauchesne, 1957, vol. III, col. 1108-1109. 
  
10
I problemi dei Chierici Regolari di S. Paolo decollato (Barnabiti) e delle 
comunità di S. Paolo converso (Angeliche) e apostolo (Maritati), iniziarono in 
seguito ad un bando locale.  Le motivazioni che spinsero, nel 1551, il consiglio 
dei Dieci a cacciare i paolini dal veneto furono diverse. In primo luogo 
motivazioni politiche: l’amicizia della contessa Torelli con la principessa di 
Molfetta
22
 moglie di Ferrante Gonzaga e la frequenza con cui le comunità “si 
confessavano in pubblico”, cioè la frequenza con cui tenevano i cosiddetti 
“capitoli delle colpe”, insospettirono l’autorità statale veneta, la quale temeva che 
il governatore di Milano potesse carpire segreti di Stato attraverso queste 
“confessioni pubbliche”. Significativo a questo proposito l’ordine da parte del 
Consiglio di distruggere il confessorio
23
. Le preoccupazioni del consiglio dei 
Dieci si estendevano però anche alla necessità di mantenere una certa tranquillità 
ed ordine sociale, cosa che si era rivelata difficoltosa dal momento che molti 
patrizi ed uomini di governo decidevano di punto in bianco di entrare nell’Ordine 
milanese dei chierici regolari. Infine, pesarono certamente i contrasti 
giurisdizionali in materia di fede iniziati nei primi anni del sec. XVI tra il 
governo veneziano e la curia
24
.  
In un primo momento il Consiglio dei Dieci tentò di convincere il Nunzio 
papale che erano indispensabili disposizioni contro le comunità paoline. Infatti il 
2 agosto 1550 il nunzio Ludovico Beccadelli scrisse a Girolamo Dandino che 
occorreva un provvedimento inquisitoriale per mettere a tacere gli “scandali” 
provocati dalla “setta della Guastalla” ed il 6 settembre dello stesso anno 
l’Inquisizione aveva ordinato ad Annibale Grisonio di mettere insieme 
                                              
22 
Isabella Di Capua, primogenita di Ferrante Di Capua, principe di Molfetta e moglie del 
governatore dello Stato di Milano don Ferrante Gonzaga. P. Litta, Famiglie celebri italiane, vol. XXXIII, 
tav. VIII. C. De Gioia Gadaleta, Isabella de Capua Gonzaga: Principessa di Molfetta-Signora di 
Guastalla: spunti e documenti per una biografia, [s.l.;s.n.], 2003.
 
23
 O. M. Premoli, Storia, p. 101. 
24
 Venezia cercò di difendere il proprio territorio dall’ingerenza ecclesiastica tentando di 
controllare l’Inquisizione con i propri rettori e con il Consiglio dei Dieci. A. Del Col, Organizzazione, 
composizione e giurisdizione dei tribunali dell’Inquisizione romana nella repubblica di Venezia (1500-
1560), in “Critica Storica”, XXV, (1988), pp.244-294; ead., L’Inquisizione romana e il potere politico 
nella repubblica di Venezia (1540-1560), in “Critica Storica”, XXVIII, (1991), pp. 189-250; A. Prosperi, 
Tribunali della coscienza, Torino, Einaudi, 1996, pp. 83-103. 
  
11
testimonianze che dovevano servire per eseguire un processo a carico della 
Contessa di Guastalla
25
. 
A questo punto ci si aspetterebbero delle accuse precise formulate contro i 
chierici; invece gli atti del consiglio dei Dieci non menzionarono tra le 
imputazioni né motivi di ordine politico né formularono accuse di eresia verso le 
comunità, ma agirono in modo molto discreto, cercando di non divulgare le 
ragioni del bando per evitare che l’episodio acquistasse rilievo e clamore, e forse 
anche per non doversi giustificare troppo presso la curia romana.  Le imputazioni 
furono tutte a carico della “santa viva” Negri
26
. Una divina madre che sapeva “i 
secreti del cuore”, che “fa far le pubbliche confessioni”, che “dà le penitenze”, 
che “tien la preminenza sopra li sacerdoti”, ed infine una divina madre milanese 
“di troppa autorità”, che convertiva “a vita spirituale” molti patrizi e cittadini 
veneti portandoseli dietro a Milano, non poteva non suscitare i sospetti prima 
della comunità veneta e poi delle autorità dello Stato
27
. Conviene ricordare a 
questo proposito che nel 1542 anche Camilla Pallavicini fu bandita da Venezia 
“perché la si ingeriva in cose di Stato ed era molto famigliare dell’ambasciatore 
di Francia sotto coperta di Santità”
28
. Inoltre nel testo del bando non si faceva 
menzione di nessuna accusa, e nemmeno in esso si nominava la divina madre 
Negri né la contessa Torelli, ma si facevano i nomi di personaggi secondari come 
madonna Laura milanese, Paolo Melso e Girolamo Maria Marta
29
. In più bisogna 
                                              
25
 ASU, Decreta 1548-1558, c. 33v. 
26
 Mentre le imputazioni fatte alla Negri erano sostanzialmente esatte, risultano prive di riscontri 
effettivi le accuse sulla frequente comunione “che li detti sacerdoti hanno comunicato una persona più 
volte in un medesimo giorno” e quelle della mancata osservanza del digiuno da parte delle Angeliche 
“che nelli hospedali le donne della congregazione cenano et desinano in giobbia santa”. O. M. Premoli, 
Storia, cit., p. 100-101. 
27
 Si veda in proposito E. Bonora, I conflitti, cit., cap. VIII. 
28
 G. Zarri, Le sante vive, cit., p. 128n. 
29
 Madonna Laura è, secondo Premoli, Laura Meravigli, nobildonna milanese. Paolo (Giovanni) 
Melso di Udine era dottore in legge e prima di entrare a Milano tra i padri di S. Paolo si trovava a Vicenza 
in qualità di Vicario Pretorio e Giudice de’ malefici. O. M. Premoli, Storia, cit., p.64; Gerolamo Marta, 
che poi si farà carico della ricostruzione dell’Ordine riformato assieme a Gian Pietro Besozzi, fu uno dei 
primi padri a pronunciare i voti religiosi. Risentì moltissimo del bando perché era veneto e godeva di una 
certa influenza nella società aristocratica di Venezia. Fu lui che, tramite il Nunzio Ludovico Beccadelli, 
chiese che il consiglio dei Dieci palesasse le ragioni del bando. O. M. Premoli, Storia, cit., pp. 99-100. 
  
12
aggiungere che solo dietro una precisa richiesta del Nunzio papale sulle cause 
che avevano determinato l’espulsione delle comunità paoline dal territorio veneto 
il governo veneziano rispose, ma in modo molto generico e approssimativo
30
, 
segno inequivocabile che la questione doveva rimanere tra i paolini ed il 
Consiglio dei Dieci e non doveva coinvolgere Roma. 
Ma la macchina inquisitoriale si mise in moto ugualmente, e ironia della 
sorte, proprio a causa dell’opposizione dei paolini al bando. Nel 1552, due padri 
scelti dalla comunità (Besozzi e Melso), andarono a Roma per chiedere alla Santa 
Sede il permesso di poter tornare nel veneto
31
, ma, contrariamente alle 
aspettative, furono presi ed rinchiusi. L’inchiesta inquisitoriale che ne seguì 
rappresentò una svolta decisiva nella storia della Congregazione dei chierici 
regolari di S. Paolo che, in seguito al processo romano, furono costretti alla 
ricostruzione completa dell’ordine. Il tribunale che li interrogava si stava 
organizzando per diventare quello che poi sarebbe diventato secondo il disegno 
del cardinale Carafa: un supremo organo gerarchico in grado di annientare 
qualsiasi dissenso religioso. Proprio nello stesso anno si assisteva al contrasto tra 
gli “spirituali” e gli “intransigenti” che sarebbero usciti vincitori dallo scontro 
grazie allo stesso Carafa che si oppose al papato del cardinal Pole formulando 
accuse di eresia a suo carico. Ed ancora, lo stesso Carafa dal 1552 aveva iniziato 
a raccogliere materiale per montare un processo di eresia a carico di Giovanni 
Morone
32
.  
Anche Ignazio di Loyola, accusato in patria di “alumbrandismo” e 
incarcerato, liberato e di nuovo accusato dai domenicani, che misero in 
                                              
30
 Cfr. il capitolo seguente. 
31
 La decisione di non scrivere al Consiglio dei Dieci ma di andare a Roma a fare appello a papa 
Giulio III fu presa durante il capitolo del 13 maggio del 1551: “In capitolo generale propose il R. P. 
Proposto se si doveva far provvisione circa il dishonor del ministerio di Giesù Christo, et detrimento di 
molte anime, per la licentia havemo havuto dalli signori venetiani, per la quale ne è nasciuta una infamia 
opponendone in diverse cose, et propose che  si scrivesse alli Eccellentissimi Capi di X. Et circa ciò, dette 
diverse ragioni, fu concluso quasi da tutti, che non si scrivesse a Venezia, ma che si mandasse a Roma, a 
piedi della Santità del Pontefice”. ASBR, Atti Capitolari, S. III, f. 15/v. 
32
 M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone e il suo 
processo d’eresia, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 218 e seg. 
  
13
discussione l’ortodossia degli Esercizi Spirituali, quando giunse in Italia ebbe 
diversi motivi di contrasto con il terribile Gian Pietro Carafa che, al risentimento 
che nutriva verso i primi Gesuiti in quanto spagnoli, aveva unito il rancore 
derivato dal rifiuto di Ignazio di fondere i Gesuiti con i Teatini
33
.  Ma, a 
differenza dei Chierici Regolari di S. Paolo, i Gesuiti riuscirono a guadagnarsi la 
provvidenziale stima di Paolo III prima e di Giulio III poi
34
.  
D’altra parte lo stesso storico barnabita Premoli ebbe qualche problema a 
scagionare il Carafa della sua avversione verso fra’ Battista visto che in una 
lettera a S. Gaetano Thiene egli annunciava in questo modo la morte del 
domenicano: “Jam enim Baptista extra gremium Religionis, apud Castellum 
Vastallam ex longa aegritudine mortuus est primo die mensis huius. Faciat 
Dominus misericordiam cum illo et adiiciat quod oratio non praesumit”
35
. 
E comunque è nota la lettera che Gian Petro Carafa indirizzò a fra’ 
Battista nel 1532, dove egli disapprovava e rimproverava duramente il suo vivere 
“apostata” in casa della contessa Torelli
36
.  
                                              
33
 Questo risentimento secondo A. Guerra “era frutto di un più ampio progetto politico-
ideologico che mirava a restituire l’indipendenza al Regno di Napoli, in vista di una “libertà d’Italia” con 
centro sulla Santa Sede”. A. Guerra, Note a margine della vita religiosa nel Cinquecento: i primi Gesuiti, 
in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, n. 1/2000. 
34
 Ibid. 
35
 O. M. Premoli, Fra’ Battista da Crema secondo documenti inediti, Roma, Desclée & C., 1910, 
p. 43. Questo il commento di Premoli alle parole di Carafa: “In genere gli storici di cose barnabitiche 
interpretano quel “extra gremium Religionis…mortuus est”, come volesse significare che frate Battista 
fosse morto, nella mente del Carafa, fuori dalla Chiesa. A noi sembra, se pur non è audacia l’andar contro  
all’opinione di molti, che la parola religio qui si debba intendere semplicemente per ordine religioso, e 
che quindi non si dica altro che fra’ Battista è morto fuori dell’ordine, perché “apud Castellum Vastallam 
ex longa aegritudine”, come si soggiunge subito. E poiché il Carafa crede di sapere che a Guastalla fra’ 
Battista dimorasse senza la debita licenza, esce nelle altre parole: “Dominus faciat misericordiam cum illo 
et adiiciat quod oratio non praesumit”. Qualcuno potrebbe obiettarci che a fra’ Battista era stato intimato 
anche con la bolla pontificia e sub anathematis poena di rientrare in convento et egli se ne moriva fuori. 
Ma si può replicare che al Carafa constava della malattia (longa aegritudine, come egli dice) del frate, 
malattia che lo metteva nella fisica impossibilità di ottemperare al precetto, mentre non consta affatto che 
il Carafa conoscesse l’ultimo tentativo fatto dai domenicani per riavere il loro confratello. Non essendo 
egli domenicano poteva benissimo ignorarlo e il non farvi acuna illusione è un argomento in più per 
dimostrare la sua ignoranza, giacchè tale allusione soltanto avrebbe potuto dare alle parole “extra 
gremium religionis” una portata che esse per sé non hanno”. Ibid. , p. 44. 
36
 Dal 1529 fra’ Battista dimorava, con il consenso dei superiori, a casa della contessa Torelli. M. 
Firpo, Nel labirinto del mondo. Lorenzo Davidico tra santi, eretici, inquisitori, Firenze, L. S. Olschki, 
1992, p.19. 
  
14
Fin da subito questa scelta arrecò a fra’ Battista non pochi problemi. Fu 
per questo motivo che i superiori del frate inoltrarono già dal 1530 diversi esposti 
alla curia, esposti che furono accolti da Clemente VII, il quale il 20 agosto del 
1530 emise un severo breve dove accusava fra’ Battista di aver ottenuto la 
dispensa di abitare fuori dal convento attraverso menzogne ed ordinava al suo 
superiore di ricondurlo al convento anche con la forza se necessario. Tutto ciò 
perché il Papa aveva ricevuto la notizia che egli predicava una “novam quandam 
doctrinam periculo heresiae et perturbationis”
37
. Sembra che dietro queste accuse 
si celassero i confratelli di fra’ Battista, i domenicani del convento delle Grazie 
che non sopportavano la vita da “apostata” del confratello e quel suo dimorare 
presso la corte di una vedova che in passato aveva dato scandalo per la propria 
condotta libertina
38
. Fra’ Battista fu costretto a ritornare in convento dove subì un 
processo dal quale fu scagionato dalle accuse di eresia, ma le polemiche e le liti 
tra il convento e la contessa erano destinate a durare fino alla morte del frate
39
.   
In seguito alla morte dei due leaders maschili e cioè fra’ Battista da Crema 
e Antonio Maria Zaccaria, la funzione di guida spirituale passò ovviamente a 
Paola Antonia Negri.  La divina madre già dal 1538 si firmava nelle lettere che, 
insieme ad Antonio Maria Zaccaria, indirizzava alle comunità paoline
40
 ed esiste 
addirittura una lettera autografa di Antonio Maria Zaccaria scritta in nome e per 
conto della Negri e siglata da lei
41
. Dal 1539 in poi fu un crescendo dell’autorità 
della Negri all’interno delle comunità paoline, soprattutto negli anni dal 1544 al 
1546 la sua fama ed il suo prestigio erano al culmine, come si può notare anche 
                                              
37
 S. Pagano, La condanna delle opere di fra’ Battista da Crema, in “Barnabiti Studi”, n. 14, 
1997,  p. 225. 
38
 E. Bonora, I conflitti, cit., cap. III, § 2. 
39
 S. Pagano, La condanna delle opere, cit., pp. 227 e seg. 
40
 Così nella lettera VI: “Padre Antonio Maria Prete e Madre A[ngelica] P[aola] A[ntonia]”; nella 
lettera VII: “Vostri in Cristo Padri e guide Antonio Maria prete e Angelica P[aola] A[ntonia]”; e nella 
lettera VIII: “Padre in Cristo Antonio Maria Prete e Madre io P[aola] A[ntonia] Negri”. S. A. M. 
Zaccaria, Lettere, Sermoni, Costituzioni, Roma, Ordine dei Barnabiti, 1996, pp. 23-30. 
41
 Ibid., pp. 41-42. È la famosa lettera XII indirizzata a Francesco Cappelli. 
  
15
dall’epistolario
42
. Appare fin troppo chiaro dagli Atti Capitolari (cioè i verbali 
delle riunioni tenute dai Barnabiti), quanto fosse venerata la sua figura e come, 
nel modo tipico delle “sante vive” si avvalesse delle sue estasi per ottenere 
legittimazione divina e far osservare le proprie disposizioni: “Et così doppoi a 
poco a poco ritornando in sé stessa spesso nominava li predetti officii dicendo, 
con grande consolatione de circonstanti, che Cristo voleva lui confirmare li 
predetti officiali”
43
. Così come, ancora negli Atti Capitolari, si può leggere che 
decideva sulle accettazioni dei novizi, che il suo parere era fondamentale 
nell’ammettere i padri alla professione religiosa, che impartiva punizioni 
esemplari, che nessuna decisione importante veniva presa senza la sua “corporal” 
presenza, che, quando era assente, controllava ugualmente la comunità, 
chiedendo ai discepoli di scrivere le loro “determinazioni” e di mandargliele
44
 ed 
infine che alcuni Barnabiti avevano fatto professione nelle sue mani
45
. Dobbiamo 
inoltre riconoscerle una straordinaria capacità di organizzare e governare i 
capitoli delle colpe, ossia quella pratica di accusa pubblica e di correzione 
fraterna che aveva caratterizzato la comunità sin dalle origini
46
. 
Ma, mentre il prestigio della divina madre cresceva, sia all’interno che 
all’esterno del gruppo, il clima religioso stava cambiando profondamente.  
Le aspirazioni della Negri, così come quelle di Battista da Crema, di 
Ignazio di Loyola, di Vincenzo Arnolfini, di Juan de Valdés o di Angela Merici 
erano quelle di costituire una ecclesia dove l’autorità non doveva più ricercarsi 
esclusivamente nella gerarchia ecclesiastica ma poteva essere riconosciuta in 
                                              
42
 Dal 1544 al 1546 scrisse 62 lettere, circa la metà dell’intero epistolario. A. M. Erba, Il “caso” 
di Paola Antonia Negri nel Cinquecento italiano, in Women and Men in Spiritual Culture XIV-XVII 
Centuries. A Meeting of South and North, ed. by Elisja Schulte van Kessel, The Hague, Netherlands 
Governement Publishing Office, 1986, pp. 202-205. 
43
 ASBR, S. II f. 57/r, 28 aprile 1546. 
44
 “Vi chiedo in dono, per l’honorata testa dil padre et maestro mio et vostro in questo giorno 
glorioso, una salda determinazione d’una vera trasmigrazione dal presente in un più perfetto stato, et che 
ciascuno di voi lo faccia col spirito avanti a Dio, et doppo la ponga in carta et me la mandi”. BVR, ms. 
Vallicelliano I 25, c. 197/v. 
45
 È il caso di Marco Antonio Pagani. BBV, Lettera giustificativa al Padre Generale, [s.d.], 
Misc. ms. 479, pp. 176-181. 
46
 ASBR, S. II f. 2/v. 
  
16
quel “padre” o “madre” spirituale dotati di quel particolare carisma che si 
fondava sulla conoscenza interiore e sul discernimento degli spiriti e che avrebbe 
permesso ai discepoli il raggiungimento della perfezione interiore. Ma tra il 
1542, anno dell’istituzione dell’Inquisizione ed il 1555-59, anni del pontificato di 
Paolo IV, tutti gli “spirituali” furono costretti a scegliere l’autorità a cui ubbidire: 
la Chiesa romana o le chiese riformate
47
. 
Di conseguenza, i poteri della Negri toccavano due punti dolenti: lei era la 
“guida carismatica” che in un certo senso “scavalcava” la gerarchia e l’autorità 
ecclesiastica
48
; e lei era una donna che comandava ad una comunità maschile. Se 
“il ruolo femminile nella vita religiosa italiana del primo Cinquecento non fu 
meno significativo della stagione più vivace delle «sante vive»”
49
, ora i tempi 
stavano cambiando, ed i confini tra donne e uomini, chierici e laici, autorità 
carismatica e autorità ecclesiastica, dovevano essere rigorosamente definiti.  
Infatti, dopo l’arresto dei due padri (Besozzi e Melso), fu immediatamente 
chiaro che quello che interessava all’Inquisizione non era tanto una 
giustificazione delle missioni che i paolini avevano portato avanti nel territorio 
veneto, ma piuttosto una ricostruzione completa di tutta l’esperienza religiosa dei 
chierici regolari, non solo per fugare qualsiasi sospetto di eterodossia, o per 
verificare quei sospetti che già nel 1530, con il breve di Clemente VII,  e nel 
1532, con la disapprovazione esplicita di Gian Pietro Carafa, aleggiavano sulla 
figura di fra’ Battista, ma soprattutto per sapere se la divina madre era “superiora 
agli homini” e se “cerca di sapere li pensieri de li homini”
50
. Infatti le accuse 
                                              
47
 G. Zarri, Dalla profezia alla disciplina (1450-1650), in Donne e fede a cura di L. Scaraffia e 
G. Zarri, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 198. 
48
 Si veda ad esempio il documento in cui nega a Giovanni Battista Caimo il permesso di fare la 
comunione: “[…] fu ordinato che il detto messer Giovanni Battista restasse privo della messa e della 
comunione […]”. ASBR, S. II, 28 aprile 1546, f. 56/r; oppure quello in cui vediamo il neo eletto proposto 
Besozzi  rilassarsi “con confidentia tutto nel crucifisso e nelle mani della d[ivina] madre nostra[…]”. 
ASBR, S. II, 28 aprile 1546, f. 24/r. 
49
 G. Zarri, Dalla profezia alla disciplina (1450-1650), cit., p. 199. 
50
 Lettera di Matteo Daverio alla Contessa Torelli del 3 febbraio 1552. O. M. Premoli, Fra’ 
Battista da Crema secondo documenti inediti, cit., p. 64. 
  
17
degli Inquisitori rimasero sostanzialmente le stesse che erano state formulate dal 
Consiglio dei Dieci e riguardavano perciò quasi esclusivamente la divina madre. 
Ma cosa successe veramente durante l’incarcerazione di Besozzi e Melso? 
I due padri, sulla base delle accuse del Consiglio dei Dieci, furono 
costretti a confessare in che cosa consisteva realmente la loro esperienza 
religiosa. E, in sostanza, la loro esperienza religiosa consisteva in questo:  ricerca 
della perfezione attraverso un severo percorso ascetico, apostolato attivo sia delle 
monache che dei chierici
51
, riunioni capitolari dove ci “si confessava in pubblico” 
(una definizione che semplifica eccessivamente la pratica del capitolo delle 
colpe), obbedienza alle direttive ed ai comandi di due donne che, dopo la morte 
di fra’ Battista ed Antonio Maria Zaccaria, erano rimaste le uniche due più 
anziane fondatrici: Paola Antonia Negri e la contessa Ludovica Torelli. Non solo, 
secondo la versione del barnabita “ribelle” Marco Antonio Pagani, la contessa 
Ludovica Torelli, per desiderio di convertire a vita religiosa uomini di Stato quali 
ad esempio Ferrante Gonzaga, invitava nel monastero le loro mogli, ed era molto 
intima della principessa di Molfetta, moglie appunto di don Ferrante. Antonio 
Pagani aggiunge perciò che, a causa della crescente presenza in monastero di 
queste principesse e della loro relativa servitù, la contessa Torelli disturbava la 
quiete della comunità poiché quelle signore erano invitate dalla stessa a mangiare 
ed a conversare in convento. Nonostante i diversi richiami della divina madre per 
allontanare le principesse dal monastero, la contessa Torelli non voleva 
acconsentire, perciò, a detta di Pagani, nacque un conflitto tra i due poteri 
                                              
51
 Secondo l’eredità spirituale di fra’ Battista che propugnava, nella scia della tradizione 
domenicana e tomistica, il primato della vita mista sia sulla vita attiva che su quella contemplativa. L. 
Bogliolo, Battista da Crema. Nuovi studi sopra la sua vita, i suoi scritti, la sua dottrina, Torino, SEI, 
1951, p. 57. Si vedano in proposito le osservazioni di G. Zarri: “L’aspirazione ad una vita religiosa mista, 
che media tra contemplazione e azione, non è, come si è detto, espressione tipica della realtà 
cinquecentesca. […] Ciò che appare nuovo nelle compagnie femminili di sant’Orsola o nell’esperienza 
delle prime Angeliche di San Paolo è il rifiuto del voto monastico, il richiamo alla vita apostolica e alla 
prima comunità cristiana come fondamento teologico di una forma di vita religiosa vissuta nel mondo, 
accompagnata dal distacco dalle precedenti strutture legate agli ordini mendicanti”. G. Zarri, Recinti. 
Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 459.