4
sconosciuti a noi occidentali e che sono relativi alle politiche di gestione delle risorse
umane nelle aziende. In particolare si fa riferimento alla flessibilità del fattore lavoro,
del ruolo di primo piano che rivestono i piccoli gruppi semiautonomi. Nelle aziende
giapponesi è presente un singolare dosaggio tra consenso, disponibilità e sistemi
incentivanti, tra comando e coinvolgimento, costrizione e partecipazione, accentramento
e decentramento allo stesso tempo dei saperi e dei processi decisionali. Sono questi i
fattori che hanno prodotto il successo del modello giapponese, e che nonostante stiano
emergendo anche da noi, nel loro contesto originario hanno appunto forti radici culturali
e storiche.
A questo punto si inserisce la ricerca, che è stata condotta in un transplant giapponese
in Sardegna: la Bridgestone Metalpha Italia S.p.A. L’azienda manifatturiera che si trova
a Macchiareddu (zona industriale di Cagliari), è stata acquistata dai giapponesi nel
1996. Essa ha sempre prodotto e continua a produrre “steel cord”, sottili cordicelle
metalliche che rafforzano i pneumatici.
La ricerca è stata condotta utilizzando lo strumento dell’intervista semistrutturata, nella
quale sono state coinvolte dieci persone rappresentanti in modo omogeneo la gerarchia
aziendale. L’intento è stato quello di avere un quadro il più possibile completo delle
ideologie e degli interessi dei diversi membri dell’azienda. E’ stata appurata così in
modo concreto, la possibilità di introdurre da parte del management, una politica
gestionale dell’azienda ispirata a principi e metodi tipicamente giapponesi. Si è
constatato poi come questa sia stata recepita e applicata dalla Direzione sarda.
Anche lo stesso personale operativo è stato coinvolto, in modo da poter appurare la
propria opinione sulla politica gestionale e se questa sia stata compresa e condivisa.
Trattandosi di un contesto diverso da quello originario, è stato opportuno identificare i
potenziali fattori moderatori, considerandone la natura e la forza. E’ stato anche
considerato il momento storico attraversato dall’azienda, che coincide con la
consolidata presenza dei dirigenti giapponesi nell’isola.
5
CAPITOLO 1
GIAPPONE: ASPETTI PSICO-SOCIALI E CULTURALI
ALLA BASE DELL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO
1.1. La cultura lavorativa
Per l’indagine della cultura lavorativa giapponese, Carbonaro e La Rosa (1995)
prendono come riferimento la seguente griglia orientativa. Questi autori considerano
due dimensioni concernenti la sfera lavorativa: la concezione dell’organizzazione e la
concezione di leadership. La prima risponde alle esigenze che derivano dalla divisione
del lavoro e del suo coordinamento; la seconda a quelle d’individuazione delle
responsabilità decisionali e di controllo in conformità al principio di autorità. Nel primo
caso si considera la polarizzazione tra organizzazione sistemica e organizzazione
organica e nel secondo quella tra leadership individuale e leadership di gruppo.
I quattro incroci consentiti dalla griglia non vogliono corrispondere alle culture
nazionali giapponese, italiana e cosi via, piuttosto sono i punti di riferimento intorno ai
quali immaginare altri incroci tra i vari gradienti del continuum che lega le due coppie
di poli. E’ nei punti d’incontro tra le due coordinate che è possibile collocare le diverse
culture, basandosi come metro di misura, sulle rappresentazioni collettive. Queste sono
presenti in ogni cultura e sono relative al tipo di organizzazione e ai ruoli dei singoli
membri in essa. Esse si articolano abbracciando argomenti istituzionali come la
previsione, la pianificazione, la raccolta e la trasmissione d’informazioni, la
misurazione dei risultati, e cosi via.
Cosi pure, esistono una serie di rappresentazioni sulla leadership, relative quindi a chi è
legittimato ad esercitare il potere decisionale e di controllo, coerentemente con la
struttura gerarchica del merito, della competenza e della responsabilità. Tali
rappresentazioni all’interno della stessa cultura variano da luogo a luogo e da un gruppo
sociale all’altro. Tuttavia si sostiene che la variazione sia maggiore nel confronto tra
culture nazionali diverse, mentre per ciascuna è possibile individuare dei tratti
dominanti.
Passando ad una descrizione dei quattro poli, l’organizzazione è sistemica quando si
basa su una precisa divisione dei ruoli e delle loro relazioni funzionali, secondo un
6
disegno razionale che sottende forme di contratto implicite. I ruoli sono ben delineati,
secondo i profili di un mansionario, in modo da poter controllare le azioni del singolo e
i conseguenti risultati. Tale tipo di organizzazione pertanto non lascia possibilità di
interventi soggettivi. Al contrario il polo opposto, quello dell’organizzazione organica,
già dal nome induce a pensare analogicamente ad un organismo vivente o ad una libera
associazione di persone che perseguono uno scopo condiviso. In questo tipo di
organizzazione, le persone sono ben disposte a passare da un ruolo all’altro a seconda
dei bisogni emergenti, correlati sia al variare nel tempo degli obiettivi condivisi, sia al
bisogno di mantenere fra i membri un alto grado d’integrazione ed evitare il rischio
dell’anarchia. Cosi, si capisce anche che i rapporti personali contano di più dei compiti
che le persone svolgono all’interno dell’organizzazione e anche i ruoli vengono
interpretati alla luce di un coinvolgente sentimento d’appartenenza.
Relativamente alla cultura della leadership, quella individuale parte dal presupposto di
una disuguaglianza tra le persone nelle capacità fisiche, mentali e morali. Le differenze
tra le persone (in ricchezza, potere, istruzione, accesso alle informazioni) vengono
legittimate dal sistema giuridico, cosicchè i migliori e i più efficienti assumono il diritto
ed il dovere di prendere le decisioni per conto di altri a loro subordinati.
La leadership di gruppo all’altro polo, non nega certo la diversità fra gli uomini ma
pone maggiormente l’accento sul diritto dei collaboratori di essere rappresentati per la
parte degli interessi che li riguardano in quanto membri dell’azienda e contributori a
vario titolo. La cultura della leadership di gruppo, riconosce che il peso dei singoli
contributi varia e che tuttavia ciascuno di questi è un indispensabile anello di una
catena. L’apporto complessivo all’impresa è maggiore della somma delle quote
individuali, perché esso è il frutto di un processo di lavoro coordinato. Da ciò deriva
l’interesse primario di tutti alla sopravvivenza dell’impresa, percepita come un rischio
comune.
Facendo leva su queste argomentazioni, i membri del gruppo considerano il detentore
della leadership come un’espressione della “volontà generale”, solo nella misura in cui
essi possono esercitare il diritto di essere interpellati, ascoltati, coinvolti nei processi
decisionali e quindi nello scambio d’informazioni (cfr. Carbonaro, La Rosa, 1995).
7
FIG. 1 Mappa delle culture lavorative secondo il modello di Carbonaro e La Rosa
(1995)
1
.
1.1.1. La collocazione nella mappa della cultura lavorativa giapponese
La cultura lavorativa giapponese è collocabile nell’incrocio tra una linea che parte da un
punto intermedio fra l’organizzazione sistemica e quella organica e una linea che parte
da un punto intermedio tra la leadership individuale e quella di gruppo (cfr. Carbonaro,
La Rosa, 1995). A questa collocazione direzionale, è opportuno aggiungere alcune
specificazioni. La cultura giapponese dell’organizzazione, si avvicina di più al polo di
organizzazione sistemica. I singoli soggetti vengono considerati funzionali ai ruoli e ai
gruppi, o alle squadre di lavoro; a loro volta gruppi e squadre di lavoro vengono
considerati funzionali al reparto o agli stabilimenti e questi ultimi ai dirigenti che
gestiscono l’impresa proprietaria. Le persone quindi s’identificano in un “noi” sempre
più allargato, fino all’azienda che viene percepita come una “grande famiglia” adottiva,
nella quale si riducono al massimo gli elementi conflittuali e contrattuali.
Per quel che riguarda la figura di capo, ciascuno di essi assume una delega di potere
1
Le culture meno distanti tra loro sono le a-c e le b-d perché condividono le dimensioni organizzative
sistematica o organica; le a-b e c-d perché condividono la dimensione della leadership o individuale o di
gruppo. Le culture più distanti restano a-d e c-b perché non hanno niente in comune.
ORGANIZZAZIONE
Sistematica Organica
Individuale
(a)
Esercito o
burocrazia
weberiana
(b)
La tribù o
comunità di
villaggio
L
E
A
D
E
R
S
H
I
P
Di gruppo
(c)
Lo sceriffo di
contea in Usa (il
magistrato eletto dal
popolo con funzioni
amministrative e di
potere)
(d)
Una banda di
fuorilegge o
un’associazione o i
gruppi di volontariato
per il “social help”
8
dall’alto e invia verso il basso solo responsabilità esecutive. Tuttavia ogni capo si
rivolge al gruppo per chiedere consigli, indulgenza ed adesione alla sua propria volontà.
Poiché le promozioni lungo la scala gerarchica avvengono non per meriti e competenze,
ma per anzianità, le riunioni e le discussioni sono anche una forma di rito ricorrente che
ribadisce ed alimenta le relazioni di deferenza. Queste ultime sono consonanti con
sentimenti di timore per il senso di vergogna che eventualmente un capo può arrivare a
sentire quando non corrispondesse alle attese dei suoi superiori, colleghi o dei suoi
subordinati.
L’incerta collocazione del Giappone nella mappa degli incroci tipologici, spinge ad
allargare l’indagine su altre dimensioni socio-culturali caratterizzanti il paese, che
spieghino le profonde radici storiche e culturali del toyotismo e delle collegate
innovazioni organizzative e manageriali.
1.2. La Struttura familiare
Il sistema familiare tradizionale nel contesto pre-moderno, ie seido, è rappresento da un
gruppo sociale che viene creato in un contesto residenziale stabilito. Ie si forma attorno
ad una famiglia-ceppo, costituita da unità nucleari associate in forza alle relazioni
genitori/figli.
Tuttavia essa è un’istituzione piuttosto flessibile e può incorporare anche parenti
allargati e non parenti, sotto forma di “adozioni” (cfr. Carbonaro, La Rosa, 1993).
Un primo principio importante che contraddistingue tale sistema familiare giapponese, è
che all’interno di esso sono considerati più importanti i rapporti umani di qualsiasi altro
rapporto. Così moglie e nuora che provengono da altre famiglie, sono considerate più
importanti delle proprie figlie e sorelle che si sono sposate e vivono altrove. Allo stesso
modo, un figlio che si è costruito una casa separata lo si considera appartenente ad
un’altra unità familiare. Ne consegue che i legami di parentela sono indeboliti, o meglio
questi legami hanno una funzione piuttosto debole all’esterno della famiglia. Vengono
meno quindi anche gli obblighi o i doveri nei confronti dei parenti che per un motivo o
per un altro si sono allontanati dal nucleo familiare di origine. Questi si limitano solo ad
avvenimenti formali come la partecipazione a matrimoni o funerali ed allo scambio
periodico di saluti e regali. Significativo a questo riguardo è il detto giapponese
“l’estraneità comincia dal fratello”, che spiega precisamente le idee dei giapponesi sulla
parentela (cfr. Nakane, 1997).
Ad esempio nei casi di fratelli che si differenziano per la condizione economica, il
9
fratello ricco non aiuta il fratello o la sorella più poveri, che a loro volta non oseranno
chiedere aiuto nei momenti di difficoltà. Allo stesso modo può capitare di parenti stretti
che vivono in condizioni sociali totalmente opposte, come nel caso in cui un fratello è
sindaco e l’altro di professione fa il postino. Un altro principio che caratterizza il
sistema familiare tradizionale giapponese è costituito dalle relazioni tra i membri, che
sono regolate strettamente dalle differenze di sesso e d’età, dalla posizione del singolo
nella linea di successione e dalla classe sociale (cfr. Benedict, 1993).
Godono di particolare prestigio nel processo formale di decisione i maschi e gli anziani
del gruppo, ma fondamentalmente la responsabilità nella gestione familiare rimane in
mano al capo-famiglia. La famiglia giapponese è autoritaria, poiché una decisione di
qualsiasi genere è presa unilateralmente dal capo-famiglia e non deve essere
contraddetta, in quanto ciò è segno di cattiva condotta e può turbare l’armonia del
gruppo. Le decisioni unilaterali potrebbero causare frustrazione in coloro che occupano
i ranghi inferiori della gerarchia e potrebbe portare anche ad un abuso di potere da parte
del capo-famiglia. Sebbene questo potere sia considerato di stretta pertinenza del capo-
famiglia, alla fine è il gruppo sociale che detiene il potere d’integrazione, che delimita il
comportamento ed il pensiero di tutti i membri, incluso lo stesso capo-famiglia.
L’unità familiare dev’essere mantenuta anche attraverso le generazioni ed ogni
generazione si deve sforzare di conservare il patrimonio familiare, e magari aumentarlo.
Nella successione si tiene conto del diritto di primogenitura, a meno che il figlio più
anziano sia considerato inadatto, a quel punto saranno scelti i figli più giovani. Nel caso
in cui si abbiano solo figlie, la primogenita viene fatta sposare con un uomo che
pertanto diventerà l’erede ed adotterà il suo cognome. Il successore deve mostrare
rispetto nei confronti dei genitori, cosi come vuole la morale confuciana, che si traduce
in una ferrea volontà ad agire a vantaggio del bene di tutti. Questo dovere assunto nei
riguardi dei genitori, è mediato e condizionato dal diritto di reciprocità.
Nonostante la pressione esercitata dalla gerarchia, si ha un’accettazione serena del ruolo
esclusivo all’interno della propria famiglia. Vivere in armonia col proprio ruolo, quindi
far fronte ai propri obblighi e responsabilità, è considerato il fondamento delle virtù
morali, che vengono informalmente sanzionate dalla propria coscienza, dalla comunità e
poi anche dalle leggi dei codici. In Giappone la consapevolezza di sé è fortemente
connessa al comportamento atteso in funzione del ruolo svolto. Il ruolo è idealizzato
nella mente di ciascun giapponese sotto forma di modello e direttive interiorizzate (cfr.
Carbonaro, La Rosa, 1995).
Tale sistema familiare ha radici molto profonde e lontane, risale infatti al medioevo il
10
concetto di ichizoku-roto, ossia di gruppo familiare e dei suoi vassalli. Si tratta della
prima costituzione di un gruppo sociale fondato sulla struttura, quella feudale, in cui i
membri di una famiglia ed i suoi dipendenti non vivono separatamente, ma formano
appunto un gruppo corporativo integrato. Si tratta di una famiglia allargata, in cui i
rapporti che legano i componenti del gruppo non sono solo di parentela, ma anche di
servitù.
E’ importante sottolineare che il gruppo corporativo fondato sulla struttura, è da
intendersi come l’unità fondamentale su cui è edificata tutta la società giapponese.
Ovvero i principi della struttura sociale giapponese di gruppo, possono essere ben
rappresentati dalla struttura della famiglia. Il concetto di ie, persiste ancora oggi nelle
varie identità di gruppo, definite col termine uchi, espressione colloquiale di ie.
Nel contesto moderno, la crescita industriale del paese ed il processo di
modernizzazione, hanno prodotto un nuovo tipo di organizzazione sociale, che consiste
nella creazione di unità produttive molto più grandi di una famiglia. La struttura formale
assomiglia a quella occidentale, tuttavia essa non coincide con quella informale. La
struttura familiare tradizionale è ancora presente nella coscienza collettiva, nonostante il
passare del tempo e i mutamenti avvenuti nell’organizzazione sociale. Oggi il ruolo
istituzionale di ie è svolto dall’impresa. Tutti i dipendenti si qualificano come membri
della stessa famiglia e l’imprenditore ne è capo. A sua volta “l’impresa-famiglia”,
coinvolge la famiglia del dipendente negli aspetti della vita non solo economici, ma
soprattutto sociali, quindi essa lo impegna totalmente. L’imprenditore si assume piena
responsabilità della famiglia del suo dipendente, in questo modo è l’azienda che assume
una primaria importanza per i dipendenti, e non i parenti che vivono altrove.
Ai fini del coinvolgimento totale del dipendente, non basta l’esistenza alla base di una
struttura solida come l’azienda, è necessario che i membri dello stesso gruppo
sviluppino un forte senso di unità. Per questo le aziende adottano un approccio emotivo,
che mira allo sviluppo della coscienza di gruppo, di un “noi”contrapposto a “loro”, che
consiste nel promuovere il contatto umano tra i dipendenti e che quindi pervade la sfera
privata e personale. In questo senso il gruppo non influenza solo le azioni
dell’individuo, ma anche le sue idee ed il suo modo di pensare. “Quando ciò accade,
non è più possibile distinguere il limite tra vita pubblica o di gruppo e sfera privata”
(Nakane, 1997).
La coesione umana, che nelle altre società solitamente è una funzione dei legami di
parentela, in Giappone è garantita da un rapporto personalizzato con un gruppo basato
sul lavoro, che coinvolge i principali aspetti della vita sociale ed economica. Agli occhi
11
di noi occidentali, questo fenomeno assume connotati negativi, facendo pensare ad una
riduzione dell’autonomia individuale e quindi anche della dignità umana. Questa non
sembra essere l’opinione della maggioranza dei giapponesi, che al contrario trovano
sicurezza nel gruppo e nella consapevolezza di appartenervi. Anche gli interessi per il
ritmo familiare, si attenuano in rapporto a quelli produttivi e questo da origine ad un
fenomeno ancora oggi diffuso in Giappone, che vuole le donne nel ruolo di casalinghe,
scaricando su di loro il peso della gestione familiare. E’ vero altresì che il successo di
una donna in Giappone si misura non attraverso quello che lei realizza, ma piuttosto
attraverso quello che realizzano gli altri membri della famiglia, il marito nella carriera
lavorativa ed i figli in quella scolastica (cfr. Nakane, 1997).
Con una coscienza di gruppo cosi radicata, praticamente non esiste vita sociale al di
fuori dell’azienda in cui si lavora. Ogni problema dell’individuo si tenta di risolverlo
all’interno di questa struttura, per cui i discorsi dei dipendenti riguardano spesso
faccende domestiche o vicende personali. A questo proposito per esempio sono comuni
matrimoni tra membri della stessa azienda, è comune che le famiglie partecipino alle
gite aziendali. Cosi le aziende maggiori sono solite fornire alloggi ai loro dipendenti,
che vengono collocati nella stessa area favorendo la conoscenza tra le mogli dei
dipendenti e lo scambio d’informazioni sul lavoro dei propri mariti. Viene garantita
anche l’assistenza medica e vengono creati circoli ricreativi. “Ne consegue che ogni
gruppo od istituzione sviluppa un alto livello d’indipendenza e di compattezza, con una
propria legge intrinseca totalmente vincolante per i membri” (Nakane, 1997).
Un gruppo sociale cosi compatto, è organizzato sulla base del “sistema d’impiego a
vita”, vincolo che lega saldamente il dipendente all’imprenditore, e ancora di più lo è
l’aumento del salario in base all’anzianità di servizio, che àncora il dipendente all’
azienda in cui lavora. D’altra parte questo sistema richiede una lealtà da parte del
dipendente che dev’essere offerta in modo incondizionato e soprattutto è unica. Infatti
anche nel caso in cui un giapponese appartenga a più di un gruppo, uno di questi è
sempre palesemente preferito. Significativo è in questo caso il detto “non si possono
servire due padroni” (cfr. Nakane, 1997).
Il rapporto che si instaura tra le due parti, non può essere spiegato quindi in termini
contrattuali. E’ un legame più profondo che può essere associato a quello tra marito e
moglie. Cosi quando una persona viene assunta, l’azienda la accoglierà con lo stesso
spirito con cui si accoglie un neonato o un nuovo genero, e si prenderà cura di lui in tutti
i sensi nel corso della carriera lavorativa. Il modello di organizzazione familiare si
estende a quello dell’impresa economica, in quanto essa rappresenta un gruppo sociale.
12
Gli imprenditori non si assicurano solo il lavoro del singolo, ma lo assumono nella sua
interezza. Secondo Jurgens (1988), “Il concetto di gruppo gioca un ruolo centrale nell’
organizzazione della produzione e nell’organizzazione sociale delle fabbriche
giapponesi. Lo spettro delle funzioni che il gruppo svolge nei confronti dell’individuo è
quasi onnicomprensivo: è un sostituto della famiglia e delle relazioni sociali, un’autorità
educativa (con i colleghi che danno un fulgido esempio di come comportarsi e lavorare
al resto del gruppo), un luogo di apprendimento (sia sul lavoro che nella sua funzione di
circolo della qualità), un’organizzazione per il tempo libero, un’unità di regolazione
della prestazione (l’allocazione temporale ed il controllo dell’efficienza non avvengono
nei confronti del lavoro individuale ma piuttosto nei confronti dell’area di lavoro
dell’intero gruppo)”.
L’idea profonda che anima la gente giapponese è che i gruppi, da quelli piccoli come la
famiglia a quelli grandi come le corporazioni industriali, fungono da tramite dello
spirito partecipativo alla struttura complessiva della società.
1.3. La struttura psicologica individuale come matrice di quella sociale
Il punto di partenza per illustrare questo argomento è il concetto di “personalità di
base”, definito da Kardiner (1976). Secondo l’autore esiste una circolarità tra la
dimensione sociale e quella psichica: le due si influenzano reciprocamente ed in modo
continuo. Cosi, da un lato i bisogni di base (come la sessualità), devono adattarsi alle
istituzioni ed agli ideali del gruppo, dall’altro lato questo adattamento può causare
frustrazione nelle tendenze degli individui, quindi il loro corso viene deviato verso altri
oggetti. La frustrazione può altresì indurre alla ricerca di compensazioni simboliche,
tipicamente culturali, che inducono ad un cambiamento delle istituzioni esistenti ed a
creare mitologie e credenze popolari. “La personalità di base”, con le sue ansie, paure
ed ostilità, con i suoi sentimenti espressi o repressi, la sua percezione della vita, del sé e
delle relazioni con gli altri, funziona come una sorta di “relais”: permuta le energie,
converte adattivamente le spinte interne (per lo più inconscie) dell’individuo e quelle
esterne del gruppo sociale di appartenenza che diventano legge per lui.
Per affrontare l’argomento della struttura psicologica individuale, può essere utile far
riferimento al linguaggio umano, in quanto la sua continua strutturazione, il lessico, la
grammatica, la sintassi, alimentano una dinamica di simbolizzazioni che in parte è
regolata da norme intrinseche, pressochè autonome, in parte cambiata dagli atti
interpretativi dei parlanti (cfr. Carbonaro, La Rosa, 1993).