6
parola sono incommensurabili con la realtà, si è passati
volutamente da una fase di convinta ricerca ad una fase critica di
non-ricerca, di ostinata repulsione di tutto ciò che andava oltre la
figura del regista lituano, di tutti quei dati che arricchivano
l’argomento ma contemporaneamente sembrava che lo svilissero.
Si è voluto procedere per eliminazione e intensificazione degli
elementi certi, quelli reali: gli spettacoli cechoviani di Eimuntas
Nekrosius.
Contemporaneamente a questa presa di posizione, ci si è resi
conto che per intraprendere il “processo dell’eliminazione”,
bisognava essere in grado di “togliere” senza vituperare. La
domanda di origine grotowskiana che ci si è posti è stata la
seguente: che cosa non si deve fare per incasellare la ricerca
teatrale di Nekrosius in un elaborato scritto, ‘infedele’ alla realtà
viva e per sua natura finito?
Per rispondere a questo non facile quesito, si sono tenute in
considerazione due clausole che sono diventate le guide di questa
ricerca.
La prima di queste può essere meglio spiegata se si parte da una
convinzione sicuramente condivisa e ben puntualizzata da
Annalisa Sacchi, autrice di una tesi proprio su Nekrosius:
“Nell’attività di studio finora condotta sul lavoro del regista lituano,
chi scrive ha dovuto scontrarsi con un pregiudizio che, al pari d’un
certo disinteresse storiografico, risulta pericoloso (e pernicioso) per la
trattazione dell’opera di artisti viventi. Mi riferisco alla diffidenza che
‘gli uomini di scena’ nutrono sovente per quelli ‘di libro’, per una
pratica che inevitabilmente, nel tentativo di fermare l’impalpabile,
diventa un tradimento. Il teatro che non si lascia fissare, sospeso tra le
opposte ragioni di quanti agiscono la scena e di quanti ne raccontano
le storie, è un luogo comune inibente che deve essere scavalcato in
senso collaborativo, affinché la formula attore-spettatore (quella
7
relazione teatrale che rappresenta lo specifico spettacolare) si specchi
in quella, altrettanto fertile, tra uomini di scena e uomini di libro”2.
Certi di voler consolidare una collaborazione tra gli artisti di
teatro e chi scrive per loro, non tanto per spiegare la loro opera
quanto per tentare di superare lo statuto effimero e non fissabile
dello spettacolo, si è però convinti che partire da questa principio
e arrivare a parlare di un “tentativo di formalizzazione, in sede
storico-teorica, dell’opus teatrale […] del maestro lituano”3 sia
un concetto quantomeno costrittivo. Una tale formalizzazione, un
voler dare un ordine estetico-conoscitivo ad un lavoro teatrale,
può essere fecondo se applicato ad un artista che faccia parte
della storia del teatro e non della sua cronaca. Il lavoro di un
regista vivente può svilupparsi secondo una estetica ben delineata
e la si può riconoscere quando ormai risulta chiara nelle sue tante
rappresentazioni teatrali ma, essendo viva ovvero cangiante, può
sorvolare e infrangere i limiti di una formalizzazione. Il teatro di
un artista vivente conosce il “senso di finitudine”, ma in quanto
esistente (da ex-sistere ovvero “non permanere”) è in continuo
divenire, un continuo proiettarsi verso ciò che ancora non è.
Siccome il vivente non si concepisce senza energie multiple,
mortifere, metamorfosi e numerose e indefinibili caratteristiche,
le opere dell’artista lituano, essendo egli vivente, integrano
questa complessità e per questo richiedono l’esigenza di
sostituire una percezione che chiude e sintetizza (quindi
formalizza), con una percezione aperta e frammentaria. Non si
nasconde peraltro che il concetto di “formalizzazione teorica”,
con cui ci si è confrontati, ha creato un senso di smarrimento
nonché una certa sensazione di “incompetenza” a chi scrive, ed è
anche per questo motivo, che non è stato perseguito come scopo.
2
A. Sacchi La scena scespiriana di Eimuntas Nekrosius, in “Culture Teatrali”, n. 9,
autunno 2003, pag. 168.
3
Ibidem.
8
Infine, siccome le parole su carta sono delle fissazioni imperiture
(anche se offrono la possibilità di essere messe in discussione) e
la stessa scrittura è già un tentativo di ordinare e di formalizzare
un pensiero, nonostante i tanti riferimenti al passato teatrale che
sono parte integrante dell’elaborato, uno degli intenti di chi
scrive è stato quello di evitare di incasellare un lavoro teatrale
vivente ancorandolo con lacci stretti alla storia del teatro, alle sue
teorie, alle scuole e ai maestri del passato.
La seconda linea guida, che non si distacca dalla prima ma ne è
l’ulteriore sviluppo, è che in questo studio si è voluto rispettare il
volere dello stesso Nekrosius che, quando viene tallonato da
imperiose domande e interviste di rito, non lascia alla parola il
compito di dare una forma logica e ordinata alla natura
“fantasmagorica”4 del teatro rappresentato, ma rimanda alla
materia vivente dei suoi spettacoli e dei suoi attori ogni
giustificata interpretazione che possa appagare gli intestini di chi
tenta di ridurre il tutto all’esperienza della comprensione.
Uomo afasico e eversivo ad ogni forma di erudizione, “schivo
fino quasi all’autismo”5, regista teatrale, professionista del
palcoscenico, totalmente estraneo a teorie, concetti e messe a
punto, capace di costruire spettacoli traboccanti di senso ma
volutamente non in grado di dibattere sul processo di creazione,
Eimuntas Nekrosius rigetta la carta e le spiegazioni e racconta il
suo teatro facendolo6. Data la suddetta ritrosia del regista lituano
a non parlare del suo lavoro e a evitare volutamente di spiegarlo,
una delle prime scelte fatte è stata la decisione di non volerlo
intervistare, sapendo che le sue parole di risposta alle nostre
4
“Sono finiti i nostri giochi, questi attori erano solo fantasmi e si sono vaporizzati nell’aria,
nell’aria sottile e come l’edificio senza basi di quella visione, anche gli alti torrioni
incoronati di nuvole e i sontuosi palazzi, e i templi solenni con le inerenti sostanze
dovranno dissolversi, e, come l’irreale spettacolo appena svanito, svaniranno senza lasciare
fumo di sé. Noi siamo della sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra piccola vita è cinta
di sonno”. Prospero, W. Shakespeare, La tempesta, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 161-162.
5
O. Ponte di Pino, Un Amleto lituano, http://www.trax.it/olivieropdp/nekrosius.htm.
6
“Non mi preoccupo dei rapporti tra naturalismo e antinaturalismo, o cose simili. […] non
mi occupo della teoria del teatro. Il mio compito è mostrare non dimostrare”. E. Nekrosius,
in A. Bianco, Incontro con Eimuntas Nekrosius, in “Quaderni di Egum”, dicembre 1998, n.
3, p. 3.
9
ipotetiche domande sarebbero state forzate e per questo non
idonee al concepimento del suo fare teatro. Per questo ci si è
attenuti alle poche interviste che egli ha rilasciato, di recente e in
passato, come base da cui partire e da cui cercare di spiegare la
capacità di questo regista di tessere in scena ciò che cova e
sottace nei meandri dei drammi cechoviani.
Detto questo, l’elaborato in questione sarà costituito
essenzialmente da arditi paragoni, collegamenti parziali con il
passato teatrale e con il presente, da sensazioni soggettive,
rivelazioni del tutto discutibili ma sentite come forse vorrebbe
Nekrosius, che del teatro, aldilà di qualsiasi teoria o scuola di
formazione, ha un’idea che nasce prima di tutto dai sentimenti7 e
dalla semplicità8.
Il presente lavoro è, prima di tutto, un esserci, aldilà delle
paurose formalizzazioni teoriche. Per questo motivo, esso non
vuole essere una tesi informativa sulle rappresentazioni
cechoviane di Eimuntas Nekrosius, ma vuole essere un percorso
critico, parziale, soggettivo sulla sua poetica teatrale che,
secondo il parere di chi scrive, trova nella messinscena dei
drammi cechoviani la sua più illustre realizzazione. Per questa
sua natura, coscienziosamente e continuamente mancante,
incompleta, a volte “partigiana”, l’elaborato vuole essere più una
“presenza che una rappresentazione, più esperienza condivisa che
comunicata, più processo che risultato, più manifestazione che
significatività, più dispendio di energie che informazione”9.
7
“…La cosa che mi è più cara, quello che sta per me al primo posto in teatro, è la
rivelazione dell’animo umano; credo che la gente vada a teatro perché ciò che avviene è
proprio in quel momento, è vivo. Allora cerco di ritornare non a qualcosa di efficace, ma
alla profondità dei sentimenti umani. […] Cosa rimane dei nostri spettacoli, cosa si ricorda?
Alcuni sentimenti. Ciò di cui parlava l’attore non lo ricordi ma ricordi come parlava, con
che intonazioni, con che sguardo, che mani aveva e che occhi…”. Ivi, p. 4.
8
“Tutto potrebbe essere colto in maniera più semplice. Siamo noi a complicare la sostanza
delle cose e a creare confusione, per il semplice fatto che non siamo più in grado di
percepire le verità più elementari”. E. Nekrosius, in R. Marcinkeviciute, Amleto è giovane,
in V. Valentini (a cura di), Eimuntas Nekrosius, Catanzaro, Rubbettino, 1999, p. 130.
9
H. Goebbels in H. T. Lehmann, Segni teatrali del teatro post-drammatico, in “Biblioteca
Teatrale”, BT 74-76, aprile-dicembre 2005, p. 29.
10
CAPITOLO
I
CECHOV
TRA IL PASSATO E IL PRESENTE
11
TUTTI PAZZI PER CECHOV!
“Avete parlato dei morti e avete dimenticato il vivente”
Dal Vangelo gnostico di Tommaso
Passato il periodo della scoperta e quindi della divulgazione
europea, divenuto un classico nell’ultimo dopoguerra, Cechov ha
trovato negli anni Cinquanta del secolo scorso, con Visconti e
Strehler in prima linea in Italia, le edizioni del grande realismo
storico. A cavallo del Settanta c’è stato il momento della rilettura
sperimentale e simbolista con la seconda edizione del Giardino
dei ciliegi di Strehler, con Krejca capofila di una serie di registi
slavi e Efros, il primo regista russo che ha liberato i drammi
cechoviani dalle incrostazioni sentimentali e ne ha dissolto
l’atmosfera malinconica di maniera.
Se i registi dell’ex blocco sovietico sembrano spinti da una forza
superiore, quasi coercitiva, a portare sulle scene i drammi
dell’autore di Tangarog a causa di un certo “cechovcentrismo”
della coscienza russa10, è curioso che anche molti artisti di
diverse nazionalità si siano confrontati con questo autore di fine
Ottocento.
Con gli anni Ottanta siamo ad un ritorno di un “certo”
naturalismo nelle messinscene cechoviane, ma col segno del
tempo trascorso e la consapevolezza di misurarsi con una
tradizione. Come antefatto non si possono non citare le
10
Fa eccezione, tra i grandi maestri russi, il regista Antolij Vasil’ev che non ha mai voluto
portare in scena Cechov: “Non ho mai condiviso i sentimenti di nostalgia, di ammirazione
di cui sono pieni i libri dell’intellighensia russa su Cechov. Non lo considero un maestro
della letteratura, scrive utilizzando parole del tutto comuni. Lui è un poeta solo come
drammaturgo. Ora tutti mettono in scena Cechov, ma io penso che passerà questo
momento. I giovani, ne sono certo, non lo capiscono, non lo sentono e non possono in
nessun modo trasmetterlo. La passione per Cechov passerà, ci vorrà forse un po’ di tempo,
ma passerà. La coscienza è cambiata. È solo per una cerchia ristretta di persone. Per questo
io non intervengo attivamente contro Cechov. Per me è difficile pronunciare tutte quelle
parole sulla scena, quella cattiva letteratura che lui utilizza”. Anatolij Vasil’ev, in Vasil’ev,
Cechov? Banale!, in R. Arcelloni, Undici variazioni su Cechov, in “Hystrio”, n. 3, luglio-
settembre 2004, p. 32.
12
rappresentazioni di Peter Brook, Peter Stein, Jurij Ljubimov e la
nuova leva di registi russi e slavi come Lev Dodin, Valerij Fokin,
Petr Fomenko e l’ucraino Andrij Zoldak. In Italia, dopo Strehler
e Visconti, vale la pena accennare alle rappresentazioni di
Gabriele Lavia, le Tre sorelle di Luca Ronconi, il Gabbiano di
Valerio Binasco del 2001, anno in cui anche Nekrosius allestisce
il primo grande dramma cechoviano, e gli allestimenti di
Massimo Castri.
Davanti a questo breve e incompleto ventaglio delle messinscene
dei drammi cechoviani, la domanda che ci si pone è la seguente:
perché tutti i teatri cercano di mettere in scena il loro Cechov?
Sicuramente non esiste un solo motivo che possa giustificare tale
ostinata assiduità, ma è evidente che i drammi di Cechov siano
portatori di qualcosa di perenne, una filigrana sotterranea che
collega gli animi dei suoi personaggi con le vite frenetiche dei
nostri giorni e perché nei suoi drammi si incarna non solo la sorte
della Russia, per quanto importante, ma l’anima e la sorte del
mondo. Il professor Serebrjakov esiste in eterno e zio Vanja
esiste ovunque; così come la non giovane attrice Arkadina e la
giovane Nina Zarecnaja e il Treplev che prova una nuova estetica
e l’esausto Trigorin. Protagoniste assolute dei drammi cechoviani
non sono quindi i singoli personaggi, ma la non eccezionalità di
essi, l’ordinarietà e, di conseguenza, l’insoddisfazione insita
nell’uomo che per natura non può realizzarsi nella vita:
“Cechov è vivo non perché descrisse così precisamente la vita e gli
uomini del suo tempo, ma perché ha colto aspetti eterni, peculiarità
assolutamente irrisolvibili dell’anima e della natura umana. […] Nei
suoi testi c’è una grande insoddisfazione della vita vissuta. I
contemporanei credevano che fosse l’insoddisfazione della vita
sociale contemporanea, ma ora noi capiamo che era l’insoddisfazione
naturale di un uomo che per natura non poteva appagarsi della vita.
Perché la vita si muove inesorabile verso la fine e l’uomo vorrebbe
13
che continuasse all’infinito. E poi nei suoi testi troviamo espressa la
sensazione che l’uomo si ostacola da se stesso, vorrebbe vivere ma se
lo impedisce e lo impedisce anche agli altri, spesso soprattutto quando
cerca di aiutarli”11.
È evidente nelle parole di Lev Dodin, affezionatissimo
sostenitore della drammaturgia cechoviana, la sensazione di
contemporaneità che trapela dalle opere dell’autore russo, la
quale è dovuta alla sua capacità di non tradire l’esistente. Con
Cechov
“Siamo dinanzi alla torpida Russia degli anni Novanta. […] Ma quella
Russia si allarga a dimensioni metafisiche, facendosi immagine del
nostro universo incoerente, ostile come un’immensa muraglia. Un
universo in cui gli uomini, monadi afflitti, si annoiano, annaspano,
gemono, perdendosi in sterili sogni”12.
Dunque Cechov non trucca la realtà, non la rettificata, non la
abbellisce né incupisce. È rigoroso, incorruttibile, a volte
lapidario: scrive con uno scalpello appuntito e arrugginito, tanto
da provocare crepe difficilmente risanabili. Fedele alla sua
antinormatività, egli lascia aperto il gioco della ricerca non dando
risposte bensì lasciando quesiti; fa capire che spesso “il non
capire” sia una forma superiore di comprensione, che spesso “il
non sapere” di stirpe socratica può diventare la chiave di lettura,
la forma adeguata al problema conoscitivo-esistenziale che
oscilla tra l’equivoco-illusione e l’illuminazione-disperazione.
Per questa sua insolente e sincera lettura dell’umana esistenza,
Cechov non è stato subito capito dai suoi contemporanei e spesso
provoca ancora asti nei registi che lo affrontano o semplicemente
ne parlano, per esempio Vasil’ev (di cui abbiamo riportato le
11
Lev Dodin, in Dodin, la passione e il dettaglio, in R. Arcelloni, Undici variazioni su
Cechov, p. 31.
12
A.M. Ripellino, in Il teatro di Cechov, in A. Cechov, Capolavori, M. Martini (a cura di),
A.M. Ripellino (introduzione di), Torino, Einaudi, 2003, p. V.