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INTRODUZIONE
Cos’è la perequazione? E’ uno strumento, un mezzo per arrivare ad un risultato: la buona
pianificazione del territorio.
La perequazione non è uno strumento nuovo, le prime sperimentazioni hanno ormai
vent’anni, ma la novità è che, per la prima volta in Lombardia, essa è direttamente
nominata in una legge di governo del territorio, nominata e riconosciuta.
La perequazione è uno strumento molto utile per garantire l’indifferenza della proprietà
nelle scelte di pianificazione e per permettere all’Amministrazione Comunale di acquisire
gratuitamente le aree necessarie ai servizi pubblici.
E’ anche un mezzo per superare la logica dei vincoli preordinati all’esproprio e il
cosiddetto “doppio regime dei suoli”. Attraverso di essa si potrà superare, o cercare si
superare, la situazione in cui versano molti Comuni della nostra regione, e non solo: molte
aree bloccate dal vincolo di esproprio ma di fatto abbandonate a se stesse, senza una
previsione progettuale, almeno non in tempi brevi.
Il fatto di superare il problema economico dell’indennità è un vantaggio non indifferente
considerando le scarse risorse finanziarie in cui versano ormai la stragrande maggioranza
dei Comuni, ed è sicuramente un ulteriore incentivo alla diffusione della perequazione.
Anche il fattore temporale si avvantaggia dall’uso dello strumento perequativo, rispetto
agli strumenti tradizionali: la redazione della convenzione con i privati, nella quale sono
specificate anche le scadenza temporali è sicuramente un buon metodo per evitare
situazioni di stallo e di non attuazione delle previsioni: inoltre, il coinvolgimento dei
privati porta già con se la necessità di dare tempi precisi all’intervento.
Nella mia tesi ho applicato i principi della perequazione al comune di Darfo Boario Terme.
Ho individuato tre aree sulle quali gravava un vincolo di esproprio ormai decaduto, poiché
il Piano Regolatore Comunale è stato approvato più di dieci anni fa, sulle quali il Comune
non aveva nessuna previsione.
Si trattava quindi di una situazione bloccata: il proprietario si trovava la sua area vincolata
e il comune non aveva però intenzione di acquisirla, almeno non in tempi brevi.
L’applicazione della perequazione ha permesso di sbloccare la situazione.
In ognuno dei tre ambiti ho applicato un indice territoriale diffuso perequativo e ho quindi
concentrato la volumetria su determinate aree, lasciando una parte della superficie alla
gratuita acquisizione da parte dell’Amministrazione Comunale.
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Le tre zone hanno caratteristiche morfologiche e tipologiche diverse tra di loro, e ciò
dimostra come la perequazione può essere applicata anche a situazioni e territori più
disparati.
Attraverso un’attenta analisi delle caratteristiche del territorio e dell’ambito di progetto e
attraverso un procedimento metodologico che si deve seguire quando si decide di attuare
un progetto perequativo, si può arrivare a soluzioni estremamente diverse.
Ciò naturalmente significa che attuare un intervento perequativo non è come applicare
delle formule matematiche che daranno un risultato certo, ma che la perequazione richiede
uno studio approfondito del contesto in cui ci si trova e una valutazione attenta e
lungimirante di tutte le possibili soluzioni.
Il carattere di estrema attualità, oltre che di complessità del tema trattato, ha reso la
raccolta del materiale e la formulazione della tesi abbastanza complesse.
Eventuali incompletezze nella trattazione non sono dunque frutto di trascuratezza o
improvvisazione, me lo sbocca naturale di un processo si studio condotto, per così dire, in
corso d’opera.
CAPITOLO I: LA LEGISLAZIONE PRIMA DELLA
L.R. LOMBARDA N. 12/2005
Prima della Legge n.1150/1942
Le città esistono da sempre ma la nascita dell’ “urbanistica moderna” intesa come
pianificazione e governo del territorio risale al periodo dell’industrializzazione. In questo
periodo assistiamo a dei grossi cambiamenti che vanno dal maggior consumo di suolo, alla
nascita di grossi insediamenti produttivi, allo spostamento di grandi masse di popolazione
che vanno a concentrarsi nelle periferie urbane, e si inizia ad avvertire l’esigenza di un
intervento da parte dello stato, sia a livello diretto con la realizzazione di grandi
infrastrutture, sia a livello legislativo, attraverso l’emanazione di leggi e regolamenti che
garantiscano una sufficiente qualità degli insediamenti.
In questi anni nasce anche un concetto determinante per l’urbanistica, e cioè la legittimità
delle limitazioni alla proprietà privata per fini sociali, da cui sono nati i vincoli e quello che
in questo momento storico rappresenta lo strumento fondamentale per controllare e gestire
le trasformazioni, il vincolo di esproprio.
Il primo provvedimento legislativo nasce alla fine dell’Ottocento, ed è la
Legge n.2359/1865 “Sulle espropriazioni per pubblica utilità”, che conteneva, oltre alla
regolamentazione dell’esproprio, anche delle indicazioni per le trasformazioni
urbanistiche.
In tale legge oltre agli strumenti per gestire l’esistente e le nuove edificazioni, era previsto
anche l’obbligo di cessione immediata dei suoli necessari per la realizzazione delle nuove
strade con un indennizzo pari al valore di mercato di tali aree.
Possiamo dire che risale già a questo periodo il grave e mai risolto problema del divario tra
le possibilità teoriche offerte dalle leggi e le reali possibilità, soprattutto a livello
economico, dell’Amministrazione Comunale.
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La Legge n.1150/1942
Per avere una vera e propria Legge Urbanistica, la prima e unica a livello nazionale,
bisogna aspettare il 1942, quando viene emanata la Legge n.1150.
Questa legge è stata preceduta, tra gli addetti ai lavori, da un acceso dibattito tra chi
difendeva la proprietà privata e chi voleva porre dei limiti, fino ad arrivare a misure come
l’esproprio generalizzato. Alla fine è stata confermata la prevalenza dell’interesse pubblico
su quello privato e sono state legittimate alcune limitazioni alla proprietà privata, come già
stabiliva la L.2359/1865, senza arrivare a provvedimenti troppo drastici.
Nella L.1150/1942 si attribuiscono ai Comuni le competenze in materia di urbanistica e di
governo del territorio, e per la prima volta si inizia ad affrontare la pianificazione del
territorio, e non solo a livello comunale, attraverso il piano regolatore comunale (PRG),
ma anche su più livelli territoriali, tra loro coordinati.
Nascono il piano territoriale di coordinamento, quasi sempre a scala regionale o
provinciale, che si occupa, tra le altre cose, di salvaguardare zone con particolari
caratteristiche e di localizzare le principali reti di comunicazione e il piano regolatore
intercomunale, per i problemi di frangia; oltre naturalmente al già citato piano regolatore
comunale.
Un elemento importante contenuto in questa legge è la suddivisione della pianificazione
comunale in due fasi distinte: una programmatica, attraverso il piano regolatore generale, e
una attuativa, con i piani particolareggiati (PP).
Il PRG è diventato lo strumento per esprimere le scelte politiche di gestione del territorio
comunale, lo strumento attraverso il quale soddisfare i bisogni della popolazione; invece il
PP è lo strumento più dettagliato e tecnico, mirato a definire nei particolari le
caratteristiche di una determinata area.
Il PRG deve riguardare l’intero territorio comunale e si occupa di attribuire una
destinazione d’uso, residenziale, industriale, agricola ecc., ad ogni area. E’ da questa
indicazione, chiamata zonizzazione o zoning, che derivano le limitazioni alla proprietà
privata, in particolar modo le limitazioni che ci interessa analizzare in questo contesto,
quelle assolute, cioè il vincolo preordinato all’esproprio.
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E’ importante sottolineare che la L.1150/1942 attribuisce al Comune la facoltà di
espropriare le aree di cui necessita per promuovere una buona attuazione del piano,
determinando l’indennità di esproprio in base ai valori di mercato, indennità che deve
essere corrisposta al momento dell’esproprio e non quando si appone il vincolo.
Non tutti i Comuni erano obbligati a redigere il PRG, ma solo quelli compresi in un
apposito elenco; per gli altri era previsto un altro strumento, il programma di
fabbricazione.
E’ stata poi prevista la nascita di piani territoriali di coordinamento e di piani urbanistici
intercomunali, per coordinare la pianificazione tra comuni confinanti ed evitare i contrasti.
Una grossa occasione di ripianificazione e riqualificazione delle città l’Italia l’ha persa
dopo il periodo bellico e, soprattutto, nel periodo della ricostruzione post-bellica. Invece di
approfittare, come fecero molte altre nazioni europee, e di vedere la ricostruzione come
un’occasione per migliorare le città, per creare le condizioni più favorevoli alle nuove
esigenze e per rimediare alle “brutture” che la rivoluzione industriale aveva portato con sé,
si pensò solamente a costruire, costruire tanto e costruire in fretta.
Con la scusa dell’emergenza venne accantonata la Legge Urbanistica perché considerata
troppo complessa e poco adatta alle urgenti esigenze del periodo post-bellico.
L’elenco dei Comuni obbligati a redigere il PRG fu predisposto solo nel 1954, e anche
dopo questa data molti Comuni non si dotarono né di PRG né di programma di
fabbricazione ancora per molti anni.
I piani particolareggiati furono ignorati in modo ancora più totale.
Con il D.Lgs.154/1945 nacquero i piani di ricostruzione, che avevano efficacia esecutiva, e
che si occupavano della pianificazione dei singoli quartieri; non erano né governati da un
PRG, tranne pochissimi casi, né coordinati tra di loro.
In quegli anni l’esigenza primaria era quella di edificare molto e solo successivamente si
pensava alle opere di urbanizzazione, che erano interamente a carico del Comune.
La Legge Urbanistica non prevede quantità minime di servizi né chi deve realizzarli, infatti
per molti anni i loro costi, compresa l’urbanizzazione primaria al servizio degli
insediamenti, resterà completamente a carico dei Comuni.
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Gli anni Sessanta
Negli anni Sessanta iniziarono lentamente a diffondersi i piani regolatori e i programmi di
fabbricazione, ma non i piani attuativi.
In questo periodo assistiamo ai primi tentativi di “correggere” la Legge Urbanistica.
Durante l’VIII Congresso dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica), nel 1960, viene
presentata una proposta di riforma denominata “Codice dell’urbanistica” che introduce
delle grosse novità come l’obbligo per i proprietari di aree in zone di espansione di cedere
il 30% delle aree, che saranno poi destinate ad attrezzature pubbliche; essi dovranno inoltre
sostenere le spese per l’urbanizzazione primaria. Ci sono inoltre delle proposte di ricorso a
strumenti fiscali per incidere sulla rendita.
Accanto alle proposte dell’INU c’è la proposta di riforma urbanistica sostenuta nel 1962
dall’allora Ministro dei Lavori Pubblici Fiorentino Sullo che possiamo brevemente
riassumere: innanzitutto si stabilisce un legame diretto tra pianificazione urbanistica e
programmazione economica e si caratterizzano meglio i diversi livelli di pianificazione,
attraverso le previsioni di PRG anche a scala regionale e comprensoriale, mantenendo
naturalmente la presenza di quelli a livello comunale, attuati attraverso i PP. C’è poi una
parte della riforma molto innovativa, che consiste nell’attivare un processo così articolato:
il comune espropria tutte le aree inedificate, quelle edificate in contrasto con le previsioni
del PRG e le aree edificabili, si occupa delle urbanizzazioni e poi,attraverso un’asta cede il
diritto di superficie con la relativa edificabilità, mantenendo la proprietà comunale.
L’indennità di esproprio è stabilita in base al valore agricolo per le aree libere con
destinazione non urbana e in base al valore di mercato per le aree urbane edificate.
Attraverso questa riforma si voleva realizzare un ampio demanio comunale di aree
edificabili, accessibili anche alle fasce economicamente deboli, e attraverso il quale
operare un’azione indiretta di controllo del mercato.
Durante il dopoguerra, e soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, c’è stato un grosso
movimento migratorio interno che ha portato ad uno svuotamento dei comuni del sud e ad
una forte concentrazione al nord, soprattutto nel cosiddetto “triangolo industriale”, formato
da Milano, Genova e Torino.
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L’edificazione, in quegli anni, era certamente consistente, ma non sufficiente per far fronte
ad un movimento così massiccio; inoltre spesso le nuove case erano localizzate dove non
servivano o erano troppo costose.
Lo stato cercò di far fronte a questa situazione attraverso l’emanazione della
Legge n.167/1962 “Disposizioni per favorire l’acquisizione di aree per l’edilizia
economica e popolare”, che serviva appunto ad agevolare lo stato nell’acquisizione di aree
da destinare all’edilizia economica e popolare, compresi i relativi servizi, fissando
un’indennità di esproprio che non fosse influenzata dal peso della rendita.
La sua emanazione è stata preceduta da un lungo dibattito circa il calcolo dell’indennità: da
un parte si proponeva il valore di mercato e dall’altra lo stesso cinque anni prima, quando
non si era ancora formata la rendita legata alle aspettative dell’edificabilità dell’area.
Alla fine l’indennità è stata fissata nel valore venale di due anni prima dell’adozione del
piano, senza calcolare gli incrementi collegati a esso, cosa che ha consentito a molti
comuni di acquisire aree a prezzi vantaggiosi.
Questa legge introduce uno strumento attuativo nuovo, il piano di zona (PZ) o piano per
l’edilizia economica e popolare (PEEP) e prevede l’obbligo di redigerlo per tutti i Comuni
con popolazione superiore a cinquantamila abitanti, o con presenza di particolari
caratteristiche che rendono la situazione abitativa problematica.
Sulle aree espropriate grazie al PZ possono costruire sia il Comune che gli altri oggetti
istituzionali, sia singoli che riuniti in cooperative (l’IACP, l’INA Casa, ecc.).
La Legge n.167/1962 è importante perché oltre a tentare di limitare il peso della rendita
nella valutazione dell’indennità di esproprio, per la prima volta, si è iniziato a pensare ai
servizi legati alla residenza e alla loro realizzazione a costi accessibili per
l’Amministrazione Comunale.
Un grosso problema, dal punto di vista economico, l’ha creato la sentenza della Corte
Costituzionale n.22 del 1965 che ha dichiarato illegittimo l’articolo della L.167/1962 che
stabiliva il valore dell’indennità di esproprio a due anni prima dell’entrata in vigore del
piano, e quindi riporta tale valore al prezzo di mercato, compreso il peso della rendita.
In quegli anni si è edificato molto, e soprattutto si sono scaricate sui Comuni tutte le spese
e i costi sociali: le strade, le urbanizzazioni primarie (acqua, fognature e corrente elettrica),
il verde, le scuole, tutte le opere di urbanizzazione secondaria, con la conseguenza che
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spesso i servizi sono ai minimi termini, date le scarsità finanziarie delle Amministrazioni
Comunali.
Un primo tentativo di rimediare alla situazione che si stava creando è stato l’emanazione
della Legge n.765/1967, “Modifiche ed integrazioni alla Legge Urbanistica 17 agosto
1942. n.1150”, la cosiddetta “legge ponte”, perché doveva fungere da passaggio verso una
vera e propria riforma urbanistica, che non c’è stata.
Uno degli scopi di questa legge è quello di creare precisi “ rapporti tra spazi destinati a
insediamenti residenziali e produttivi (attività private) e spazi pubblici o riservati ad attività
collettive, a verde pubblico o a parcheggio”.
Stiamo naturalmente parlando dei cosiddetti “standard urbanistici” che sono poi
quantificati nel DM. 1444 dell’anno successivo all’entrata in vigore della legge. Questo
decreto fissa per le zone residenziali un minimo di aree per servizi pari a 18 mq/ab,
suddivisi in questo modo: 4,5 mq/ab per l’istruzione inferiore (compreso l’asilo), 2,0
mq/ab per le attrezzature d’interesse comune (chiese, attrezzature sociali, sanitarie, ecc),
9,0 mq/ab per il verde pubblico e attrezzato, 2,5 mq/ab per i parcheggi.
Nelle zone A e B le aree già esistenti si possono computare al doppio, considerate le
oggettive difficoltà di reperimento.
E’ prevista un’ulteriore quota di 17,5 mq/ab per le attrezzature d’interesse generale, così
suddivise: 1,5 mq/ab per l’istruzione superiore (esclusa l’università), 1,0 mq/ab per le
attrezzature sanitarie e ospedaliere, 15 mq/ab per i parchi urbani e territoriali.
Nel decreto sono contenute anche delle quantità di servizi per le aree industriali e
commerciali.
Lo scopo della Legge n.765/1967 e del decreto successivo è quello, ovviamente, di
garantire una dotazione minima di servizi per assicurare un rapporto più equilibrato tra
destinazioni private e pubbliche.
Questo decreto introduce anche le cosiddette “zone omogenee” (tra cui le già citate zona A
e B), e fissa dei limiti precisi all’edificazione; le zone sono le seguenti: A - centri storici; B
– altre aree edificate; C - zone destinate alla nuova edificazione; D – nuove zone
industriali; E - zone agricole; F - zone destinate ad attrezzature ed impianti di interesse
collettivo.
Per ogni zona sono stati individuati gli standard per attività collettive, verde pubblico,
parcheggi, limiti di distanze, altezza e densità.
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La legge ponte introduce anche un nuovo strumento attuativo, il piano di lottizzazione
convenzionato (PLC), ad iniziativa privata. Tale piano prevede l’obbligo per il proprietario
di cedere tutte le aree per l’urbanizzazione primaria e una parte di quelle da destinare
all’urbanizzazione secondaria e di pagare i relativi oneri.
Il Governo dà facoltà ai Comuni di rinviare l’applicazione della legge di un anno, durante
il quale la maggior parte dei Comuni, che avevano facoltà di applicare le nuove norme
oppure di mantenere le vecchie, ha concesso un numero esagerato di licenze edilizie, che
hanno condizionato l’urbanistica per molti anni.
La legge ponte ha portato certamente delle innovazioni importanti, ma ha anche creato una
situazione di disparità tra i diversi proprietari che si è trascinata fino ai giorni nostri, il
“doppio regime dei suoli”, intendendo per esso la differenza che si crea tra le aree
sottoposte a vincolo, quindi inedificabili, e quelle che possono essere edificate rispettando
le previsioni del PRG.
Le disparità tra i proprietari di aree libere e i proprietari di aree soggette a vincolo aumentò
sempre di più anche causa dei tentativi che lo stato fece di ridimensionare gli indennizzi di
esproprio.
E’ importante inoltre ricordare che la Legge Urbanistica, nell’art.40 dichiarava la non
indennizzabilità del vincolo di esproprio e rimandava sia la definizione che il pagamento
dell’indennità al momento dell’esproprio, quando il Comune decide di realizzare l’opera.
Un cambiamento importante fu prodotto dalla sentenza n.55 del 29 maggio 1968, che
dichiara illegittimi quegli articoli della Legge Urbanistica che non prevedevano
l’immediato indennizzo dei vincoli.
La Legge Urbanistica fu giudicata iniqua: i proprietari delle aree divenute edificabili grazie
alle scelte discrezionali del piano regolatore potevano costruire e le loro aree erano
aumentate di valore proprio a causa di tali scelte urbanistiche, dallo sviluppo dell’abitato e
dalla realizzazione delle infrastrutture a spese della collettività; i proprietari di aree che
avevano subito il vincolo di esproprio non potevano costruire e in futuro perderanno i loro
immobili, e non percepiranno nemmeno un indennizzo per la perdita di valore delle loro
aree, proprio a causa dell’imposizione dei vincoli avente durata indeterminata.
Negli anni successivi, l’attenzione si spostò sulle conseguenze derivanti dai vincoli sul
diritto di proprietà e in particolare sulla necessità o meno di un indennizzo.
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Con la sentenza n.55/68 sono stati dichiarati parzialmente incostituzionali gli art. 7
(contenuti del PRG) e 40 (non indennizzo delle limitazioni e dei vincoli contenuti nel
PRG) ma non l’art. 11 della Legge Urbanistica, che stabilisce una durata indeterminata per
le previsioni del piano urbanistico.
Il Legislatore si è trovato così dinanzi a due alternative: riconoscere all’autorità urbanistica
il potere di apporre vincoli preordinati all’esproprio aventi durata illimitata nel tempo e
con indennizzo adeguato e immediato o mettere dei limiti temporali alla validità dei
vincoli, senza la previsione di un indennizzo.
Per non gravare la finanza pubblica si è scelto di percorrere la strada del non indennizzo e
temporaneità del vincolo.
Successivamente, nella Legge n.1187/1968 “Modifiche della Legge Urbanistica”, la
cosiddetta “legge tampone”, si stabilisce che i vincoli preordinati all’esproprio o che
comportino inedificabilità dell’area decadano se entro cinque anni dall’approvazione del
PRG non sono stati approvati i piani attuativi per la realizzazione delle opere per le quali
era stata prevista l’espropriazione dell’area.
I piani attuativi hanno valore di dichiarazione di pubblica utilità e quindi, approvati questi,
l’esproprio ha una data certa, così come il pagamento dell’indennità, compresa nell’ambito
di efficacia del piano, di regola dieci anni.
Inoltre la stessa legge prevede che i vincoli non siano più validi dopo il termine di
attuazione dei piani particolareggiati e di lottizzazione.
Per i piani regolatori già vigenti all’entrata in vigore della legge si stabilisce un termine di
cinque anni dalla stessa.
La Legge n.1187/1968 fu una legge emanata con l’intenzione di essere provvisoria, per
tutelare il territorio e la finanza pubblica, non per risolvere il problema dei vincoli, infatti
non si occupa delle conseguenze della decadenza dei vincoli né della loro possibile
reiterazione.
Questa legge era stata fatta per “tamponare” provvisoriamente la situazione in attesa di una
riforma che risolvesse definitivamente il problema della disparità di trattamento riservata ai
proprietari.
Tale riforma però non venne alla luce.
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Gli anni Settanta
All’inizio degli anni Settanta, il 22 ottobre 1971, è stata emanata la Legge n.865
“Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica norme per
l’espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942,
n.1150; 18 aprile 1962, n.167; 29 settembre 1964, n.847; ed autorizzazione di spesa per
interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata”, la
cosiddetta “legge per la casa” che, pur essendo una legge settoriale, introduce alcune
importanti innovazioni in campo urbanistico.
L’espropriazione per pubblica utilità allarga molto il suo campo di applicazione: da ora si
possono espropriare aree per le opere seguenti, solo per citarne alcune:per gli interventi
previsti dalla stessa L.865/1971; per i PZ previsti dalla L.167/1962; per le opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, compresi i parchi pubblici; per le singole opere
pubbliche; per le zone di espansione urbana previste dalla L.1150/1942; per la formazione
di parchi nazionali.
La L.865/1971 si occupa anche dell’indennità di esproprio e la lega al valore agricolo,
eliminando così totalmente il peso della rendita assoluta. Nello specifico dobbiamo dire
che nelle aree esterne al perimetro del centro edificato il valore di esproprio coincide
esattamente con il valore agricolo dell’area mentre nelle aree interne al perimetro e per le
aree edificate o urbanizzate tale valore viene incrementato secondo criteri diversi.
Naturalmente l’introduzione di queste nuove norme sul calcolo dell’indennità aggrava
ulteriormente le disuguaglianze tra i proprietari.
Un novità importante per l’urbanistica degli anni Settanta è l’avvio delle Regioni.
E’doveroso sottolineare che il trasferimento di poteri dallo stato alle Regioni era già
previsto nell’art.117 della Costituzione, ma i primi Consigli Regionali risalgono alla
primavera del 1970 e il trasferimento dei poteri al 1972.
Con il Decreto del Presidente della Repubblica n.8 del 15 gennaio 1972, che entra in
vigore il 1 aprile dello stesso anno, si attua il trasferimento dei poteri in materia di
urbanistica, e in particolare: il potere di legiferare e le funzioni amministrative previste
dalla Legge Urbanistica del 1942, quindi l’approvazione degli strumenti urbanistici, tra i
quali i PRG comunali e intercomunali, i PTC, PDF, PLC, PEEP, solo per citarne alcuni. Da
ora le Regioni sono competenti anche per quanto riguarda il controllo e la vigilanza
sull’attività urbanistica e in materia di edilizia residenziale previste dalla L.865/1971.
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La Regione Lombardia negli anni Settanta
L’istituzione della Regione Lombardia negli anni Settanta ha dato un grosso impulso alla
pianificazione regionale.
Infatti se agli inizi degli anni Settanta i Comuni dotati di un piano urbanistico erano un
numero ridottissimo, e tra questi la quasi totalità era dotata di PDF e non di PRG all’inizio
del decennio successivo solo pochi piccoli comuni ne erano ancora sprovvisti.
Tutto questo grazie alla L.39/1973, che aveva lo scopo di incentivare i Comuni a dotarsi di
uno strumento urbanistico.
Nel 1975 è stata emanata l’importante legge urbanistica della Regione Lombardia, la
L.51/1975 “Disciplina urbanistica del territorio regionale e misure di salvaguardia per la
tutela del patrimonio naturale e paesistico” o “legge urbanistica regionale”.
Un primo e importantissimo aspetto di questa legge è che porta la quantità minima di
standard dai 18 mq/ab previsti dal DM. 1444/1968 a 26,5 mq/ab; nel dettaglio le
attrezzature di interesse comune passano da 2 a 4 mq/ab., il verde da 9 a 15 mq/ab., i
parcheggi da 2,5 a 3 mq/ab. Le quote per l’istruzione restano le stesse e viene abolita la
possibilità di un computo doppio per le aree in zone A e B.
Sono stabilite delle quote dei sevizi per le attività industriali e per le attività commerciali e
terziarie in zone A e B, rispettivamente del 20 e del 100% della superficie totale.
Per quanto riguarda i vincoli preordinati all’esproprio, che la sentenza n.55/1968 aveva
dichiarato incostituzionali se non indennizzati, si è creata, nel corso degli anni Settanta,
una situazione di stallo.
Infatti la Legge n.1187/1968 , la “legge tampone”, stabilisce che tali vincoli decadano dopo
cinque anni di inerzia da parte del Comune, e nel novembre del 1973 è stata prorogata di
due anni, e di un anno ancora nel novembre del 1975. A questa situazione pone fine la
Corte Costituzionale nel 1976 dichiarando illegittima questa procedura.
Messo alle strette dalla Corte Costituzionale, il Parlamento, il 28 gennaio 1977 vara la
Legge n.10, “Norme per l’edificabilità dei suoli”, conosciuta come “legge Bucalossi”, dal
ministro che l’aveva proposta.
Uno degli elementi più importanti di questa legge è il fatto che essa tenta di scindere il
diritto di proprietà del suolo dal diritto di costruire, anche se non lo dichiara esplicitamente,
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e per arrivare a questo risultato trasforma la vecchia licenza in “concessione” edilizia, e già
dal termine usato si può capire che si intendeva diffondere l’idea che ciò consisteva
nell’attribuzione “ex novo” di un diritto piuttosto che la rimozione di un ostacolo al suo
esercizio.
Si afferma che ogni attività che porti ad una trasformazione del territorio comunale deve
partecipare agli oneri ad essa relativi , e introduce un contributo per il rilascio della
concessione, che poteva essere visto come una sorta di corrispettivo per la concessione
dello “jus aedificandi”.
Gli oneri che il costruttore deve pagare sono calcolati in base al volume costruito, al tipo di
destinazione d’uso, alle sue caratteristiche, alla posizione rispetto al territorio comunale, al
fatto che l’intervento sia più o meno remunerativo ecc.
Per avere il rilascio della concessione edilizia, oltre al pagamento degli oneri e alla
dichiarazione di edificabilità da parte del PRG , l’area deve essere inclusa nel programma
pluriennale di attuazione (PPA) del piano stesso.
Il PPA, obbligatorio per tutti i Comuni compresi in un apposito elenco stabilito dalla
Regione, può durare dei tre ai cinque anni e alla sua scadenza il Comune può espropriare
tutte le aree dove non sono state realizzate le opere previste. Non possiamo non dire che in
realtà questo, a causa delle scarsità finanziarie dei Comuni, non è quasi mai successo. In
seguito sono state emanate due leggi, la L.44/78 e la L.15/84, che rendono facoltativo
l’esproprio.
Sono aggiornati anche i metodi per la determinazione dell’indennità di esproprio,
introducendo delle maggiorazioni per i proprietari che cedono volontariamente l’area
(cessione volontaria).
Con l’emanazione della L.10/1977 si pensa di aver finalmente superato il doppio regime
dei suoli, visto che lo jus aedificandi è diventato un potere/diritto solo pubblico,
appartenente alla collettività, che attraverso la concessione edilizia permette al singolo di
fare le opere richieste.
Come conseguenza di questo nuovo regime, si ritenne che i vincoli di inedificabilità
fossero pienamente legittimi anche se a tempo indeterminato e senza indennizzo, poiché
non è inesistente il diritto di costruire.
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Su questo punto è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 5 del 25 gennaio
1980 di cui parleremo nel paragrafo successivo.
Gli anni Ottanta
Durante gli anni Ottanta le nuove norme sono state introdotte più da sentenze che da leggi
vere e proprie.
All’inizio degli anni Ottanta, la Corte Costituzionale, con la già citata sentenza n. 5/1980,
dichiara l’incostituzionalità di tutte le norme che, per le aree edificabili, avevano previsto il
pagamento dell’indennità di espropriazione in base al valore agricolo medio.
Il motivo dell’incostituzionalità di tale criterio è che esso è in aperto contrasto con l’art.3
della Costituzione perché ha reso ancora più marcata la differenza di trattamento tra i
proprietari di aree edificabili e quelli di aree edificabili ed espropriate.
Questi ultimi, secondo le nuove disposizioni,vengono indennizzati senza tenere conto della
qualità del bene, perché equiparato ad uno di valore inferiore.
La sentenza n.5/80 stabilisce inoltre che il diritto di edificare continua ad essere legato al
diritto di proprietà, e riconferma la durata quinquennale dei vincoli, ma restarono i dubbi
su quali effetti avrebbe comportato la decadenza dei vincoli, sulle possibilità di
reiterazione da parte dei Comuni e sulla misura dell’indennizzo.
Per rimediare alla situazione creata da questa sentenza, viene emanata la Legge n.385 del
29 luglio 1980 “Norme provvisorie sulla indennità di espropriazione delle aree edificabili”:
essa stabilisce che entro un anno debba essere emanata una nuova legge sugli espropri, e,
durante questo periodo i Comuni possono continuare ad espropriare con le modalità
dichiarate illegittime; l’indennizzo percepito deve essere però considerato un acconto
provvisorio, a cui seguirà un conguaglio stabilito in base alle nuove norme, ancora da
emanare.
Tale legge è stata prorogata per tre volte fino a quando la Corte Costituzionale, con la
sentenza n.223 del 19 luglio 1983 dichiara anche tale proroga illegittima.
Per avere una legge unitaria sugli espropri bisogna aspettare il 2001, quando è stato
emanato il “Testo Unico sugli espropri”.
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