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INTRODUZIONE
Il disturbo autistico da circa più di un secolo ormai, si trova al centro di un dibattito
che affonda le radici nello storico pensiero Cartesiano.
La famosa frase di Cartesio “cogito ergo sum” scindendo “l’ego cogitans” “dall’res
extensa”, ha avuto un forte impatto nella storia dello studio del rapporto tra
cervello/mente. Per decenni psicoanalisi e neuroscienza hanno percorso il loro
cammino studiando la complessità psiche-soma da due prospettive diverse: biologica
per il cervello e psicologica per la psiche con delle evidenti ricadute nello studio
dell’eziologia psicopatologica. L’autismo, fin dalla sua prima formulazione, è stato
descritto come un disturbo a tratti simili ad una psicosi per l’evidente tendenza
all’isolamento e al distacco da ogni situazione relazionale o affettiva con difficoltà
per gli aspetti sociali del comportamento motorio e del linguaggio a cui si
accompagnano comportamenti e interessi stereotipati di complessità diversa in
relazione al livello intellettivo. Ad oggi la definizione dell’autismo, grazie agli studi
che nei decenni si sono susseguiti, è molto più articolata rispetto alla prima
formulazione di Kenner nel 1943, ma tutt’ora è poco chiaro come questo quadro
psicopatologico si origini. La storia dell’autismo è infatti molto travagliata, fatta di
ipotesi psicogenetiche che per decenni hanno alimentato lo stereotipo culturale dei
“genitori frigorifero”, ma tra le quali vi erano anche delle intuizioni geniali e di teorie
organicistiche. La visione organicistica sviluppatesi dagli anni 70 in poi, ha dominato
il panorama scientifico dello studio sull’autismo ponendone in evidenza le alterazioni
celebrali strutturali e fornendone un modello di funzionamento mentale
appoggiandosi alla teoria modularistica della psicologia evoluzionistica. Le teorie
eziopatogenetiche che si sono sviluppate a partire da quegli anni, definiti modelli “da
laboratorio”, se ben fin da subito ritenuti non sufficientemente esplicativi della
fenomenologia autistica, non soltanto non sono riusciti a svelare l’enigma che
avvolge l’autismo ma ne hanno alimentato una visione difettuale, diffondendo nel
pensiero comune l’idea del soggetto autistico come un bambino mutante, così come
emerge nei film di fantascienza, privo di sentimenti, affettività, interessi relazionali
verso gli altri, insomma un bambino senza soggettualità che ha stimolato l’emergere
di interventi educativi puramente addestrativi frutto dei modelli teorici di quel tempo,
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che eredi di una visione solipsistica si ponevano come obiettivo il rinforzo di abilità
adattive e l’estinzione di comportamenti problematici. Questa visione dell’autismo,
se ben con toni molto più sfumati è tutt’oggi presente nel panorama scientifico come
si riscontra dalle linee guida emanate dall’Istituto Superiore di Sanità, ignari però, di
quanto la ricerca abbia fatto dei grandi progressi ricongiungendosi con quanto
ipotizzato da Freud alla soglia del diciannovesimo secolo. Freud, un neurologo come
professione, nel suo capolavoro rimasto incompiuto del 1985 progetto di una
psicologia ha cercato di ricongiungere lo studio della mente e dei suoi processi
inconsci con lo studio tangibile della biologia, affermando di essere molto lontano
dal pensare che la mente non abbia una base organica ma di non poterlo dimostrare
per scarsa conoscenza. E bene, ad oggi la sua intuizione è più viva che mai grazie ad
una scoperta avvenuta nel campo delle neuroscienze durante gli anni 90. La scoperta
dei neuroni specchio, dando luce al substrato neurobiologico dell’esperienza
intersoggettiva, ha come da molti sostenuto rivoluzionato il mondo della psicologia
con una portata simile alla scoperta del DNA rivolgendo l’interesse verso una
corrente teorica a lungo criticata ma che ha saputo evolversi andando oltre le ipotesi
difensive che per molto tempo hanno dominato la visione del mondo autistico.
Winnicott, uno psicoanalista appartenente agli indipendenti britannici, così come
Bowlby con la “teoria dell’attaccamento”, Sullivan e Kouth, sono stati i promotori di
un cambiamento nelle teorie psicoanalitiche che ha visto lo spostamento
dell’attenzione dall’ambiente intrapsichico all’interpersonale e alla sua rilevanza
nello sviluppo psichico del bambino. La psicoanalisi degli anni 70-80 infatti, con gli
studi dell’infant research ha rivolto il proprio interesse allo studio della sincronia
corporea presente fin dai primi mesi di vita nella relazione diadica, funzionale alla
nascita psicologica del bambino. Dunque, la scoperta dei neuroni specchio
ricongiungendosi con quanto affermato dall’approccio psicoanalitico ha posto
l’accento su una soggettualità che nasce nell’intercorporeità ponendo le basi per un
dialogo reciproco in grado di fornire un nuovo modo di pensare al funzionamento
mentale e inevitabilmente ad una possibile nuova interpretazione della psicopatologia
autistica.
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LA PSICOPATOLOGIA AUTISTICA
Definizione dell’autismo nella storia
Il termine autismo è stato coniato nel 1911 da Eugen Bleuer, per identificare quel
particolare quadro psicopatologico di ciò che allora veniva definita da Kreapelin
“dementia praecox”. Breuer, sull’onda dell’influenza psicodinamica nascente, ne
elabora una concettualizzazione fondata sulla necessità di oltrepassare la semplice
descrizione sintomatologica basata su un criterio longitudinale, per cercare di
individuarne gli elementi psicopatologici altamente specifici, che configurano quel
particolare quadro clinico che oggi conosciamo come schizofrenia; Espressione il cui
significato etimologico ben richiama quel profondo deficit che ne sta alla base
(spaltung) dal quale prendono forma quattro tipologie di alterazioni: disturbo delle
associazioni, disturbo formale del pensiero, disturbo dell’affettività, ambivalenza e
autismo. Quest’ultimo nell’ottica di Bleuer, nonostante sia inteso come “fenomeno
secondario” rispetto ai deliri e alle allucinazioni, ha un forte valore esplicativo, in
quanto ne coglie l’essenza sintomatica contrassegnata da comportamenti di ritiro,
allontanamento, separazione, chiusura in sé stesso; le stesse manifestazioni che
l’hanno spinto a maturare l’idea secondo cui i soggetti schizofrenici preferiscano
vivere nel loro mondo, con i loro desideri, nel loro stato di appagamento e
onnipotenza, evitando ogni contatto con il mondo esterno. Paradigmatica è la
metafora proposta da Freud ( (1911) dell’autismo come un uovo di uccello protetto
dalla funzione auto nutriente del suo stesso guscio. Proprio tale idea dell’autismo,
come un “volere essere” più che un “dover essere”, mostra una parziale
contaminazione del pensiero freudiano e un particolare richiamo agli studi sulla
psicosi maniaco-depressiva di Karl Abraham. In quegli anni Breuer, si era molto
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dedicato allo studio del testo l’interpretazione dei sogni di Freud per cercare di
estenderne tali intuizioni alla comprensione della psicosi. Vi era però una differenza
sostanziale, in quanto Breuer era poco interessato al concetto di “libido” ma riteneva
sensato lo schema di fondo, in particolare il ruolo dell’affettività nel processo
ideativo-associativo. Secondo quest’ultimo: ogni alterazione della regolazione
affettiva provoca, a un livello successivo, la regressione del corpo e della psiche ad
uno stato di veglia tipico del sogno. Per tanto riprende il termine “autoerotismo”
proposto da Havelock Ellis, tralasciando nella sua descrizione qualsivoglia
riferimento “all’eros”, per porre l’accento su quella dimensione comportamentale
primaria della psicosi, connotata dal ritiro dell’interesse dal mondo esterno verso una
predominanza del mondo fantasmatico interiore, caratterizzato da meccanismi di
condensazione e spostamento, che assume un carattere patologico in senso difensivo
da un mondo intollerabile e traumatizzante. In tal senso risulta esemplare ciò che
riportano Balleri et.al (2006) nel loro testo: “la distinzione patognomica dell’autismo,
in quanto sintomo fondamentale, è definita bene dall’immagine di una tasca svuotata
di ogni elemento energetico che si è formata a causa dell’arresto degli scambi con il
mondo esterno”. Dall’altro versante però, è necessario considerare brevemente la
correzione presente nel trattato di psichiatria del (1916), all’interno del quale,
Breuer per evitare fraintendimenti con l’idea Freudiana, sostituisce l’espressione
“pensiero autistico” con “pensiero dereistico” inteso come un pensiero illogico che
permette di evadere dalla realtà circostante. Questa nuova terminologia se pur
chiarifica la sua idea dell’autismo come distacco dal mondo esterno, in realtà lascia
intravedere l’esistenza di un possibile Io.
Con il passare del tempo, il termine autismo è stato oggetto di una grande e variata
letteratura, ma ciò, almeno in tempi non molto lontani dalla prima formulazione, non
rese questo concetto più chiaro.
Melanie Klain era una psicoanalista austriaco-britannica, particolarmente nota per il
suo interesse inizialmente personale, verso lo sviluppo del bambino e l’utilizzo della
tecnica psicoanalitica, tanto che nel 1919 su suggerimento di Sandor Ferenczi e Karl
Abraham, inizio un lavoro di osservazione sui bambini in contesti di gioco che gli
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permise di porre le basi per la strutturazione di un metodo psicoanalitico per
l’infanzia e per la comprensione funzionale del mondo intrapsichico del bambino.
In particolare, nel 1930, a seguito di diverse osservazioni, nell’articolo the
importance of symbol-formation in the development of the ego (Klein, 1930) riporta
il caso del piccolo Dick, un bambino di circa 4 anni con una sintomatologia ad oggi
autistica, che assunse un ruolo promotore nelle sue intuizioni teoriche e nello
specifico nella descrizione della posizione schizoparanoide e depressiva. La Klain
nel suo sistema teorico delle relazioni oggettuali, differenziandosi sostanzialmente
dall’assunto freudiano, seguendo lo stesso schema concettuale di Karl Abraham e
attribuendo una funzione preponderante alla relazione fantasmatica con l’oggetto
materno presente fin dalla nascita, sostiene che la psicosi sia causata da
un’alterazioni nell’utilizzo dei processi difensivi della scissione, proiezione e
introiezione nei confronti della percezione ambivalente dell’oggetto materno nella
posizione schizoparanoide tali da pregiudicarne il passaggio evolutivo dall’oggetto
parziale all’oggetto totale. Se infatti le esperienze di angoscia persecutoria e di
invidia nei confronti dell’oggetto buono non verranno controbilanciate da esperienze
di amore, il bambino svilupperà una psicopatologia, in questo caso una psicosi.
Leo Kenner in Autistic disturbances of affective contact, pubblicato nel (1943)
utilizza l’assetto concettuale di Bleuer e in particolare la descrizione fenomenologica
fornita da Binswanger nel 1922, per descrivere quella particolare condizione di stare
al mondo evidenziata in un gruppo omogeneo di 11 bambini, di età compresa tra i 2 e
8 anni osservati presso l’ospedale statunitense Johns Hopkins, definita “autismo
infantile” e connotata da modi peculiari e sorprendenti che ancora oggi affascinano
gli studiosi che se occupano. In particolare:
• Il comportamento relazionale, anche nei contesti di gioco era caratterizzato da
isolamento, distacco, disinteresse, scelta di giochi solitari e ridotta
consonanza intenzionale evidenziata da anomalie a livello posturale, mimico,
gestuale e tonica. Le figure genitoriali venivano percepiti in senso puramente
“utilitaristico”, come un’estensione del proprio corpo, un’unità quasi
simbiotica: I bambini non mostravano alcuna reazione né all’allontanamento