CAPITOLO 1
GLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI
Par. 1.1. Inquadramento teorico-definizionale
Definizione degli IDE
I flussi internazionali di capitale privato si possono classificare in diverse tipologie
tra le quali spiccano per importanza: da un lato gli investimenti diretti esteri e
dall’altro gli investimenti cosiddetti di portafoglio. Nonostante vi siano molti criteri
di distinzione, quello che ci interessa di più ai fini di questo lavoro è sostanzialmente
incentrato sul controllo della partecipazione acquisita con l’investimento. Con tale
impostazione possiamo sostenere che gli IDE sono o investimenti di capitali tesi a
realizzare ex novo un’unità produttiva (di logistica, di R&S, commerciale) oppure ad
acquisire il controllo di una già esistente, mentre quelli di portafoglio sono definibili
come investimenti finanziari che non consentono il controllo d’impresa.
1
Sembrerebbe, apparentemente, esserci lieve differenza tra le due forme
d’investimento. In realtà, se confrontiamo i dati degli anni ’30 e del dopoguerra,
riscontriamo un andamento sostanzialmente differente. Infatti, se negli anni ’20 negli
USA il comportamento degli IDE e degli investimenti in portafoglio era simile
2
,
negli anni ’30, di fronte al calo sostenuto degli investimenti in portafoglio, gli IDE
hanno registrato una leggera flessione, mentre dopo la seconda guerra mondiale,
dinanzi ad un’espansione consistente degli IDE, gli investimenti di portafoglio sono
cresciuti solo parzialmente.
Cenni su alcune teorie degli IDE
L’importanza degli IDE
3
è tale da aver attratto l’interesse di numerosi studiosi di
economia, che hanno cercato di spiegare tale fenomeno con delle teorie non sempre
esaurienti. Un primo tentativo valido di concettualizzazione del fenomeno si struttura
a partire dal fallimento della teoria del tasso d’interesse
4
. Tale approccio classifica gli
1
Diverse sono le definizioni di controllo a dimostrazione del fatto che non vi sia un’unanimità di
consenso circa la sua valutazione. Il Department of Commerce degli Stati Uniti, ad esempio, ha
stabilito che se un’impresa estera è controllata totalmente da una holding statunitense si hanno i
presupposti per il controllo, così come è sufficiente il 25% del capitale della consociata o il 50% del
capitale di essa, anche se nessuno gruppo detiene da solo il 25% ma insieme ad altre holding
americane raggiunge il 50%, per poter parlare di partecipazione estera di controllo. Il Fondo
Monetario Internazionale, invece, considera “controllata” l’impresa estera nella quale il partecipante
investitore esercita una funzione direzionale-manageriale a prescindere dalla quota di capitale
detenuta. Pertanto, il FMI ritiene che il controllo dell’attività d’impresa dipenda dagli interessi
durevoli che l’investitore ha all’interno dell’organizzazione e non dalla quota di capitale sociale
posseduta.
2
Per il primo 7,5 miliardi di dollari, per il secondo 8,1 miliardi di dollari.
3
Nel paragrafo successivo verranno esposti convincenti argomenti sulla sua importanza.
4
Si veda S. HYMER, “ L’impresa Multinazionale ”, EINAUDI, Torino, 1974. Le difficoltà riscontrate
nell’applicazione di questa teoria risiedono nell’aver voluto spiegare gli investimenti in partecipazioni
investimenti diretti in “investimenti diretti di tipo 1” e “investimenti diretti di
tipo 2”. Si hanno gli investimenti di tipo 1 quando l’investitore considera che il
paese estero, in cui ha investito, possa ritenerlo uno “straniero” e quindi non degno
dello stesso status degli investitori nazionali. In questo caso, l’investimento diretto
viene preferito a quello di portafoglio o perché la diffidenza verso i capitalisti
stranieri è elevata o quando vi sono rischi di espropriazione e di cambio. Un altro
motivo che potrebbe spingere l’investitore ad assumere il controllo d’impresa,
investimento di tipo 2, è individuabile nell’adozione di una strategia rivolta a
eliminare la concorrenza tra l’impresa dell’investitore estero e quella dei paesi dove
concentra i suoi sforzi finanziari, oppure nell’appropriazione di competenze
manageriali-direzionali e di skills. In termini quantitativi, secondo HYMER, ciò che
spinge le imprese ad acquisire il controllo di attività all’estero dipende dalla volontà
di assorbire nuove quote di mercato e di aumentare i profitti. Sulla spinta della teoria
di HYMER, segue un filone di teorie di stampo oligopolistico costruite seguendo
l’impostazione della grande impresa multinazionale che sfruttando la propria forza di
mercato nel paese di origine cerca di sviluppare strategie concorrenziali puntando sui
mercati esteri. Una delle teorie in questione è sicuramente quella cosiddetta
“dell’approccio tecnologico”
5
. Seguendo il concetto di ciclo di vita del prodotto, si
sostiene che gli investimenti diretti sono fortemente legati alla capacità di detenere
un monopolio reale, o ipotetico, su determinate innovazioni di prodotto. Infatti, dopo
aver acquisito una consistente quota di mercato nel proprio paese l’impresa è spinta
dalla necessità prima di esportare, poi di produrre all’estero. In questa seconda fase si
affacciano i primi competitori-imitatori (i cosiddetti spillover) che producono un
certo grado di standardizzazione del prodotto, spronando le imprese a differenziare la
propria “offerta” per non competere solo sul terreno dei prezzi. La maturazione del
prodotto e del mercato incentivano le imprese a ricercare nuovi assets competitivi
puntando soprattutto sui bassi costi di manodopera e delle materie prime. Questo
genera un flusso di investimenti nei PVS e nei NICS rendendo più conveniente allo
stesso Paese-madre dell’innovazione reimportare i propri prodotti. Un’altra strada
percorribile dall’impresa “first-mover” è quella di lasciare il mercato, ormai saturo,
per attuare una nuova strategia innovativa che offra nuovi prodotti sostitutivi e che le
consenta di poter sfruttare la nuova posizione di monopolio. Da queste brevi
considerazioni si evince come tra i limiti della teoria vi siano:
- l’aver posto al centro dell’attenzione solo il prodotto e non l’impresa, che potrebbe
essere multiprodotto (ciò che costituisce una regola e non un’eccezione);
- l’aver, riduttivamente, analizzato l’innovazione di “prodotto” trascurando
completamente quella di “processo” e organizzativo-manageriale;
- il non aver preso in rassegna le ipotesi di delocalizzazione produttiva di singole fasi
del processo di produzione.
Un altro filone oligopolistico, che si propone di analizzare le motivazioni che
inducono le imprese ad assumere “controllo” all’estero, è collocabile storicamente
nella seconda metà degli anni ’80. Un contributo rilevante è quello che associa al
con il semplice uso del tasso d’interesse. Ciò comporta l’impossibilità di giustificare le azioni degli
investitori che decidono di assumere il controllo d’impresa, quando potrebbero limitarsi al semplice
prestito di denaro.
5
R. VERNON, “ Sovereignity at Bay: the Multinational Spread of U.S. Enterprises ”, Basic Books,
New York, 1971; Id., “ International Investment and International Trade in the Product Cycle ”,
Quarterly Journal of Economics, n. 2, 1966.
concetto di “internazionalizzazione” quello di “internalizzazione”
6
. Partendo
dall’idea di IMN (impresa multinazionale), tale approccio sostiene che sia
fondamentale, ai fini competitivi, aggirare i mercati esterni imperfetti con una
produzione eseguita nella propria organizzazione, cioè con una struttura d’impresa
capace di internalizzare le transazioni internazionali. Le valutazioni sulla
convenienza, o meno, di tale strategia vengono impostate su calcoli economici, ossia
sulla misurazione e confronto dei benefici con i costi. Tale approccio s’ispira al
contributo di COASE che introduce il concetto di “organizzazione efficiente”
capace di sostituire il mercato nell’organizzare le transazioni economiche
7
. Tra i
fattori analizzati da B. e C., meritano particolare attenzione i fattori industry-specific
legati al settore di appartenenza dell’impresa e all’organizzazione del mercato
esterno di riferimento. Questi fattori inciderebbero, non poco, sui processi di
internalizzazione di fasi del ciclo produttivo (fenomeno d’integrazione verticale) e di
acquisizione dei mercati delle “conoscenze” (controllo diretto di capacità
organizzativo-manageriali e scientifico-tecnologiche). Un importante contributo
sull’arricchimento della teoria dell’internazionalizzazione ci è fornito dalla teoria
“eclettica” (o della flessibilità della strategia localizzativa
8
) proposta da DUNNING.
Secondo l’autore esisterebbero 3 livelli di vantaggio con i quali spiegare le scelte di
internazionalizzazione delle imprese:
- da proprietà
9
(ownership advantage), derivanti da risorse aziendali trasferibili
all’estero a costi contenuti;
- da internazionalizzazione, connessi alla capacità d’integrazione di fasi o funzioni
all’interno dell’impresa;
- e per ultimo, da vantaggi localizzativi
10
, legati alla presenza dell’impresa in un
determinato contesto politico-economico del Paese target.
L’analisi effettuata, per altro, risulta essere troppo statica perché giustifica le
politiche aziendali solo sulla base di vantaggi dati. Consapevole di tali limiti, l’autore
cerca di dinamicizzare la sua impostazione teorica individuando un ciclo di sviluppo
degli IDE sulla base della situazione politico-economica dei Paesi. Prendendo in
esame un campione di 67 Paesi nel periodo 1967-1975, ha osservato, empiricamente,
che i Paesi a reddito più basso presentano un saldo netto degli IDE prossimo al
pareggio perché i flussi di entrata sono minimi e quelli di uscita quasi inesistenti. I
Paesi a medio reddito (fra cui i NICS, New Industrializing Countries) evidenziano
una bilancia negativa dovuta al maggior flusso di IDE in entrata rispetto a quelli in
uscita. Infine, i Paesi a reddito elevato, potendo contare su un maggior processo di
internazionalizzazione produttiva delle proprie imprese, riescono a compensare il
6
P. J. BUCKLEY e M. CASSON, “ The Future of Multinational Enterprise ”, MacMillan, London,
1976.
7
I costi interni di produzione devono risultare inferiori ai costi d’uso del mercato esterno (intendendo
per costi d’uso il prezzo da pagare per acquisire sul mercato gli inputs necessari al processo
produttivo).
8
F. MOMIGLIANO, “ Economia industriale e teoria dell’impresa ”, Il Mulino, Bologna, 1974 cit., p.
404.
9
Per vantaggi da proprietà s’intende il controllo diretto su risorse competitive quali: il livello di
economie di scala; la capacità di essere tecnologicamente e organizzativamente innovativi; l’attitudine
e l’abilità d’imitare gli avversari concorrenti; le risorse finanziarie; le competenze di marketing ecc.
10
I vantaggi che si possono cogliere in un Paese-obiettivo sono riconducibili essenzialmente a
variabili quali: le risorse naturali; la disponibilità, il costo e la flessibilità della manodopera; le
infrastrutture hard e soft; il potenziale scientifico-tecnologico nazionale; l’estensione del mercato di
sbocco; la vicinanza geografica e culturale con il Paese investitore; le politiche pubbliche e così via.
flusso di investimenti provenienti dall’estero con una più cospicua movimentazione
degli IDE in uscita. Pertanto, il saldo netto di IDE di tali paesi risulta essere positivo.
Accanto al reddito, egli introduce un’ ulteriore distinzione tra i Paesi concentrandosi
sulla presenza, o meno, in tali aree di risorse materiali o intangibili e sul differente
sviluppo industriale. Tale distinzione è stata necessaria per l’autore al fine di poter
argomentare le differenze tra i saldi netti degli IDE in Paesi a PIL pro-capite simile.
L’errore di tale approccio “dinamico” consiste nell’aver trascurato fattori che
rientravano fra i vantaggi localizzativi che comparivano nella sua teoria “statica”,
quali il fattore “distanza” e i “differenziali salariali internazionali”, e nell’aver
confuso i vantaggi di proprietà, a volte, come vantaggi monopolistici delle IMN
11
,
altre volte come vantaggi competitivi (di natura tecnologico-manageriale o altro).
Infine, è stato sottovalutato il vantaggio ottenibile dall’appartenere ad un Paese
d’origine capace di offrire assets e risorse fondamentali per la crescita dell’impresa
all’estero e nel proprio territorio nazionale.
12
Il modello nipponico
Il modello giapponese è il risultato di un diverso approccio metodologico dovuto alla
diversa esperienza delle imprese nipponiche circa i processi di internazionalizzazione
attiva. Mentre il modello americano può essere definito anti-trade-oriented
sostitutivo dell’export, quello giapponese è finalizzato proprio al commercio (trade-
oriented). Infatti, le multinazionali nipponiche nelle loro politiche d’investimento
all’estero ricercano vantaggi competitivi e fattori produttivi a basso costo per
svolgere funzioni o fasi del ciclo produttivo a condizioni più economiche. Ciò si
traduce in una re-importazione di semilavorati o outputs per la commercializzazione
in ambito mondiale o per l’assemblaggio nel proprio Paese. Gran parte degli
investimenti all’estero sono stati “guidati” dalle trading companies
13
proprio per
avvalersi della collaborazione di questi “colossi” commerciali in grado di studiare
più efficacemente i bisogni del mercato. Il modello teorico giapponese non è più in
grado, oggi, di spiegare la nuova distribuzione geografica degli IDE, in quanto se
prima gli investimenti si concentravano nei paesi che offrivano garanzie di basso
costo sui fattori produttivi specifici, adesso i flussi di partecipazioni si localizzano
anche nei paesi più industrializzati del mondo, in particolar modo negli USA e in
Europa centro-settentrionale. L’obiettivo non è più solo la ricerca di convenienze
economiche ma anche la necessità di essere presenti nei mercati più importanti per
essere duttili nell’adottare efficacemente strategie di differenziazione produttiva
soprattutto nei mercati dei beni di consumo. Nonostante i limiti di tale “modello” è
importante evidenziare quel rapporto di collaborazione fra imprese industriali e
trading companies nei processi di globalizzazione economica.
11
Questa visione lo avvicina molto a CASSON, HYMER e CAVES.
12
Fra queste condizioni favorevoli è sufficiente ricordare l’importanza del potenziale scientifico-
tecnologico nazionale, delle politiche pubbliche adottate e di altri fattori istituzionali.
13
Le trading companies, o grandi compagnie commerciali, hanno privilegiato molto spesso forme
organizzative d’impresa assimilabili alle joint-ventures che consentono all’imprenditore estero di
avvalersi delle conoscenze e delle risorse locali delle aree d’insediamento.
Par. 1.2. Rilevanza degli investimenti diretti esteri
Introduzione
Qualunque sia la concezione teorica adottabile, resta inattaccabile il ruolo che gli
IDE assumono in un contesto economico sempre più spinto in processi di
globalizzazione dei mercati. Infatti, l’unico percorso seguibile dalle IMN per
espandersi planetariamente ed essere presenti nei maggiori mercati mondiali è quello
d’investire massicciamente capitale finanziario di controllo.
Pertanto, tale politica può essere considerata un vero e proprio “processo di processi”
che va trasformando le imprese multinazionali e trans-nazionali in veri agenti
propulsori d’integrazione economica sopranazionale, raggiunta con forti scambi
finanziari, commerciali e tecnologici.
Secondo i dati delle NAZIONI UNITE (ONU), nella prima metà degli anni ’90 si è
registrata la presenza di 38.000 IMN con oltre 200.000 affiliate sparse nel mondo.
Queste ultime occupavano oltre 70 milioni di addetti (pari al 10% dell’occupazione
mondiale non agricola) e raggiungevano un fatturato superiore del 20% rispetto al
valore delle esportazioni mondiali; l’interscambio cosiddetto intra-firm-trade, cioè
tra casa-madre e affiliate, era stimato essere oltre un terzo del commercio mondiale.
14
La fiducia riposta a tali investimenti diretti esteri è tale da aver convinto diversi Paesi
ad adottare politiche di “liberalizzazione” dei flussi di capitale.
15
Se a questo
diverso orientamento politico-normativo accompagnamo le funzioni sempre più
importanti svolte da istituzioni della Banca Mondiale, quali la MIGA
16
(Multilateral
Investment Guarantee Agency) e l’ICSID
17
(International Center for the Settlement
of International Disputes) e il sempre più cospicuo numero di Trattati Bilaterali
Internazionali fra diversi Paesi
18
, non si ha difficoltà nel percepire l’interesse che
ruota attorno a tali forme d’investimento indispensabili per lo sviluppo delle proprie
economie nazionali.
IDE in entrata
Gli investimenti diretti esteri possono essere distinti in due tipi:
- investimenti greenfield o << prato verde >>;
- investimenti di acquisizione e/o fusione.
Gli investimenti greenfield sono investimenti ex novo, ossia diretti a creare nuove
unità produttive (direttamente manifatturiere, logistiche, di R&S, di progettazione, di
commercializzazione).
14
Dati provenienti da DataBase di “ Mondo Economico ” pubblicati, tra gli altri, in un articolo
direzionale intitolato << Micro e Macro: perché internazionalizzare è bello >> del 28 agosto 1995.
15
Questa tendenza è confermata dall’ONU che sottolinea come solo il 5% dei piani normativi relativi
agli IDE sia avvenuto nella direzione di un maggior controllo dei paesi.
16
La MIGA è un’ agenzia multilaterale garante e promotrice degli IDE istituita dalla Banca Mondiale.
17
E’ un organo giudiziario finalizzato a dirimere le controversie in materia di investimenti
internazionali svolgendo funzioni tipiche di un tribunale.
18
Nel 1997 si contavano 1330 BIT nel mondo, circa il triplo rispetto a 5 anni prima, con un
coinvolgimento di 162 Paesi. Dalle caratteristiche di questi trattati scopriamo come la maggiore
partecipazione sia quella dei PVS.
Gli investimenti di acquisizione e/o fusione, invece, sono indirizzati ad assumere il
controllo di altre unità già esistenti. L’impatto occupazionale degli investimenti di
acquisizione è meno significativo perché piuttosto che assumere nuovi addetti, come
nel caso degli investimenti a prato verde, si cerca di ristrutturare o di riconvertire le
attività produttive acquisite per ridimensionare i propri organici e tutte le attività
d’indotto superflue. Questo potrebbe provocare alti livelli di disoccupazione non
sempre assorbibili nel breve periodo. Il Paese che ospita investimenti diretti può
beneficiare di un aumento dello stock di capitale che, oltre a garantire un uso più
efficiente delle risorse esistenti e di quelle sotto-utilizzate, consente almeno
teoricamente d’innalzare il livello di produttività locale.
Conseguentemente a tale assorbimento di ricchezza, diversi sono gli effetti da
considerare nell’area:
- i primi sono gli effetti “moltiplicativi”, che dovrebbero movimentare l’ingranaggio
economico, soprattutto nell’ottica della nascita e dello sviluppo delle imprese locali
che forniscono inputs o assorbono gli outputs dell’impresa estera;
- da contraltare, si possono verificare effetti di “spiazzamento
19
” dovuti sia alla
difficoltà di accesso al capitale nazionale sia a quello di concentrare un discreto
numero di imprese concorrenti in una determinata area superando la massa critica
che consentirebbe alle imprese locali di sopravvivere.
Se con gli investimenti greenfield, all’aumento dello stock di capitale corrisponde un
aumento occupazionale, tale relazione potrebbe non sussistere con gli investimenti di
merger & acquisitions. Infatti, non pochi sono i casi di aumento di investimenti sul
territorio non accompagnati da una crescita occupazionale.
L’importanza degli IDE deve essere valutata anche alla luce dei risvolti innovativo-
tecnologici susseguenti al loro assorbimento.
Da più parti è stato sottolineato il ruolo delle imprese multinazionali nel generare
innovazioni di “prodotto” e di “processo” per il loro maggiore impegno finanziario
nelle attività di R&S.
20
Ne deriva che:
- gli IDE rappresentano uno strumento incisivo per l’innovazione e il trasferimento
tecnologico;
- è possibile accedere a conoscenze “tacite”, altrimenti non reperibili,imitando
routine
21
che la casa-madre cerca di replicare nelle proprie consociate estere;
- il diverso spirito innovativo che anima le IMN rappresenta un importante
opportunità per formare il personale locale e per dirigerlo verso nuovi mercati
nazionali diventando esso stesso un’esternalità positiva da offrire nel proprio
pacchetto localizzativo;
- si potrebbero attivare relazioni di partnership e di collaborazione con le imprese
locali elevando la competitività delle aziende coinvolte soprattutto nel settore
manageriale e tecnologico;
19
In altri termini, il rischio è quello del superamento di livelli massimi di accoglienza di imprese
estere concorrenti, tale da provocare forti disagi alle imprese già localizzate sul territorio.
20
F. MOMIGLIANO, “ Economia industriale e teoria dell’impresa ”, cit., p. 411; J. B. QUINN, <<
Technology Transfer by Multinational Companies >>, Harvard Business Review, November-
December 1969; K. PAVITT e P. PATEL, << Technological Strategies of the World’s Largest
Companies >>, Science and Public Policy, n.18, 1991.
21
Per routine s’intende il “gene” che regolamenta il comportamento organizzativo d’impresa e
pertanto è indispensabile replicarlo nelle filiali o consociate dell’IMN. R. R. NELSON e S. G.
WINTER, “ An Evolutionary Theory of Economic Change ”, Harvard University Press, Cambridge
(Mass.) 1982, pp. 112-136.
- potrebbero essere avviate collaborazioni con istituti di ricerca locali, i quali si
potrebbero avvantaggiare dei rapporti che hanno con il mercato, mentre diverse
attività di ricerca potrebbero essere sponsorizzate dalle IMN estere, favorendo lo
sviluppo cognitivo dell’area;
- le imprese estere rappresentano un punto di riferimento per le imprese locali,
costrette a raggiungere performance produttivo-tecnologiche sempre più elevate ed
acquisire capacità manageriali sempre più professionali. Questa nuova filosofia di
operare escluderebbe loro da fenomeni negativi quali il lock-out;
- il sapere scientifico-tecnologico, trasferito dalle IMN, si vada ad integrare con
quello nazionale favorendo un ulteriore crescita di know-how e di competenze
specifiche.
Oggi, è più importante applicare le dotazioni cognitive che si possiedono piuttosto
che produrre tout court conoscenze senza destinarle ad alcuna applicazione.
Tale strategia di sviluppo tecnologico-cognitivo dovrebbe convincere i Paesi ad
adottare provvedimenti legislativi, fiscali e infrastrutturali per sostenere e sviluppare
parchi scientifici, incubator e così via.
Altra importanza degli IDE la si osserva nel trasferimento delle diverse tecniche
gestionali delle IMN sul territorio target.
Le imprese locali, sicuramente, potrebbero imitare le imprese estere sul lato
organizzativo-manageriale e dell’attività di marketing. La presenza di tali imprese,
infine, è vantaggiosa ai fini di una preparazione dirigenziale dei giovani aprendoli a
nuove esperienze internazionali e quindi a creare in loro una cultura e una visione
internazionale. Prima di concludere la breve trattazione sull’impatto socio-
economico che rivestono gli IDE in ambito locale, a parere di autorevoli osservatori,
sarebbe opportuno riflettere sugli effetti che le IMN estere hanno sui mercati di
sbocco delle PMI. Non è azzardato sostenere che le imprese locali, cooperando e
producendo outputs per le filiali delle holding multinazionali, possono costruirsi un
giro d’affari rilevante soprattutto perché, se competitive ed efficienti, potrebbero
diventare fornitrici dell’intero gruppo multinazionale e usufruire di strutture
logistico-distributive e di marketing del “grande” gruppo per inserirsi in nuovi
mercati internazionali. Inoltre le IMN, esigendo beni e servizi competitivi per
qualità/prezzo, spronano le stesse imprese locali a sforzarsi per ottenere livelli di
qualità e di prezzo comparabili con quelli che sono gli standard internazionali. Tale
impegno verrebbe ripagato dallo sfruttamento di vantaggi competitivi, acquisiti in
passato, sui mercati di sbocco dei loro prodotti in scala nazionale e locale.
IDE in uscita
Si dicono investimenti diretti esteri in uscita quelli che imprese di un dato Paese
apportano in altri contesti nazionali.
Per poter analizzare gli effetti benefici di tali politiche di internazionalizzazione
attiva, bisogna distinguere gli effetti di breve periodo da quelli di lungo periodo.
Secondo alcuni, si produrrebbero, nel breve termine, delle condizioni sfavorevoli ai
flussi di export di prodotti e servizi, danneggiando in modo consistente la bilancia
commerciale del Paese investitore. Secondo gli stessi, si rischierebbe anche di
deindustrializzare interi sistemi locali perché ad una produzione in loco si
sostituirebbe un’attività produttiva all’estero.
22
Non è facile poter dare una risposta
compiuta degli effetti degli IDE in uscita su macrovariabili quali l’esportazione e
l’occupazione, pertanto sarebbe opportuno analizzare singolarmente gli effetti che
producono diversi tipi d’investimento quali:
- gli investimenti complementari;
- gli investimenti produttivi market-oriented;
- gli investimenti di rilocalizzazione produttiva.
Si possono definire investimenti complementari
23
, le attività di adattamento dei beni
ai bisogni e ai gusti dei consumatori, i servizi di assistenza pre e post - vendita,
nonché le attività di fornitura di semilavorati (parti o pezzi di ricambio) e di
distribuzione commerciale ai clienti esteri.
Tali forme d’investimento non incidono negativamente sull’export e sui tassi di
occupazione perché i processi di produzione rimangono localizzati nel Paese
d’origine. Anzi, l’installazione di una filiale commerciale all’estero dovrebbe
incentivare e sostenere ancor di più i processi di esportazione del Paese natale,
perché consentirebbe di accrescere il legame tra impresa nazionale e i mercati
stranieri. Se, come si afferma, aumentano gli scambi commerciali per forza di cose
dovrebbe aumentare l’occupazione.
24
Gli investimenti produttivi market-oriented sono, come dice la parola stessa, orientati
alla penetrazione del mercato estero. In termini tecnici, l’investimento diretto è
indirizzato a creare nuove attività di produzione all’estero e non semplici strutture
ausiliarie e di supporto all’impresa nazionale. Il mercato extranazionale acquisisce
maggiore spessore in termini d’importanza diventando principale come quello
nazionale. Forse, tale politica industriale potrebbe incidere negativamente sulle due
variabili macroeconomiche ma rappresenta una strategia obbligata per mantenere le
quote possedute o per conquistarne di nuove.
Tuttavia, potrebbero verificarsi altri fenomeni:
- il primo di questi, è un maggiore volume di export raggiungibile proprio grazie agli
investimenti effettuati all’estero (sembra un paradosso ma non lo è affatto poiché in
assenza dell’investimento non sarebbero possibili determinati livelli di domanda
interna);
- il secondo, può determinare un notevole flusso di impianti, macchinari e
semilavorati richiesti dalle unità produttive neo-localizzate migliorando la bilancia
commerciale bilaterale tra paese investitore e paese “attrattore” degli IDE.
Gli investimenti di rilocalizzazione produttiva, infine, sono investimenti diretti
effettuati per sfruttare vantaggi competitivi come il basso costo della manodopera in
un dato Paese. Delle tre tipologie d’investimento, questa è quella più nociva per
l’economia della nazione investitrice perché la produzione estera, in settori
essenzialmente tradizionali e maturi, si sostituisce a quella d’origine con inevitabili
ripercussioni sulla bilancia commerciale e sull’occupazione.
22
Tale fenomeno economico spiazzerebbe parte dell’occupazione interna e contribuirebbe a provocare
disoccupazione.
23
Definiti da alcuni autori << ancillari >>, si veda M. MOTTA, “ Effetti degli IDE sul Paese
investitore: una rassegna e alcune considerazioni per una politica di promozione degli investimenti ”,
Industria, n.1, 1990.
24
Committee of Finance, US Senate (Chairman R.B.LONG), “ Implications of Multinational Firms
for World Trade and Investment and for USA Trade and Labor ” , Washington, 1973.
Sulla bilancia commerciale, perché s’instaura un flusso contrario di re-importazione
dei prodotti intra-firm (tra filiale estera e casa madre) e il valore degli stessi è
superiore all’esportazione delle materie prime utilizzate per produrre tali outputs.
Sulla seconda, perché si registra una riduzione del lavoro non specializzato.
25
In un’ottica di medio lungo periodo possiamo classificare 3 categorie d’investimento:
- investimento volto allo sfruttamento di particolari assets competitivi;
- investimento di reazione (soprattutto in mercati oligopolistici);
- investimento alla ricerca di particolari risorse disponibili all’estero.
Tra i vantaggi ottenibili dal primo tipo d’investimento possiamo ricordare:
- la possibilità di accesso ad approvvigionamenti su scala mondiale;
- la riduzione dei costi logistici e di comunicazione e quindi di distribuzione
commerciale;
- la maggiore adattabilità e flessibilità ai mercati;
- la possibilità di sfruttamento di incentivi finanziari e di sostegni regolamentari per
l’intrapresa di iniziative innovative;
- la più penetrante capacità di assorbimento di know-how, a cui si lega un minore
insuccesso nella R&S;
- l’allungamento del “ciclo di vita dei prodotti e dei processi”;
- infine, una maggiore forza contrattuale con i governi nazionali e regionali.
A spingere un’impresa ad investire all’estero, sempre in un’ottica lungimirante,
possono esserci motivi di reazione ad azioni strategiche poste da IMN concorrenti.
La finalità di tale operazione finanziaria è quella di ristabilire il precedente equilibrio
economico, o addirittura quella di spostare a proprio favore la situazione venutasi a
creare. Per concludere, bisognerebbe spendere qualche parola sugli investimenti volti
allo sfruttamento di particolari risorse. Tra queste vi sono le materie prime (risorse
minerarie, fonti di energia, terre fertili, ecc.), fattori produttivi a basso costo (i
cosiddetti investimenti di rilocalizzazione) e, per ultimo, fattori ambientali in grado
di offrire esternalità positive.
26
25
La rilocalizzazione produttiva riguarda soprattutto settori maturi labour intensive fortemente legati a
tecnologie tradizionali (si pensi, all’industria tessile e conciaria).
26
Tra i fattori ambientali ricordiamo: le strutture universitarie, i laboratori di R&S, i porti
commerciali, gli aeroporti, le ferrovie ecc.
Par. 1.3. Orientamento politico-economico percepito dei principali Paesi
Europei
Nel corso degli ultimi anni in Europa Occidentale l’orientamento politico
sull’attrazione degli investimenti esteri è sensibilmente mutato. Si può osservare,
infatti, un diverso atteggiamento di apertura culturale ed economica
sull’accoglimento nel proprio territorio di investitori stranieri. La consapevolezza
dell’importanza di tali investimenti per l’economia nazionale ha spinto i vari Paesi ad
abbandonare vecchie politiche di controllo e di limitazione della proprietà estera.
Vi sono state una serie di misure politico-strategiche atte non solo a non ostacolare
ma addirittura ad agevolare concretamente l’attrazione degli IDE.
27
Di fronte ad una competizione “globale” fra diverse aree territoriali per
l’insediamento di imprese industriali nel proprio contesto, varie sono state le leve
utilizzate per essere più attrattive.
Sinteticamente, possiamo distinguerle in due tipi:
- quelle che puntano sull’incentivazione regionale o di altra natura;
- e quelle più indirette che sono rivolte al miglioramento del milieu di riferimento
delle imprese.
Ai fini della scelta localizzativa, a nostro avviso, merita particolare attenzione questo
secondo strumento in quanto, in virtù di valutazioni empiriche, le sovvenzioni
finanziarie possono solo rafforzare l’offerta di aree, ma non possono essere l’unica
leva attrattiva.
28
Per ambiente, intendiamo le condizioni macroeconomiche quali: bassi tassi
d’inflazione; costante crescita economica; bassi livelli di fiscalità; stabilità valutaria e
la presenza significativa ed efficiente di infrastrutture nazionali e regionali.
Altro elemento costitutivo del milieu
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è rappresentato dal mercato del lavoro, il
quale, per essere considerato un asset competitivo, deve soddisfare i requisiti della
flessibilità, del basso costo e della qualità professionale.
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Anche le deregolamentazioni creano una condizione favorevole per le aziende
insediate o intenzionate all’insediamento. Tra le forme di deregulation ricordiamo le
misure di liberalizzazione dalle pratiche amministrative, dalle normative in merito al
reimpatrio dei profitti e dalla definizione di livelli minimi di dotazione del capitale.
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Tra le varie misure adottate si ricordano il miglioramento dell’immagine del Paese o della Regione
verso l’esterno, l’istituzione di agenzie di sviluppo e promozione locale, le politiche d’incentivazione
finanziarie e fiscali, nonché una diversa filosofia di gestione del territorio nell’ottica della
pianificazione strategica del marketing (tanto da aver coniato il termine di MARKETING
TERRITORIALE).
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Per un approfondimento si veda il capitolo 2.
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Per milieu, s’intende quell’insieme di relazioni e di scambi socio-commerciali radicati in un
determinato contesto geografico. Una traduzione completa del termine in italiano risulta essere
superficiale perché è qualcosa di più di un semplice ambiente di riferimento.
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E’ utile ricordare che, la possibilità di rinunciare agli obblighi imposti ai datori di lavoro dal Social
Charter, è stata considerata dal governo britannico come uno strumento che ha avvantaggiato il Paese
in termini di localizzazione delle imprese estere.
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Misure di deregulation efficaci sono state perseguite da diversi paesi fra i quali Francia, Spagna e
Svezia, ove sono stati modificati precedenti ordinamenti restrittivi.
Infine, il processo di privatizzazione, sicuramente, contribuisce a creare buone
opportunità d’investimento per l’assorbimento e il controllo di imprese pubbliche di
un certo spessore.
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I Paesi dell’Europa Occidentale attribuiscono un ruolo differente agli IDE, riguardo
al loro impatto sull’economia nazionale e alla loro capacità di contribuire alla
crescita economica locale. In base all’orientamento politico seguito dai vari Paesi,
possiamo riscontrare 2 contrapposti gradi di apertura al capitale estero:
1. quello del Regno Unito e della Spagna, più sensibili ad accogliere
investimenti di provenienza estera;
2. quello dell’Italia e della Germania, meno orientate a tali problematiche.
La Spagna, sin dal 1986 data del suo ingresso nella Comunità Europea, ha posto
sempre particolare attenzione sugli investimenti nei processi di modernizzazione
della propria economia. Ad esempio, l’industria automobilistica spagnola, che
rappresenta il settore nazionale col maggiore volume di export, è interamente
posseduta da capitale straniero.
Nel caso del Regno Unito, pur non avendo raggiunto la proprietà estera lo stesso
grado di penetrazione riscontrato in Spagna, è simile l’atteggiamento di apertura del
governo sull’accoglimento del capitale estero. Sono stati ben accettati gli
investimenti provenienti dagli USA e dal GIAPPONE, mentre regioni come la
SCOZIA hanno potuto “rivitalizzare” la propria economia grazie al contributo di
investimenti nel campo dell’elettronica che hanno generato, a loro volta, un cluster di
imprese specializzate.
Fra i Paesi che sono stati oggetto di studio dell’EPRC, l’Italia e la Germania hanno
dimostrato uno scarso interesse, o addirittura una certa avversione, a determinati
investimenti.
Nel caso della Germania, oltre alla mancanza di vere e proprie Agenzie di sviluppo
che pianifichino l’attività promozionale, mancano specifici incentivi finanziari e ciò
si riflette su una bassa capacità di attrazione e un ridotto afflusso di IDE in entrata.
Il massimo sforzo del governo tedesco è centrato, soprattutto, sulle imprese nazionali
per sollecitarle ad investire sul proprio territorio e a demotivarle da eventuali
strategie di sviluppo estero.
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La situazione italiana non è molto differente. Infatti, soltanto in questi anni si avverte
l’esigenza di adottare una condotta politico/operativa più pianificata e di costituire
agenzie “reali” di sviluppo.
Fino ad oggi, pochi e parziali sono stati i provvedimenti concreti per sostenere la
politica di attrazione. Si è cercato di sviluppare il Mezzogiorno, semplicemente,
ridistribuendo sul territorio gli investimenti endogeni attraverso agevolazioni
finanziarie e fiscali.
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Tale politica di abbandono della presenza pubblica nei mercati, stabilita dalla Comunità Europea,
può incrementare i processi di privatizzazione francesi attivati di recente.
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Le attività governative locali, in altri termini, puntano più al trattenimento delle proprie imprese che
all’accoglimento delle aziende esogene.
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Si ricordi la legge n. 488/92 e gli strumenti di programmazione negoziata quali i patti territoriali, i
contratti d’area e i contratti di programma, mentre come sottolinea giustamente COMINOTTI la legge
n. 156/93, cosiddetta legge “Baratta”, rimane l’unico strumento legislativo (adottato per stimolare la
localizzazione in Italia di imprese estere) finalizzato a mettere a disposizione finanziamenti a fondo
perduto a Regioni e Consorzi per realizzare programmi di promozione del territorio. Tale intervento
legislativo è stato un vero disastro se si pensa che dei 50 miliardi stanziati solo 8 sono stati utilizzati e
che la sua proroga è stata concessa solo per il 1996.
Un caso a parte è quello della Francia che, fino alla metà degli anni ’80, era contraria
all’ingresso di imprese estere. Anzi, nei primi anni del governo socialista, il Paese
era fortemente ostruzionistico verso gli operatori economici stranieri e, in particolar
modo, verso coloro che acquisivano il “controllo” di imprese francesi.
Di fronte al perdurare della disoccupazione, negli ultimi 10 anni, il governo francese
ha riconosciuto l’importanza che rivestono gli IDE.
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In questo nuovo contesto, trovano giustificazione gli sforzi compiuti dalle Agenzie
governative e locali, che hanno predisposto misure di pianificazione strategica
seguendo un approccio “tipico” del marketing aziendale, nonché un più tollerante
sistema giuridico.
E’, sicuramente, un modello da imitare soprattutto per la struttura organizzativa delle
agenzie e per la loro facilità nel coordinarsi efficacemente con altre istituzioni
nazionali e locali.
Tra i Paesi dell’Unione Europea, la Francia si colloca, attualmente, al secondo posto
nella classifica dei Paesi più “attrattori” preceduta dal Regno Unito.
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Un’analoga conversione di tendenza la si può riscontrare in Svezia, ove, dopo un
lungo periodo di staticità sulle attività promozionali del territorio, si è proposta
l’istituzione di un’agenzia governativa i cui obiettivi principali sono essenzialmente
mirati ad attrarre capitale estero (OCSE 1993).
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Lì dove non è possibile intervenire con il capitale nazionale (classico esempio di sviluppo
economico endogeno) è indispensabile sfruttare risorse provenienti oltre confine come il caso francese
dimostra ampiamente.
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Il merito, di questo salto nella graduatoria, è dovuto alla capacità delle istituzioni francesi di fornire,
in tempi rapidi, tutte le informazioni di cui necessitano i site location manager e numerosi servizi pre
e post-insediamento. Un ruolo determinante lo si deve a l’IFA-DATAR, che assurge ad un ruolo di
incarico promozionale di direct-marketing in rappresentanza dell’intero Paese francese.
Par. 1.4. Il trend storico delle partecipazioni internazionali
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Dopo il rallentamento congiunturale del 1996, i flussi mondiali degli IDE hanno
raggiunto nel 1997 livelli senza precedenti, soprattutto alimentati da un
atteggiamento molto favorevole delle IMN allo sviluppo tecnologico, ai processi di
liberalizzazione e di integrazione economica e alla competizione “globale”.
In particolare, i flussi in uscita hanno superato i 420 miliardi di dollari facendo
registrare un incremento del 27% tra il ’96 e il ’97. (tabella 1)
Il tasso annuo medio di crescita nell’ultimo decennio si è stabilizzato, in valori
nominali, su un livello superiore rispetto al PIL mondiale, agli investimenti interni
lordi e alle esportazioni. (tabella 2 e 3)
In termini percentuali, il rapporto tra stock degli IDE e Prodotto Interno Lordo ha
raggiunto la soglia dell’11% (contro il 5% del 1980).
Un chiarimento è necessario. Analizzando attentamente le tabelle notiamo che i
flussi nelle due direzioni (in entrata e in uscita) non coincidono, derogando alle
regole contabili del pareggio; ciò dipende dalle disomogeneità definitorie e di calcolo
di cui soffrono le statistiche internazionali sugli IDE.
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Tutti i dati sono tratti da: S. MARIOTTI, R. COMINOTTI, M. MUTINELLI,“ Italia Multinazionale
1998 ”, in Documenti CNEL n.17, Roma 1999. Il data base reprint, sviluppato presso il dipartimento
di Economia e Produzione del Politecnico di Milano nell’ambito delle ricerche promosse dal CNEL,
censisce tutti gli IDE industriali in entrata e in uscita dall’Italia ed è aggiornato con cadenza biennale.
TABELLA 1 e 2