più elevate concentrazioni di nitrato, la forma di azoto generalmente prevalente nei
corpi d’acqua dolce, si registrano di solito in aree di pianura, dove è frequente la
vicinanza di zone urbane ed industriali, di terreni agricoli e di allevamenti intensivi
di bestiame, considerati per questo la causa principale di inquinamento delle acque
(e.g. Rekolainen, 1989; Jordan et al., 1997; Wade et al., 2005).
Nei sistemi terrestri la maggior parte delle sostanze inquinanti sono legate alla
matrice solida del terreno o al più disciolte nell’acqua interstiziale. Per questo motivo
i tempi di trasporto di dette sostanze sono decisamente elevati ed un’eventuale
situazione di alterazione resta per lo più limitata alla zona interessata dall’evento
contaminante. Nei sistemi acquatici invece, e nei corsi d’acqua in particolare per
questo studio, gli inquinanti scaricati si trovano in forma disciolta o sospesa e sono
quindi molto mobili. Questo, se da un lato permette un veloce ripristino delle
condizioni precedenti all’evento inquinante, dall’altro causa il trasferimento del
problema a valle, dove alcuni ecosistemi particolarmente sensibili possono risentirne
negativamente. Un eventuale apporto eccessivo di nutrienti dall’esterno può, infatti,
provocare una situazione di stress ambientale che coinvolge non solo la zona
interessata dallo sversamento, ma anche i grandi fiumi (Meade, 1995), i laghi
(Vollenweider et al., 1974) e le zone di foce, con effetti spesso visibili pure in
ambiente marino (Rosenberg et al., 1990; Vollenweider et al., 1992). Le conseguenze
principali, ed evidentemente negative di ciò, sono il degrado della qualità dell’acqua
dei fiumi e la cosiddetta eutrofizzazione delle zone marino-costiere (Billen et al.,
1991; EEA, 1995; Garnier et al., 2002), di cui la Laguna di Venezia ne rappresenta
un esempio (Figura 1.1).
Le lagune sono ambienti di transizione tra ecosistemi terrestri e marini, da
entrambi fortemente influenzate e per questo anche particolarmente delicate.
L’equilibrio biologico rischia di rompersi se l'uomo modifica le caratteristiche fisiche
del luogo (diversione di fiumi che ivi sfociano, costruzione di moli, chiusura di
eventuali sbocchi sul mare) e soprattutto se vi immette i prodotti, diretti o indiretti,
delle sue attività (nutrienti nel caso di questo lavoro).
6
Figura 1.1: La Laguna di Venezia vista dal satellite Landsat 1.
Il termine “eutrofia”, dal greco eutrophia (eu = buon, trophòs = nutrimento),
indica lo stato trofico caratterizzato dall’abnorme proliferazione o “bloom” di
biomassa vegetale (soprattutto microalghe) in laghi, aree di foce e zone costiere. Con
l’espressione “eutrofizzazione” in origine s’intendeva, in accordo con la sua
etimologia, il complesso dei processi di fertilizzazione delle acque naturali che
portano all’eutrofia; oggi viene invece correntemente usato per indicare le fasi
successive del processo biologico conseguente a tale arricchimento, ossia come
sinonimo di eutrofia. Le conseguenze di questo fenomeno sono molteplici e spesso
deleterie per l’ambiente:
• Man mano che la comunità algale si sviluppa, la trasparenza dell’acqua si
riduce e con essa anche la zona fotica. Se si raggiunge lo stato ipertrofico
l’effetto di copertura delle alghe è talmente imponente che le piante
acquatiche non riescono più ad assimilare efficacemente l’alta quantità di
nutrienti presente, provocando una progressiva riduzione nella biodiversità
7
dell’ecosistema acquatico, che in condizioni estreme si può modificare
sensibilmente (Schönborn, 2003).
• La notevole quantità di sostanza organica biodegradabile (piante, alghe)
genera una richiesta, alla loro morte, di ossigeno per l’attività batterica di
decomposizione, attività che in casi particolarmente severi può portare
all’esaurimento dell’ossigeno disciolto, produzione di tossine, moria di pesci
e al collasso dell’intero ecosistema (OECD, 1982).
• Le attività che dipendono dagli ecosistemi acquatici, quali pesca e turismo,
possono subire gravi danni economici derivanti dalla non fruibilità
dell’ambiente acquatico stesso.
• Si pensa che possa influenzare il fenomeno delle mucillagini, presente da
svariati anni nel Mar Adriatico, agendo sul rapporto azoto/fosforo
(Manganelli e Funari, 2003).
Finora ci si è soffermati solamente sugli aspetti concernenti il trasporto dei
nutrienti, i quali sono tuttavia soggetti, lungo tutto il loro percorso, anche a numerosi
processi di ritenzione (retention) che tendono a ridurne la concentrazione in acqua e
che non possono essere ignorati qualora si consideri il bilancio totale di un nutriente
(Billen et al., 1991; Behrendt, 1996). Questi processi sono controllati da fattori fisici,
chimici e biologici ed avvengono lungo tutto il ciclo dell’acqua (Kronvang et al.,
2004):
Nel terreno
• Rimozione e immagazzinamento in zone tampone lungo terreni soggetti ad
erosione, in aree umide e zone golenali in occasione di eventi di piena.
Sotto la superficie terrestre
• Rimozione di azoto nelle acque sotterranee.
8
• Seppellimento, preceduto da eventuale adsorbimento, di fosforo negli strati
sotterranei di suolo.
Nelle acque superficiali
• Rimozione di azoto in torrenti, fiumi, laghi e bacini artificiali.
• Immagazzinamento di fosforo in torrenti, fiumi, laghi e bacini artificiali.
Numerosi studi hanno dimostrato come le aree umide, i bacini di riserva, le aree
golenali e le zone vegetate lungo i fiumi siano particolarmente efficienti nella
rimozione dei nutrienti, in quanto aree con caratteristiche spesso riducenti, ampie
superfici per la sedimentazione delle particelle, tempi di residenza elevati e che, nel
caso delle zone golenali, ricevono grandi quantità di nutrienti durante gli eventi di
piena (Dillaha et al., 1989; Jenssen et al., 1994). Ad esempio, in Billen e Garnier
(2000) la capacità di rimozione delle zone riparie presenti nel bacino della Senna,
stimata in 70-110 × 10
3
ton di azoto l’anno, è risultata molto maggiore di quella della
sola rete idrica, stimata in 24-32 × 10
3
ton l’anno. In Kronvang et al. (1999) è stata
invece valutata la capacità di rimozione di un bacino in Danimarca prima e dopo
degli interventi di ripristino ambientale quali la ricostituzione di zone umide: il
risultato è stato di un aumento della rimozione da 38.8 a 81.4 ton l’anno per l’azoto e
da 0.80 a 0.90 ton l’anno per il fosforo. È stato comunque osservato che
normalizzando le quantità di nutrienti rimosse sulla portata scaricata, essendo
quest’ultima una misura indiretta del tempo di residenza, tutti i corpi idrici mostrano
capacità di rimozione confrontabili (Saunders e Kalff, 2001).
Nel corso degli anni l’uomo ha cercato di sottrarre all’ambiente quanta più
superficie possibile da utilizzare per le attività agricole e, a tale scopo, sono state
realizzate numerose opere di bonifica e recupero di zone riparie, le aree umide sono
state distrutte o ridotte a semplici fossati e molti corsi d’acqua sono stati sostituiti da
canali artificiali. Tali azioni hanno sostanzialmente ridotto l’area disponibile per la
9
trasformazione degli inquinanti, con la conseguenza di una notevole diminuzione
della capacità autodepurativa dell’ambiente (Kronvang et al., 1999).
Nell’ottica di sviluppo di piani di tutela e per il raggiungimento di obiettivi di
qualità ambientale per i bacini idrici è quindi importante quantificare, accanto alle
pressioni e al loro impatto, anche la rimozione di nutrienti in modo da stabilire un
bilancio completo e tale da poter individuare le fonti di nutrienti più importanti. Una
quantificazione di questo tipo è evidentemente possibile solo se basata su un
consistente set di misure effettuate sull’area, misure che tuttavia richiedono molto
tempo e sono spesso assai costose. Per questo la ritenzione di nutrienti è solitamente
valutata mediante l’applicazione di modelli matematici, come discusso nel seguito.
1.2. Stato attuale degli studi e obiettivi della tesi
Il comportamento e le trasformazioni cui vanno incontro i nutrienti all’interno
del ciclo idrologico sono state già ampiamente studiate ed analizzate da diversi
decenni. Inizialmente l’attenzione degli studiosi era rivolta essenzialmente agli
ambienti lacustri, che per i loro alti tempi di residenza e i volumi in gioco erano e
restano tuttora particolarmente esposti al pericolo di eutrofia.
Il primo modello non puramente teorico, ma utilizzabile anche nella pratica e che
sarà alla base di tutti i futuri modelli concepiti per descrivere i processi di rimozione
e rilascio di nutrienti all’interno di un lago, è stato infatti pubblicato da Vollenweider
già alla fine degli anni ’60 (Vollenweider, 1969). Parte delle conoscenze acquisite
sugli ambienti lacustri sono state trasferite più o meno direttamente allo studio della
ritenzione di nutrienti nei sistemi fluviali, che per i problemi esposti nel paragrafo
precedente rappresenta oggi un argomento di particolare interesse sia dal punto di
vista ambientale, sia da quello strettamente modellistico.
In genere i primi studi si sono sempre occupati della rimozione di azoto in
piccole sezioni di fiume, non dando in tal modo informazioni circa le quantità
rimosse in tutta la complessa ed estesa rete di corsi d’acqua che costituiscono il
10
cosiddetto bacino scolante. Un approccio globale (e.g. Garnier et al., 1995a;
Behrendt, 1996; Smith et al., 1997; Alexander et al., 2000), ossia a scala di bacino, è
invece necessario qualora si voglia valutare l’effettiva capacità di autodepurazione e
comprendere come la quantità di nutriente scaricata alla foce dipenda da fattori quali
la dimensione del bacino, la dislocazione di fonti puntuali o diffuse e la
configurazione della rete fluviale.
I modelli sin qui proposti in letteratura mettono in relazione la quantità di
nutrienti scaricati con caratteristiche fisiche, idrologiche e climatiche del bacino e
variano da un approccio di tipo statistico (Grimvall and Stålnacke, 1996; Behrendt
and Opitz, 2000; De Wit, 2000) ad uno di tipo fisico-concettuale (Billen et al., 1995;
Arheimer e Brandt, 1998). I più significativi sono presentati qui di seguito.
In Seitzinger et al. (2002) è stata studiata la rimozione di azoto nei fiumi in
funzione dei seguenti fattori: ordine del fiume, portata scaricata, uso del suolo, carico
di azoto in uscita, tempo di residenza dell’acqua, rapporto tra profondità e tempo di
residenza (water displacement, che rappresenta l’altezza della colonna d’acqua che
annualmente viene allontanata dal corpo idrico ed è quindi una misura del tempo
utile all’azoto disciolto e particolato per reagire con i sedimenti). I risultati hanno
dimostrato come la relazione più forte (seppur in termini del solo coefficiente di
determinazione R
2
) sia quella tra azoto rimosso (
N
E
R ), normalizzato sul carico
residuo totale, e water displacement, secondo la seguente relazione:
N
E
D
R
T
β
α
⎛⎞
=⋅
⎜⎟
⎝⎠
(1.1)
dove D è la profondità espressa in metri e T è il tempo di percorrenza (time of travel)
in anni, calcolato mediante il rapporto tra lunghezza del fiume e velocità. Questo
modello deriva tuttavia da studi riguardanti laghi o brevi tratti di fiumi con
profondità e tempi di percorrenza relativamente uniformi, pertanto nel momento in
cui si voglia utilizzarlo per un bacino idrografico completo, l’equazione sopra
riportata dovrà essere applicata singolarmente ai vari tratti della rete idrica.
11
Il modello di Howarth et al. (1996), derivato a sua volta da quello di Kelly et al.
(1987), mette in relazione la rimozione di azoto (
N
E
R , normalizzata sul carico
residuo totale) col cosiddetto carico idraulico (HL, definito come il runoff annuale
diviso per la superficie d’acqua del bacino idrico, dimensionalmente uguale al water
displacement):
N
N
E
N
S
R
SHL
=
+
(1.2)
dove S
N
è un coefficiente di trasferimento medio di massa espresso in m/a.
Il passo successivo è stato fatto in Behrendt e Opitz (2000), dove è stata messa in
relazione la rimozione di azoto e fosforo ( , normalizzata sul carico sversato) col
rapporto tra carico residuo (E
,NP
L
R
N,P
) e carico sversato (L
N,P
) attraverso la seguente
equazione:
,
,
,
1
1
NP
NP
NP L
L
ER
=
+
(1.3)
Ossia:
,
,
,
1
NP
NP
L
NP
E
R
L
= − (1.4)
Considerare il rapporto tra carico residuo e sversato è un modo per eliminare
l’influenza dell’area del bacino qualora si confrontino bacini differenti, come
dimostrato in Behrendt (1996). Il termine di ritenzione, R
L
, può essere descritto dal
seguente modello statistico:
,NP
b
L
R ax= ⋅ (1.5)
dove x è la variabile che regola la ritenzione dei nutrienti, che può essere a seconda
dei casi il runoff specifico (ossia il runoff diviso per l’area del bacino), il carico
idraulico (Behrendt, 1996) o il tempo di residenza (Howarth et al., 1996). Va
sottolineato come il tempo di residenza sia probabilmente il migliore indicatore della
ritenzione a scala di bacino; purtroppo la stima di questo parametro per i sistemi
fluviali è tuttora un problema, di conseguenza si fa solitamente riferimento al runoff
12
specifico o al carico idraulico, come del resto fatto per il modello presentato in
questa tesi.
Si può notare come tra il termine R
E
e R
L
sussista la seguente relazione:
1
L
E
L
R
R
R
=
+
(1.6)
Confrontando quindi tra loro l’equazione (1.2) e la (1.6) si ha:
N
L
S
R
HL
= oppure
L
a
R
HL
= con a = S
N
(1.7)
che risulta identica alla (1.5) ponendo b = -1. I due modelli sono perciò direttamente
confrontabili, e i risultati ottenuti da Howarth et al. (1996) possono essere comparati
con quelli ottenuti tramite l’equazione (1.5), se si pone b = -1.
Il modello di Behrendt e Opitz (eq. 1.3) è tuttora alla base di molti studi sulla
rimozione dei nutrienti nelle reti fluviali (e.g. Billen e Garnier, 2000; de Wit, 2000;
Venohr et al., 2003), ed è spesso parte anche di modelli più complessi che mirano per
esempio a realizzare un bilancio di massa di nutrienti a scala di bacino
determinandone le fonti diffuse e appunto la ritenzione. Ne sono esempi il modello
MONERIS presentato in Behrendt et al. (2000), in seguito applicato anche al bacino
del fiume Po in Palmeri et al. (2005), e il modello SWAT elaborato da Grizzetti et al.
(2003), che tuttavia utilizza un approccio diverso e usa l’equazione (1.3)
semplicemente come elemento di confronto con i propri risultati. Un approccio
ancora diverso consiste nel modellare il carico inquinante derivante da fonti diffuse
senza includere esplicitamente un termine di rimozione. Un esempio in tal senso è il
modello MRF (Mass Response Function) presentato in Rinaldo e Marani (1987), che
permette di calcolare la quantità di soluto scaricato in risposta alle precipitazioni a
scala di bacino. Questo tipo di modello si basa sulla definizione di una mass response
function, una funzione definita come un flusso di massa (soluto) variabile nel tempo
e generato in risposta ad un evento piovoso di intensità e durata unitaria che si
considera uniformemente distribuita sul bacino. Basandosi sul concetto di unità
idrografica inoltre, il bacino risulta costituito da una sequenza di “sottobacini”
13
all’interno dei quali i due principali meccanismi di generazione del flusso
(immagazzinamento e propagazione) possono essere adeguatamente modellati.
Tentativi anche recenti di mettere in relazione la rimozione di nutrienti con altre
caratteristiche fisiche dei bacini hanno dato risultati non del tutto soddisfacenti. In
Vassiljev e Stålnacke (2003) la ritenzione è stata espressa come funzione della sola
area del bacino, rendendo poco affidabile questa parte del modello in particolare per
il fosforo.
Anche se la rimozione di nutrienti è stata oggetto in molti studi, una valutazione
generale su base stagionale è estremamente difficile ancorché interessante, dato che
molti processi sono stagionali. Per esempio, il fosforo viene accumulato nelle piante
e nei sedimenti soprattutto durante i mesi estivi, per poi subire una rimobilizzazione
in occasione di eventi di piena durante l’inverno, quando i sedimenti non sono
coperti da macrofite. Un tentativo in tal senso si trova in De Klein (subm.), citato in
Kronvang et al. (2004), dove i carichi mensili residui di quattro fiumi sono stati
confrontati con i corrispondenti scaricati. I carichi mensili sono stati derivati da
quelli annuali mediante la seguente formula:
12
i P
iD
t
Q L
ML
Q
=⋅+ (1.8)
dove: M
i
= carico residuo mensile (kg/ha)
i = indice del mese
Q
i
= portata media mensile (m
3
)
Q
t
= portata media annuale (m
3
)
L
D
= carico residuo annuale d’origine diffusa (kg/ha)
L
P
= carico residuo annuale d’origine puntuale (kg/ha).
In Van Gils e Constantinescu (2002), ideatori del modello DWQM (Danube
Water Qualità Model) e DDM (Danube Delta Model), i carichi medi su cinque anni,
ottenuti mediante applicazione del modello MONERIS, sono stati convertiti in valori
giornalieri sfruttando dati sulla portata istantanea e sulle variazioni stagionali.
Non mancano infine modelli dove le cinetiche dei diversi processi inerenti la
rimozione di nutrienti, come sedimentazione, rilascio di fosfato e ammonio, consumo
14
di ossigeno, nitrificazione, denitrificazione e adsorbimento, sono derivate
principalmente da dati sperimentali (RIVERSTRAHLER, Billen et al., 1994; Garnier
et al., 1995a).
In questo quadro la presente tesi si propone di raggiungere i seguenti obiettivi:
• Valutare la quantità di nutrienti rimossi per autodepurazione dalla rete idrica
superficiale di un bacino scolante nella Laguna di Venezia.
• Elaborare un modello matematico che, sulla base delle caratteristiche
idrologiche del bacino, possa stimare tale ritenzione.
• Modellare la variabilità stagionale del processo di ritenzione.
1.3. Normativa
Nel corso degli anni la tutela e la gestione delle acque sono state oggetto di
numerosi interventi legislativi che, pur regolandone i vari aspetti, hanno impedito il
formarsi di un quadro legislativo unitario. Oggi pertanto, considerando anche la
presenza dell’Italia all’interno della Comunità Europea, ci troviamo di fronte ad una
serie di disposizioni che dobbiamo inquadrare ed interpretare tenendo ben presenti i
rapporti gerarchici e le interazioni che necessariamente vengono a formarsi tra norme
nazionali, regionali e comunitarie. Vengono qui di seguito presentate le principali
norme di settore.
La normativa sulla tutela delle acque attualmente in vigore in Italia ha, come
riferimento principale, il D.Lgs. 11/05/1999 n. 152, “Disposizioni sulla tutela delle
acque dall'inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il
trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla
protezione delle acque dall'inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti
agricole”, a sua volta modificato dal D.Lgs. 18/08/2000 n. 258, recante “Disposizioni
correttive e integrative del D.Lgs. 11/05/1999 n. 152”. Il decreto riguarda la tutela
delle acque superficiali e sotterranee, il raggiungimento di determinati obiettivi di
qualità ambientale per i corpi idrici, compresi quelli a specifica destinazione d’uso,
15
nonché la disciplina degli scarichi. Quest’ultima era stata finora basata sulla
definizione di rigidi limiti di scarico in base alla L. n. 319/1976 (meglio nota come
“Legge Merli”), mentre ora il decreto considera il singolo scarico come parte di un
sistema più ampio, calibrando l’azione di prevenzione e di risanamento sulle
esigenze e sulle caratteristiche quali-quantitative del corpo idrico e imponendo valori
limite in relazione al corpo idrico recettore e ai summenzionati obiettivi di qualità.
Attraverso la Direttiva sui Nitrati recepita dalla suddetta legge inoltre, la
Commissione Europea ha stabilito i limiti di applicazione per i fertilizzanti,
responsabili dell’inquinamento diffuso provocato dai nitrati di origine agricola.
Il D.Lgs. 152/99 ha individuato nel Piano di Tutela delle Acque, piano stralcio
del Piano di Bacino (si veda avanti), il principale strumento per la gestione delle
risorse idriche. Il Piano rappresenta uno “strumento di pianificazione a scala di
bacino idrografico, redatto dalle Regioni, in cui deve essere definito l’insieme
complessivo delle misure quantitative e qualitative necessarie alla prevenzione e alla
riduzione dell’inquinamento, al miglioramento dello stato delle acque e al
mantenimento della capacità naturale di autodepurazione dei corpi idrici affinché
siano idonei a sostenere specie animali e vegetali diversificate” (Regione del Veneto,
2004). Il raggiungimento degli obiettivi di qualità, così come previsto dal D.Lgs.
152/99, non deve avere ripercussioni sulla qualità delle acque e deve consentire un
consumo sostenibile, garantendo altresì il rispetto delle priorità d’uso come dalla L.
n. 36/1994 (“Legge Galli”). Per fare ciò, sono state previste delle misure generali e
specifiche, andando quest’ultime a regolare in particolare aree sensibili, zone
vulnerabili da nitrati di origine agricola e/o da prodotti fitosanitari, aree di
salvaguardia e il riutilizzo delle acque reflue.
La L. 18/05/1989 n. 183, Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della
difesa del suolo, modificata con le leggi n. 253/1990, n. 493/1993, n.61/1994 e n.
584/1994, ha come obiettivi la difesa del suolo, il risanamento delle acque, la
fruizione e la gestione del patrimonio idrico.
16