2
dell’agricoltura di qualità e, grazie alle Olimpiadi, da oggi anche nel
turismo.
Negli ultimi anni del secolo si è delineata un’evoluzione della concorrenza:
non più fra imprese singole ma fra sistemi economici e territoriali. Proprio
questo fenomeno sta alla base del declino delle realtà con forte
concentrazione manifatturiera come quelli di Torino, Barcellona, Lione,
Glasgow e altri.La nuova forma di vantaggio competitivo 1è la capacità di
accesso, utilizzo e sviluppo della conoscenza.
Proprio questi fattori sono alla base del processo di globalizzazione
dell’economia e dei mercati.
Tale processo si traduce in un progressivo annullamento delle distanze e nel
conseguente avvicinamento delle aree geografiche di tutto il mondo. Le
nuove reti globali di comunicazione consentono di focalizzarsi sulle
migliori condizioni offerte da un territorio in un dato momento, riducendo
notevolmente i vincoli geografici.
11
Giuseppe Tomarchio, analizzando il caso dello sviluppo della città di Catania individua gli
elementi fondamentali per l’acquisizione di un vantaggio competitivo da parte di un territorio: “Le
determinanti del vantaggio competitivo di un territorio, o di un sistema – Paese, sono state così
individuate:
- i fattori di produzione (ricchezza – disponibilità del territorio dei diversi fattori produttivi:
manodopera qualificata, infrastrutture, risorse naturali, ecc.);
- la condizione della domanda (stimoli provenienti dal mercato locale);
- i settori industriali correlati e di supporto (presenza nel territorio di fornitori qualificati e
di settori correlati a sostegno delle iniziative produttive);
- la strategia, la struttura e la concorrenza tra le imprese (natura e caratteristiche del sistema
competitivo locale, attraverso cui viene sviluppata la capacità del territorio di generare
comportamenti efficienti)”.
Tratto da: Tomarchio G., “Il caso Catania”, in Bellini N., “Il marketing territoriale”, Franco
Angeli, 2000, pag. 91
3
I mutamenti nei servizi, nelle comunicazioni, nei trasporti, nei sistemi
informativi e la grande rivoluzione di internet facilitano la crescente
mobilità dei beni, dei servizi, delle persone, delle tecnologie e dei capitali
attraverso i confini territoriali consentendo così alle imprese di spostarsi
con grande velocità da un’area ad un’altra del mondo alla ricerca sia di costi
più bassi che di risorse più qualificate.2
Tale annullamento ha intensificato i processi competitivi tra i territori per
l’ottenimento delle migliori risorse e per attrarre all’interno del proprio
territorio insediamenti produttivi, imprese di servizi, visitatori d’affari,
turisti ecc.3
Come osserva Varaldo4, “il rafforzamento dell’area locale non si riduce al
localismo, ma si innesta nel processo di globalizzazione dei settori
produttivi e delle imprese, si apre al confronto internazionale”.
Il fenomeno competitivo non riguarda più solo le nazioni più avanzate, ma
si estende a tutto il pianeta.
Su questo punto Bianchi scrive: ”…si stanno consolidando a livello europeo
grandi reti di alleanze transnazionali. In molti di questi settori la dimensione
2
Tratto da: Pininfarina A., “L’Agenzia per gli Investimenti a Torino e in Piemonte”, in Bellini
N.,“Il marketing territoriale”, Franco Angeli, 2000, pag. 65 s.
3
Questa attività di attrazione comunque deve superare la “riluttanza naturale che ognuno prova
all’idea di abbandonare il Paese dov’è nato e le sue relazioni e affidare se stesso, con tutte le sue
abitudini consolidate, a un governo estraneo e a leggi nuove” , sentimento che risulta ancora in
qualche modo attuale anche nell’era della globalizzazione. Tratto da: Ricardo D., “Sui principi
dell’economia politica e della tassazione”, Milano, Isedi, 1976, pag. 95
4
Tratto da: Varaldo R., “Dal localismo al marketing territoriale”, in “Sinergie”, quaderno per la
pubblicazione degli atti del convegno “Il marketing per lo sviluppo locale”, Luiss Guido Carli
Roma, 5 marzo 1999
4
locale coincide almeno con quella nazionale, ed i pezzi locali sono parti
costitutive di reti molto più ampie.
Ragionare in termini strettamente localistici porterebbe a perdere
informazioni sui processi di sviluppo … i sistemi locali di lavoro si
debbono intendere parte di una dinamica competitiva globale, in cui le
imprese estendono sull’intero globo le loro reti di produzione e di
distribuzione. Per ottenere questo scopo (lo sviluppo delle aree) bisogna
certamente avvalersi di chiavi di lettura che pongano il territorio al centro
delle analisi, al fine di verificare come questo territorio possa attrarre
investimenti, favorire lo sviluppo dal basso, consolidare nuovi processi
industriali. Tutto questo non potrà avvenire se il territorio non sarà
arricchito di relazioni e di fiducia e se non si convergerà verso progetti
locali di crescita”5.
La concorrenza non riguarda solo più territori simili, ma si apre a tutti quei
territori con la stessa aspirazione ed in grado di soddisfare bisogni simili
espressi dai clienti.
È in questo scenario che Torino deve competere e rinnovarsi, trovando al
suo interno la volontà e le risorse per rendere possibile un processo di
ammodernamento della propria struttura socio-economica.
Questo processo si sviluppa attraverso l’adeguamento della dotazione
infrastrutturale agli standard delle città europee più avanzate, attraverso la
5
Tratto da: Bianchi P., “Localisti, ma nella rete globale”, in “Il Sole 24ore”, 12 maggio 1998,
pag.4
5
riqualificazione delle aree degradate e il miglioramento degli arredi urbani,
attraverso una presenza più forte e autorevole sullo scenario internazionale,
diffondendo e rafforzando una nuova immagine della città, che fino ad ora è
sempre rimasta nascosta agli occhi del grande pubblico. È un progetto che
darà i suoi frutti in un’ottica di medio/lungo periodo, ma che è necessario
avviare per recuperare il gap che separa Torino dalle altre capitali
economiche, turistiche e culturali d’Europa.
6
PARTE I
TORINO TRA PASSATO E PRESENTE
1. LA CITTÀ FORDISTA E IL SUO LENTO TRAMONTO
1.1 TORINO, LA CAPITALE DEL MIRACOLO ECONOMICO
Le incertezze che ancora oggi, seppur in maniera minore rispetto a qualche
anno fa, aleggiano sul futuro di Torino sono il frutto dell’alternarsi fra la
tentazione all’isolamento tipico della “riservatezza” torinese, e quella
dell’apertura con l’Italia e soprattutto con l’Europa conseguenza delle
opportunità di sviluppo che nel corso degli ultimi 50 anni si sono presentate
alla classe produttiva dirigente della città.
Proprio l’accumularsi di tali contraddizioni ha reso difficile il cammino
della città che, per più di vent’anni, è stata la capitale dell’industria e la
locomotiva del miracolo economico italiano del secondo dopoguerra.
Negli anni ‘50 la svolta per la città si realizza con l’adozione da parte della
Fiat dei principi tayloristi sulla produzione in serie, sulla scia delle grandi
7
industrie automobilistiche americane, di cui la Ford rappresentava il
modello esemplare.6
A partire dalla metà del decennio, l’Italia con un ritmo di crescita annuo del
5.9% è seconda solo alla Germania.
Mentre Torino diventa la capitale industriale del paese, le caratteristiche del
suo sistema produttivo tendono sempre più a coincidere con l’universo Fiat.
I dipendenti del gruppo passano da 72.000 nel 1951 a 182.000 nel 1971.7
Negli stabilimenti di Torino e provincia gli operai passano da 47.700 nel
1953 a 115.000 nel 1971. A questi vanno aggiunti 30.000 impiegati e
dirigenti, 7.500 dipendenti della Lancia, acquisita nel 1969.
6
Taylor nella sua opera "The Principles of Scientific Management", fornisce il modello teorico
della tipologia di divisione del lavoro che verrà adottata nelle più grandi industrie di produzione in
serie del mondo: "Nell'ordinario sistema organizzativo, il successo dipende quasi interamente
dall'avere a disposizione la capacità di iniziativa della mano d'opera, ed è davvero raro che ciò
effettivamente sia. Adottando il metodo scientifico, l'iniziativa di chi lavora - cioò lavoro intenso,
buon volere e ingegnosità - la si ottiene in modo assolutamente uniforme e in grado superiore di
quanto sia possibile con il sistema tradizionale; accanto a questo miglioramento delle prestazioni
della mano d'opera, i dirigenti si assumono nuovi compiti, oneri nuovi, e responsabilità mai
sognate nel passato. Chi ha mansioni direttive si assume, ad esempio, l'incarico di raccogliere tutte
le nozioni tradizionali possedute in precedenza, dalla mano d'opera, e di classificarle, ordinarle in
tabelle, e sintetizzarle in prescrizioni, leggi e formule, che riescono immensamente utili al
lavoratore nella sua vita quotidiana. Tutti questi nuovi incarichi possono quindi essere classificati
in 4 gruppi:
- chi dirige deve eseguire, per ogni operazione di qualsiasi lavoro manuale, uno studio
scientifico, che sostituisca il vecchio procedimento empirico
- deve selezionare la mano d'opera con metodi scientifici, e poi prepararla, istruirla e
perfezionarla, mentre nel passato ogni individuo sceglieva per proprio conto il lavoro e vi
si specializzava da sé come meglio poteva
- deve cordialmente collaborare con i dipendenti, in modo da garantire che tutto il lavoro
venga eseguito in osservanza ai principi stabiliti
- il lavoro e la relativa responsabilità sono ripartiti in misura quasi uguale fra la direzione e
la mano d'opera: chi ha mansioni direttive si assume quei compiti per i quali è più adatto
dei lavoratori, mentre in passato quasi tutto il lavoro e la maggior parte delle
responsabilità venivano fatti pesare sulla mano d'opera. Tratto da: Taylor F.W., "The
Principles of Scientific Management, 1911, pag. 173 - 174 traduzione italiana
7
Tratto da: Bagnasco A., “La città dopo Ford. Il caso di Torino”, Bollati Boringhieri, 1990 cap. II
8
La Fiat dava direttamente lavoro ad un terzo dell’intera manodopera
manifatturiera della provincia ed inoltre mobilitava parti considerevoli di
altri settori merceologici: l’industria della gomma, delle vernici, delle
materie plastiche nonché la produzione dei cuscinetti a sfera e delle
macchine utensili. Se a tutto questo si aggiunge ancora la miriade di piccole
imprese fornitrici e sub-fornitrici della produzione meccanica-motoristica,
alla fine degli anni ‘50 l’80% delle attività industriali torinesi ruota intorno
alla Fiat.
La classe politica locale condiziona così la propria azione legando le sorti
della città alla crescita della sua più importante azienda, che diventa
l’industria motrice8 della città, e non solo.
Preoccupati di inseguire la crescita produttiva e di favorire l’espansione
industriale, i gruppi politici dirigenti trascurarono l’inserimento di coloro
che arrivavano in città attirati dalle opportunità lavorative offerte dalla
grande industria. In questo modo intere aree rimasero e rimangono ancora
oggi segnate dal degrado e dall’emarginazione. Appaiono evidenti così i
segni di una crescita disordinata legati soprattutto alla necessità di costruire
8
Questa definizione è tratta dalla teoria del “polo industriale” elaborata da Perroux, secondo il
quale l’industria motrice è quella particolare industria capace di influenzare sia l’organizzazione
del luogo in cui sorge, sia quella del territorio circostante, fino a plasmare l’organizzazione della
regione, a determinarne l’estensione e l’evoluzione. L’industria è motrice quando risponde a tre
requisiti:
- possiede grandi dimensioni, non soltanto in termini di produzione, ma anche in rapporto
all’occupazione, poiché è quest’ultima a influenzare lo sviluppo regionale
- esercita notevole capacità di innovare tecnologie e processi produttivi, in modo da
rivestire una funzione di leadership nel settore di appartenenza
- intrattiene intense relazioni con attività che si pongono a monte e a valle del processo
produttivo”
Tratto da: Perroux F. Edizione italiana a cura di Cambieri M.J., Righini A., “L’Economia del XX
Secolo”, Milano, Etas Kompass, 1967, pag. 123 - 141
9
nuove abitazioni per accogliere gli immigrati: la costruzione di nuovi
quartieri autosufficienti isolati ai margini della città si trasformò subito e
continua tuttora ad essere un ulteriore fattore di ghettizzazione ed
emarginazione (proveniva dal sud l’82.6% degli abitanti delle Vallette e il
78% di quelli della Falchera).Tutta la città si muoveva sui tempi e con gli
orari delle sirene dei grandi stabilimenti, facendo aleggiare sull’intera città
il grigiore delle fabbriche e dei fumi delle ciminiere.
Il rapido sviluppo dell’industria manifatturiera rese ben presto insufficiente
la manodopera torinese, iniziò così il grande e tribolato fenomeno
dell’immigrazione, soprattutto dalle regioni del sud.
La popolazione della provincia di Torino passò da 1.433.000 nel 1951 a
1.588.000 nel 1956 e 1.824.000 nel 1961; quella del capoluogo da 719.000
a 846.000 e a 1.026.000.9
Con il miracolo economico la città completa la sua trasformazione in
capitale dell’automobile, con alcune caratteristiche della “company town”,
per il peso eccezionale assunto da un’unica impresa, ammiraglia del
capitalismo italiano, nella vi ta economica della città.
Già nel 1961 il grado di specializzazione dell’area torinese era superiore a
quello di tutte le altre grandi città industriali del paese. In quell’anno,
prossimo al culmine del miracolo economico, la provincia di Torino, che
contava l’8,23% del totale nazionale degli addetti all’industria, concentrava
9
Tratto da:Valerio Castronovo, Imprese ed economia in Piemonte dalla grande crisi ad oggi, Cassa
di Risparmio di Torino, 1977 cap. III
10
il 37,95% degli addetti alla costruzione di mezzi di trasporto, destinati a
salire al 44,25% nel 1971, il 25,31% dell’industria della gomma e il 13,38%
delle materie plastiche strettamente connesse alla produzione
automobilistica.10
La tendenza alla monocultura e la conseguente scarsa diversificazione
produttiva, soprattutto nell’area torinese, apparve a più di un osservatore,
già alla fine degli anni ‘50, un fattore di rischio per l’eccessiva esposizione
dell’economia locale alle eventuali crisi congiunturali del settore
automobilistico o ad un eventuale disimpegno della Fiat dalla città.
Torino divenne così la metropoli industriale che ospitava la maggiore
concentrazione di operai del paese, nonostante una diversificazione,
decisamente più lenta rispetto alle altre grandi realtà urbane, con la crescita
di funzioni amministrative,commerciali, finanziarie e dei servizi.
10
Tratto da: AA.VV., “Storia di Torino. Vol. 9, Gli anni della Repubblica”, Giulio Einaudi
Editore, 1999
11
LA STRUTTURA OCCUPAZIONALE NELLA CITTÀ DI TORINO
1951 OCCUPATI
Industrie manifatturiere 66.7%
Edilizia 5.2%
Commercio 15.4%
Trasporti e telecomunicazioni 6.7%
Credito e assicurazioni 2.2%
Servizi 2.2%
1971 occupati
Industrie manifatturiere 60.1%
Edilizia 4.2%
Commercio 19.0%
Trasporti e telecomunicazioni 7.6%
Credito e assicurazioni 3.5%
Servizi 4.4%
12
A metà degli anni 60 il poderoso sviluppo industriale della città sembrava il
preludio di un capitalismo maturo, che assicurava lavoro e benessere per
tutti. Lo stabilimento di Mirafiori non era più sufficiente e si iniziò a
pensare ad un nuovo stabilimento a Rivalta. Nel 1966 apre lo stabilimento
di Rivalta, fino ad allora una piccola borgata di 5.000 abitanti, richiamando
una nuova ondata di immigrazione, che nei due anni successivi riversò sulla
prima cintura di Torino 60.000 nuovi arrivi che causarono gravi problemi
di integrazione dovuti alla carenza di abitazioni, servizi e infrastrutture.
Nonostante questi profondi disagi sociali, a Torino gli indici di spesa per
l’abitazione e gli arredi domestici, l’abbigliamento, i trasporti, i beni e
servizi, l’igiene e la sanità non erano più molto distanti dagli standard
francesi e tedeschi.
I consumi pro capite risultavano più elevati rispetto alla media italiana di
18-19 punti percentuali, c’erano 14 negozi al minuto ogni 1.000 abitanti, si
contava un’automobile ogni 9-10 (la media regionale era di 13, quella
nazionale ancora più elevata) e quasi il 30% degli abitanti possedeva
l’alloggio in cui abitava.
Con l’inizio degli anni ‘70 però la situazione cambiò radicalmente:
l’economia iniziava a dare segni di una crisi che coinvolgeva tutti i settori
portanti dell’industria cittadina.
Il preludio a questo periodo di crisi è stato forse l’inizio dei conflitti e delle
vertenze sindacali nel 1969, che sommati all’assenteismo, alla conflittualità
13
nelle fabbriche e alla crisi petrolifera del 1973, portarono il sistema
produttivo torinese sull’orlo del baratro.11
Sebbene sia la crisi della Fiat a suscitare il maggiore scalpore, è l’intero
sistema produttivo torinese che inizia a scricchiolare pericolosamente: la
crisi della Pirelli ( 7.800 dipendenti in Piemonte, più della metà nello
stabilimento di Settimo), della Ceat ( 5.500 addetti negli stabilimenti di
Torino, Settimo, Giaveno), dell’Olivetti (riduzione del 20% dell’organico),
del Gruppo Finanziario Tessile (ancora oggi in agonia).
A metà degli anni 70 un po’ tutti i settori accusarono una contrazione della
loro attività, ricorrendo sempre più alla cassa integrazione.
Le sorti della città però restavano sempre legate alla Fiat, il cuore
dell’industria torinese, che dava preoccupanti segni di stanchezza.
Fra il 1969 e il 1974 i costi di produzione erano cresciuti dal livello 100 a
219, a questo va aggiunto il peso di pesanti diseconomie legate
all’inefficienza dei servizi e all’eccessiva congestione dell’area
metropolitana torinese.
11
Queste sono le cause che hanno portato, in tutti i paesi industrializzati, alla crisi del sistema
produttivo di tipo fordista. Sergio Conti fornisce una esauriente spiegazione di questo fenomeno:
“Nelle condizioni della produzione di massa un insieme di meccanismi di stabilizzazione
istituzionale assicurò la redditività di cospicui investimenti in capitale fisso inflessibile. Quello
schema entra irrimediabilmente in crisi di fronte alla crescente incertezza ambientale che si
manifesta in seguito a fenomeni molteplici, sia endogeni che esogeni al sistema. Essi riguardano,
anzitutto, la progressiva saturazione dei mercati per prodotti standardizzati e coincidono con
l’affermazione sulla scena economica mondiale di nuove economie industrializzate (soprattutto
asiatiche). A questi si accompagna un insieme di fattori contestuali, fra cui la crescente
conflittualità sociale che coinvolge le economie industrializzate negli anni 70, le incertezze
derivanti dalla fluttuazione monetaria, la crescita del debito globale e il conseguente aumento dei
tassi d’interesse, le due crisi petrolifere che investono nello stesso periodo i paesi dell’Occidente.
L’introduzione di nuove tecnologie flessibili, sia pure in modo diverso da paese a paese, è quindi
interpretabile come la risposta, da parte dei soggetti economici, alla recessione e alla crescente
14
Queste sono le cause che hanno portato all’inizio del processo di
delocalizzazione produttiva che colpirà drammaticamente il potenziale
produttivo dell’industria manifatturiera torinese. La Fiat nel 1969, per
eliminare le inefficienze del sistema torinese, decise di creare in alcune
regioni centro-meridionali nuovi nuclei produttivi (Bari, Cassino, Lecce,
Vasto, Sulmona, Termini Imerese per un totale di circa 30.000 posti di
lavoro).
Inoltre la domanda interna di automobili iniziava a contrarsi sensibilmente,
costringendo la Fiat a rivolgere le sue principali attenzioni e
conseguentemente la maggior parte degli investimenti verso l’estero.
Per evitare di esportare il prodotto finito dall’Italia, gravato sia da un
elevato costo del lavoro, sia dai pedaggi e dalle misure protezionistiche di
numerosi paesi, la Fiat decise di localizzare la produzione direttamente sul
mercato di sbocco del prodotto attraverso alcune unità ausiliarie o di
produzione su licenza in Russia, Spagna, Argentina, Jugoslavia, Polonia
ecc.
Tale processo di “mondializzazione” dell’azienda torinese è continuato
negli anni ‘80 e ‘90 e continua tuttora come dimostrano le iniziative in
Brasile, Turchia, Corea, Romania.
Al Natale a piedi del 1973 dovuto alla crisi petrolifera, seguì nell’inverno
successivo la cassa integrazione per 70.000 operai. Per uscire da questa
incertezza dei mercati, cui le rigidità delle vecchie logiche produttive non erano in grado di fare
fronte.” Tratto da: Conti S., “Geografia economica”, Utet, 1996, pag. 270 - 271
15
situazione di difficoltà, la Fiat nel 1975 cambia la sua fisionomia attuando
una radicale politica di diversificazione produttiva: dall’automobile ai
veicoli industriali, dal turismo ai trattori, dalle ferrovie agli escavatori,
dall’energia e l’aviazione all’acciaio, dall’ingegneria alle macchine utensili
e ai componenti.
Questo radicale cambiamento nella sfera produttiva viene anche
accompagnato da una totale ridefinizione della struttura societaria, con la
scomposizione dell’azienda in un insieme di imprese specializzate e
autonome, facenti capo ad una holding che ne deteneva la maggioranza
delle partecipazioni: nasce così il più grande gruppo industriale italiano.
Nel 1976 il settore auto rappresenta soltanto il 35% del fatturato totale del
gruppo, quello dei veicoli industriali in via di decentramento il 24%, seguito
dalla siderurgia con il 10% e dall’ingegneria civile con l’8%.
Nonostante tutti questi cambiamenti il Gruppo Fiat fra il 1973 e il 1978 ha
accumulato perdite per quasi 1.000 miliardi.
La crisi della Fiat e il decentramento di importanti produzioni finì per
colpire anche le piccole e medie imprese dell’area torinese, soprattutto nel
settore metalmeccanico e delle macchine utensili, legati indissolubilmente
alle sorti della Fiat.