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L'interesse di chi scrive è consistito nella volontà di ricercare le reali motivazioni alla
base di tale proposta e le ragioni del suo declinare evidenziando, ove possibile, le premesse
politico-culturali e le cause determinanti lo scadimento della forza propulsiva della strategia
avanzata da Berlinguer attraverso l'analisi dei comportamenti degli attori politici anno dopo
anno, rilevandone ferme convinzioni o repentini cambiamenti di opinione.
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CAPITOLO PRIMO
LE MOTIVAZIONI ALLA BASE DELLA PROPOSTA
BERLINGUERIANA
1.1 Il percepito pericolo del cosiddetto "ritorno al centrismo"
Il periodo compreso tra il 1968 ed il 1972 si sarebbe rivelato a posteriori gravido di
ripercussioni. La degenerazione della formula di centro-sinistra era giunta oramai nella fase
conclusiva, in un quadro politico-economico avversato da evidenti sintomi di disfunzionalità
ed oggetto di sempre più pressanti ed irriducibili richieste da parte di una non trascurabile
percentuale di popolazione. Questa, appena uscita da laceranti lotte di rivendicazione, aveva
concorso a determinare un incremento della pressione salariale al di fuori della norma
europea, non spiegabile semplicemente ricorrendo ai fattori normalmente invocati in tali casi
[Salvati, 1980]. In una simile situazione, potenzialmente atta a declinare pericolosamente, la
sostanziale inerzia della classe dirigente nel reperire soluzioni in grado di risolvere i nodi
cruciali della crisi determinava un parallelo stallo della classe imprenditoriale. Essa era
sempre stata, almeno in Italia, legata a filo doppio alla dirigenza politica - vuoi per semplice
consonanza, vuoi per veri e propri rapporti di clientela nei confronti di chi gestiva il potere -
ed impegnata in un continuo bargaining su decisioni e misure, concorrendo a provocare,
insieme alla stasi produttiva, un calo vertiginoso di posti di lavoro.
Inoltre, differentemente rispetto agli altri paesi industrializzati in crisi, era plausibile
ritenere l'Italia un Paese ove il politico influenzava in modo quasi totalizzante gli aspetti del
vivere sociale, connotazione che allora finiva per rappresentare un rischio di radicalizzazione
delle richieste avanzate alla classe dirigente, data la pesante influenza ideologica operante in
un Paese di frontiera - geografica e strategica - come il nostro. L'alto tasso di politicizzazione
esigeva da parte dei partiti un perenne adeguamento di strategia, unitamente ad un
adattamento delle strutture di consenso allo scopo di conservare quanto meno lo zoccolo
duro dell'elettorato [Fedele, 1979].
L'immobilismo del quadro politico era dovuto in gran parte alla sclerotizzazione dei
due principali attori politici. Su posizioni di rendita e potere cui non si voleva rinunciare e
che avevano finito per segnarne la caratterizzazione politica, la DC, e su una imponente
struttura, per ciò stessa inadatta a cogliere e seguire mutamenti di opinioni non tanto
dell'elettorato tradizionale, quanto di quello di recente acquisizione - il PCI - [Pasquino,
1978]. Tale sostanziale impaludamento ostava al varo da parte delle forze politiche di una
credibile riforma. Ciò spiegava come si guardasse ad ogni novità come ad un possibile
elemento di rottura di una realtà apparentemente inscalfibile ma scientemente auspicata come
tale - si veda per esempio il serrato dibattito circa il referendum sul divorzio come possibile
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nuovo canale di trasmissione della domanda politica [Pasquino, 1974]. Ma ridurre la crisi
italiana di tale periodo ad un cortocircuito del sistema politico potrebbe essere perlomeno
fuorviante, in quanto :"The italian crisis -or crises- of the 1970s cannot be analysed by
confining one's attention solely to civil society or the State, or to the economy, social
structure and social relations or the political system. The crisis is manifestated in each of
these and its roots are intertwined, overlapping disciplinary boundaries and confounding
single-factor explanations" [Lange, 1980, 3].
Con la fine dell'epoca del centro-sinistra avveniva all'interno della DC il medesimo
regolamento di conti che si verificò nel 1963: allora fu defilato Fanfani, ora la stessa sorte
toccava a Moro, quale artefice della politica di un decennio. Conseguenza di ciò era
un'esasperazione della matrice correntizia nella determinazione della politica democristiana.
Gli alleati erano ricercati non all'interno delle altre correnti bensì negli altri partiti. Le cause
erano da ricercarsi nella gestione personalistica da parte dei maggiorenti e nella permanenza
del sistema proporzionale. Esso facilitava, se non esigeva, un confronto vieppiù stringente
delle correnti con le pressioni insistenti dei partiti anti-sistema [Sartori, 1965], l'apporto di
consensi dei quali avrebbe potuto essere occasionalmente allettante [Lombardo, 1971].
Venivano al pettine i nodi lasciati a lungo irresoluti dell'interclassismo. Di fronte ad una
montante pletora di clientes, per lo più gravanti in modo pesantemente negativo sul tessuto
produttivo, il partito trovava sempre maggiori difficoltà nell'organizzare una piattaforma
politica tale da mediare tra interessi differenti, quando non contrastanti.
Il cambiamento era conseguente alla chiusura dell'era del centro-sinistra. L'essenza
stessa di tale formula prevedeva degli interventi correttivi delle distorsioni derivanti da un
sistema di sviluppo all'epoca funzionante, seppure disordinatamente. Con l'avvio delle lotte e
delle rivendicazioni da parte dei lavoratori diventava pressante la richiesta di mutamenti ben
più profondi di quelli annunciati precedentemente. I partiti di sinistra si sforzavano di
rendersi portatori di un nuovo modello di sviluppo in grado di rispondere, in termini di
produzione di beni sociali, alla tensione privatistica che sospingeva gli imprenditori.
L'obiettivo strategico diveniva il raggiungimento di riforme tali da permettere un
sensibile miglioramento del tenore di vita dei cittadini, una maggiore capacità di creazione di
posti di lavoro, la possibilità di garantire un minimo di accumulazione a salvaguardia del
risparmio privato [Gambetta-Ricolfi, 1978]. Ogni analisi sulla praticabilità di nuovi
schieramenti politici non poteva prescindere dalla capacità di aggregazione di un blocco
sociale attorno ad un modello produttivo. Una delle maggiori accuse rivolte alla coalizione di
centro-sinistra era di aver sacrificato, in nome della mediazione partitica, la compattezza del
blocco sociale che lo sorreggeva. Ma, per il timore di dover pagare elettoralmente lo scotto
dell'insoddisfazione delle richieste, si era preferito non accantonare il tradizionale metodo
con la conseguenza di ingolfare il sistema, a svantaggio di quella parte della popolazione già
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insoddisfatta dei pochi o nulli progressi in termini di ritorni da parte dello Stato rispetto a
sacrifici avvertiti come non più sopportabili per lungo tempo. Del resto, se difficile in tempi
di normalità, di fronte allo scoppiare della crisi diveniva altamente improbabile attendersi da
una forza politica contrastata da più parti, compresi gli ex alleati, un repentino mutamento di
strategia.
Come risposta all'ondata di malcontento, la DC rinserrava le fila attorno al principio
genetico, la <<centralità>>, rimodellata nel concetto di argine agli <<opposti estremismi>>.
L'atteggiamento, già fortemente critico nei confronti del PCI, risentiva inevitabilmente del
deterioramento dei rapporti con il PSI, premessa ad un'ipotesi di spostamento a destra
dell'asse politico i cui primi segnali si avvertivano con l'elezione di Leone al Quirinale nel
1971, consentita dall'appoggio determinante dei voti del MSI. Il secondo indizio consisteva
nella tornata di elezioni regionali, seppure parziale e riferita principalmente al centro-sud.
L'avanzata del partito di Almirante, un incremento piuttosto limitato se rapportato ai valori
riscontrati a livello nazionale [Galli, 1994], faceva paventare l'insorgere di una spirale
autoritaria nel Paese. Emergeva anche un malcelato desiderio di 'ordine' proveniente da più
di un settore, specie quello finanziario-industriale. Per parte sua il PCI era in un periodo non
migliore. Contestato da sinistra per via di una politica vista come un insopportabile
cedimento rispetto ai valori rivoluzionari avvertiti dalla base ancora come fondanti, ne era
stato esempio paradigmatico la clamorosa scissione del gruppo de <<il Manifesto>> veniva
sancendo il cambio della guardia al vertice dei quadri con l'ascesa di Enrico Berlinguer, che
nella segreteria si circondava di una nuova generazione di dirigenti. ll mutamento era stato
attuato dalla DC :"[...] immettendo nelle sue pronuncie verbali toni più a destra, così come vi
aveva immesso toni più a sinistra durante la precedente pressione del 1967/69 delle iniziative
studentesche e sindacali." [Galli, 1994, 421]. Riscontro ulteriore si trovava nello
scioglimento anticipato delle Camere, il primo della storia repubblicana. La DC cercava di
rincorrere i voti del MSI, ed a ciò si ascriveva la già citata denuncia degli <<opposti
estremismi>>, tale da continuare a garantirle l'occupazione esclusiva del centro politico,
chiamando dunque l'elettorato a scegliere tra la riproposizione di un centro-sinistra
adeguatamente riveduto e corretto e la riesumazione del PLI quale alleato in un governo
ispirato a principi liberal-democratici. Da parte sua il PSI scontava ancora gli strascichi
dell'ennesimo fallimento di riunificazione con i socialdemocratici e tentava di recuperare
autonomia rispetto alla DC, senza contemporaneamente divenire succube del PCI.
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1.2 La proposta di una <<svolta democratica>> al XIII Congresso del PCI
L'avvenimento che scandì i commenti dei primi mesi del 1972 fu certamente il XIII
Congresso del Partito Comunista Italiano, tenutosi a Milano tra il 13 ed il 17 Marzo.
La DC inaugurava la strategia del cosiddetto 'neocentrismo' con il monocolore guidato
da Andreotti. In realtà si trattava di un esecutivo i cui compiti consistevano, oltre alla
gestione degli affari correnti in vista di un ricorso alle urne avvertito come inevitabile, nel
vagliare la praticabilità di tale nuova prospettiva in attesa di recuperare il rapporto con i
socialisti. Non solo. Fu proprio quel governo, con al Ministero del Tesoro il liberale
Malagodi, che inaugurò quella politica della spesa pensionistica facile, rapidamente dilatata
in spesa facile tout court, che avrebbe condotto all'attuale mostruoso indebitamento pubblico
italiano, in quanto :"La spesa pubblica in deficit è certamente un modo per dilatare l'area
improduttiva senza soffocare i profitti. E' anche un modo che può consentire, per qualche
tempo, di aumentare, insieme, salari, investimenti, spesa pubblica." [Gambetta-Ricolfi, 1978,
130]. L'importanza del Congresso comunista consistette principalmente nella sanzione
definitiva dell'ascesa di Berlinguer alla guida del partito. La novità politico-strategica era
rappresentata dalla richiesta di <<un governo di svolta democratica>>, in grado di garantire
al Paese una guida autorevole e sicura in un periodo dominato da incertezza e timore nei
confronti della tenuta delle istituzioni democratiche del Paese. Specie alla luce dei continui
attentati, partendo dalla strage di Piazza Fontana per giungere morte, concomitante all'assise
comunista, dell'editore GianGiacomo Feltrinelli. Egli era ritenuto simpatizzante, se non
fiancheggiatore, di sedicenti gruppi armati di estrema sinistra i cui modelli, più che
nell'ortodossia comunista, risiedevano nella eco di azioni rivoluzionarie provenienti
dall'America Latina.
Il tema dominante non era di recente acquisizione. La questione della partecipazione
del PCI a responsabilità di governo risaliva al periodo della Resistenza, cui non a caso si
richiamava Berlinguer per accreditare la similitudine avanzata, pur nella diversità dei
contesti, tra l'emergenza di allora e quella del periodo allora in corso. Il percorso di
elaborazione politico-strategica affondava quindi le proprie radici nell'elaborazione
togliattiana, dalla <<svolta di Salerno>> passando poi per la <<via italiana al socialismo>>.
Pur conoscendo il rigido rispetto gerarchico nell'enunciazione della linea politica del partito,
non doveva quindi stupire che già prima dell'apertura del Congresso fossero state fatte
veicolare le parole d'ordine: <<svolta democratica>> e <<cancellazione della pregiudiziale
anticomunista>> [Galetti, 1972]. La seconda doveva fungere da irrinunciabile premessa per
il conseguimento dell'obiettivo strategico. Il PCI prescindeva dall'atteggiamento
democristiano, evidentemente ritenuto, se non contingente, quanto meno di dubbie
possibilità di successo. Invece i comunisti insistevano sulla necessità di una franca
collaborazione tra le tre maggioritarie realtà politico-sociali del Paese: quella cattolica, quella
comunista e quella socialista.
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Si intravvedevano quindi le prime peculiarità di quello che avrebbe costituito il nucleo
fondamentale del <<compromesso storico>>, la necessità di un periodo di collaborazione per
superare lo stallo politico che aggravava la già pesante situazione economica del Paese, e
l'accettazione dell'esistenza di un'anima 'popolare' anche nell'elettorato della DC. Da ciò
l'abbandono dell'obiettivo di provocare una spaccatura all'interno della base democristiana,
recuperandone l'anima di sinistra, a favore dell'apertura di un confronto con l'intero partito.
Diveniva conseguente la dismissione dell'alternativa di sinistra, sia per evidenti motivi
di inopportunità tattica - il PSI era colpito da una palese emorragia di consensi - sia perché
tale mossa avrebbe spinto definitivamente la DC nell'esperimento neocentrista. Quindi, pur
insistendo nell'accusare la DC di colpe passate e di avventurismo presente, il PCI portava
avanti un'analisi della situazione italiana, sia sotto l'aspetto economico-sociale che sotto
quello politico, finalizzata a denunciare pericoli di involuzione della Democrazia Cristiana -
e di conseguenza dell'intero quadro politico -, sottoforma di un rigurgito confessionale, in
spregio alla stagione del rinnovamento giovanneo, facendo apparire come irrinunciabile la
soluzione avanzata.
L'incombere delle elezioni anticipate influenzò non poco il Congresso comunista.
Nella relazione introduttiva Berlinguer, partendo da un'analisi della situazione internazionale
come si era evoluta negli ultimi tre anni, ed accanto all'immancabile dimostrazione di
efficienza del partito, puntava sulla preoccupazione per la svolta a destra della DC. Essa era
interpretata come un tentativo di arrestare l'avanzata delle rivendicazioni e dei successi
conseguiti dalla classe operaia a partire dalle lotte cominciate nel 1968. Il segretario
comunista attribuiva la crisi dell'Italia ad una più generale difficoltà del modello di
produzione capitalista, riscontrabile in tutti i Paesi ad economia prevalentemente industriale.
Questa aveva i suoi moventi negli atteggiamenti della DC sulle questioni più spinose.
La critica era indirizzata alla tattica attendista, quando non dilatoria, che determinava
l'affastellamento dei problemi. Ad esempio, sulla questione del divorzio, Berlinguer
dipingeva il PCI come la forza che aveva con più decisione e convinzione ricercato la strada
della soluzione negoziata in Parlamento, nello sforzo di accreditare un'immagine di estrema
correttezza istituzionale. Seguiva un invito a rinserrare le fila in previsione della
consultazione elettorale, unitamente ad una elaborazione strategica definita figlia della
situazione italiana. Da ciò derivava la consapevolezza del rischio di una reazione - anche al
di fuori del terreno democratico - del sistema di potere costituito dalla DC in caso di ascesa
al potere di uno schieramento di sinistra :"[...].Perciò, più che mai decisivo diveniva a questo
punto il problema delle alleanze sociali; decisivo il tema della politica e del rapporto di forze
sul terreno politico come momento culminante di tutto lo scontro di classe." [Berlinguer,
1972, 19]. La politica delineata dal nuovo segretario del PCI veniva dunque iscritta nella
tradizionale prassi politica comunista, tesa al perseguimento di un avanzamento della
democrazia italiana verso la meta del socialismo, obiettivo da raggiungere tramite la previa
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costituzione di un ampio schieramento di forze sociali, con in testa la classe operaia,
denunciando in questo la persistenza della teoria della 'egemonia del proletariato'.
Del resto traspariva in maniera evidente nel partito il timore per una possibile
involuzione del quadro politico, non disconoscendo la predominanza su di esso esercitata
dalla DC ma anzi avendola ripetutamente chiamata a testimoniare un sincero spirito
democratico ed un reale attaccamento alle istituzioni in un momento tanto difficile, nel quale
si vedeva la DC tesa al recupero di voti in libera uscita a destra. Il PCI rivendicava i meriti
principali nell'esaurimento del centro-sinistra. L'obiettivo era di inglobare tutto l'ampio
spettro di malcontento sociale ed incanalarlo in un possibile sostegno elettorale,
scongiurandone la degenerazione in movimenti di contestazione radicale, sicuramente nocivi
in termini di consenso nei confronti del partito. Rispetto alle intenzioni dell'allora segretario
il PCI si avviava a concludere la missione storica svolta dai partiti nel XX secolo, ovvero
l'integrazione delle masse nel sistema sociale e politico. Per quanto concerneva lo scenario
internazionale Berlinguer, sulla scorta del processo di distensione allora in atto, attenuava i
toni augurandosi una maggiore indipendenza di iniziativa per l'Europa, senza per questo
auspicare l'uscita dell'Italia dallo scenario in cui era collocata, ma anzi ponendo le basi per
quello che sarebbe stato uno dei lasciapassare più efficaci nei confronti dell'Occidente lungo
tutti gli anni Settanta: il reciproco sostegno tra tutti i partiti comunisti europei, poi
ribattezzato <<eurocomunismo>>, in un'ottica prevalentemente continentale.
Di fronte alla critica disfattista rivoltagli dai movimenti spontaneisti sorti negli ultimi
anni, il PCI si poneva in un'ottica di comprensione ma non di giustificazione aprioristica,
apprezzando la presa di coscienza da parte di una non trascurabile quota della popolazione
dell'importanza dell'instaurazione di rapporti di solidarietà anche tra gente di diversa
estrazione sociale.
Giungendo alla questione di un possibile ingresso al governo Berlinguer delineava due
scenari espliciti come i soli in grado di determinare la partecipazione comunista al governo
oppure il sostegno parlamentare :"[...] o la necessità di fronteggiare un attacco reazionario
che crei una situazione di emergenza per le sorti della democrazia; oppure l'esistenza di
condizioni che consentano di attuare un programma rinnovatore che abbia l'appoggio
consapevole e attivo delle grandi masse e che tenda a rinsaldare l'unità dei lavoratori e delle
loro rappresentanze politiche e ideali." [Berlinguer, 1972, 54]. Palese e ripetuto era il
richiamo alla oggettiva e peculiare situazione italiana. II segretario comunista affermava di
non voler imporre un programma figlio di un marxismo del tutto avulso dalla realtà. Tale
intento era evidenziato dall'affermazione che ai fini dell'incontro delle tre forze italiane :"[...]
l'unità delle sinistre è condizione necessaria ma non sufficiente." [Ibidem, 54]. Uno dei
motivi alla base della proposta di confronto con tutta la DC consisteva nella sostanziale
sfiducia riposta nella sua ala sinistra, ritenuta incapace di operare dall'interno quel
mutamento di indirizzi capace di favorire l'abbandono delle politica seguita finora. Da ciò la
speranza che, unitamente ad un ridimensionamento elettorale il PCI sarebbe stato in grado di
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far lievitare all'interno della DC quelle contraddizioni fino ad allora latenti. Lo scopo era il
definitivo cambiamento nel modo di far politica. Si sarebbe così riusciti nel doppio intento di
incidere sul quadro politico senza correre il rischio di ritrovarsi occlusi nel ghetto frontista,
massimo impedimento all'acquisizione alla sinistra del consenso dei ceti medi produttivi. In
conclusione alla propria relazione Berlinguer faceva un accenno a quello che sarebbe stata
una delle discriminanti più frequentemente opposta al partito, ovvero la conciliazione del
dibattito interno con l'esercizio del centralismo democratico. Nel tentativo di fugare ogni
dubbio circa il rischio di una trasposizione all'intero Paese di tale metodo nell'eventualità di
un'ascesa comunista a responsabilità di direzione nazionale, il segretario affermava la
conciliabilità tra democrazia e centralismo, citando ad esempio le amministrazioni in cui
erano presenti esponenti comunisti.
Il dibattito congressuale era come sempre totalmente incentrato sulla relazione
introduttiva, discussa ma senza che si fosse palesato un qualsivoglia scostamento dalla linea
del segretario, fatta forse eccezione per la posizione di Ingrao, comunque minoritaria se non
solitaria, di interpretazione della svolta democratica in funzione della creazione di
un'alternativa di sinistra alla Democrazia Cristiana [Ingrao, 1972].
Nelle conclusioni, oltre a ribadire la propria linea Berlinguer confutava le opinioni
contrarie nel frattempo espresse dagli altri esponenti politici, insieme ad una pervicace
rassicurazione riguardo la lealtà del PCI allo schieramento internazionale cui apparteneva
l'Italia e risposte nette circa la reale autonomia di giudizio ed azione del PCI rispetto ai suoi
referenti politici [Berlinguer, 1972 b].
Importante era anche l'interpretazione del programma politico. Non variante ultima di
una ossessione per il governo che avrebbe spinto il partito a scandagliare tutte le possibili
vie, ma sincera disponibilità ad una assunzione di responsabilità nell'interesse del Paese, per
far fronte alla pericolosa degenerazione del quadro politico e dell'ordine pubblico [Ibidem].
Ciò senza comunque dimenticare di tenere sotto controllo qualsiasi dimostrazione di
eccessivo, quindi non controllabile, attivismo da parte dei militanti posti di fronte ad un
aperto invito alla mobilitazione [Lange, 1980 b].
Tutte queste posizioni trovavano la loro naturale sintesi nella risoluzione politica, la
quale riproponeva pedissequamente i temi proposti dal segretario, assieme al consueto
dettagliato programma elettorale in vista del voto del 7 Maggio [PCI, 1972].
Le reazioni al Congresso comunista ed alle proposte da esso scaturite rispecchiavano
una cauta attenzione da parte dei socialisti. Essi puntavano l'attenzione sulle pregiudiziali
internazionali, non ancora oggetto di sufficiente revisione critica per un'ipotesi collaborativa
[Arfé, 1972]. Il PSI era inoltre impegnato in un'opera di difesa del centro-sinistra, allo scopo
di scongiurare il pericolo dell'ingresso del PCI nell'area governativa. Tale eventualità lo
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avrebbe relegato ad un ruolo marginale. In virtù di tali prospettive il PSI non voleva
precludersi alcuna possibilità. Né quella di un ritorno al centro-sinistra con la DC, né lo
svolgimento di una mediazione tra la stessa DC ed il PCI, senza un immediato
coinvolgimento di quest'ultimo nel governo, stante la constatazione che :"[...] una parte del
Paese non è affatto pronta per una simile ipotesi e forse reagirebbe elettoralmente con una
svolta politica in senso opposto." [Babbini, 1972, 19]. Era ritenuta meglio praticabile quindi
la strada di :"[...] un governo che, fuori da ogni ipotesi di chiusa delimitazione, sia aperto al
dialogo e ai contributi della opposizione di sinistra in Parlamento" [Ibidem, 19], pur nella
consapevolezza dell'inadeguatezza di una linea politica esclusivamente fondata sulla
possibilità di occasionali convergenze assembleari rispetto alla ricerca di un vasto consenso
sociale attorno ad un serio e rigoroso programma di riforme.
Riguardo invece la DC i toni delle risposte non si discostavano di molto dalla
polemica politica fino ad allora portata avanti: difesa del proprio operato e recupero di toni
fortemente anticomunisti, anche per tutelare l'esperimento neocentrista in atto. Motivo
ricorrente era divenuta la denuncia di un :"[...] congresso ideologicamente neutro che
favorisce oggettivamente la via empirica, cioè senza garanzie, al revisionismo." [Graziani,
1972, 11], anticipando come strumentale al raggiungimento del potere qualsivoglia
pronuncia del PCI su tutti i temi scottanti a proposito dei quali gli venisse richiesta
pronuncia, fosse essa circa la lealtà alla Unione Sovietica o il ripudio della tesi dell'egemonia
del proletariato. Contestuale a tale atteggiamento era anche un parallelo rigurgito
antifascista, teso a rassicurare circa la reale portata del governo Andreotti e del neocentrismo
in generale, presentato invece come imprescindibile argine alla degenerazione autoritaria
della democrazia italiana tanto a destra quanto a sinistra [Ciccardini, 1972].
In replica alla richiesta di verifica dell'esistenza di eventuali convergenze su temi
importanti come premessa alla soluzione del problema del governo [Napolitano, 1972]
veniva attribuita al PCI una mai sopita aspirazione all'egemonia di un rinnovato
schieramento frontista comprendente il PSI, ritenendo tale atteggiamento sintomatico di una
sostanziale incapacità di rinnovamento in termini di proposta politica [Graziani, 1972 b]. A
tale scopo erano dovute le critiche rivolte ai socialisti per la loro sottolineatura delle
professioni democratiche nelle dichiarazioni dei comunisti.
Contemporaneamente all'avvicinarsi del Congresso comunista aumentava in
proporzione l'irrigidimento della DC nei confronti di una proposta unitaria del PCI che, se
non certa, poteva comunque essere prevedibile. Essa non veniva presa in considerazione
come plausibile sbocco del dibattito congressuale, ritenendo nelle corde del partito
unicamente una riproposizione del frontismo, possibilmente egemonizzato, assumendo i toni
allarmistici circa la presunta sterzata a destra della DC come mera propaganda elettorale tesa
a fomentare timori infondati. La definizione coniata per la proposta di una svolta
democratica unitaria che passasse per un ridimensionamento a sinistra della DC era
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<<Allendismo di opposizione>>, nell'attesa che divenisse <<Allendismo di maggioranza>>
[Graziani, 1972 c], in riferimento al governo di Unidad Popular, allora al potere in Cile pur
non essendo risultato maggioritario nelle votazioni. Il vero fulcro della polemica politica
consisteva nel persistere di imprescindibili steccati politico-ideologici che, secondo i
democristiani, Berlinguer o voleva ignorare o pretendeva di non assumere come
discriminanti nel concepire una coalizione di governo.
Sul Congresso e sulle proposte da esso scaturite il giudizio non poteva differire di
molto da quello anticipato nelle settimane che lo avevano preceduto, stante il quasi
contestuale scioglimento delle Camere sancito dal Presidente Leone. Esso era successivo al
mancato conseguimento della fiducia da parte del governo Andreotti, prima filiazione del
tentativo di centro-destra, e rendeva plausibile l'ipotesi del ricorso alle urne come test
elettorale sulla praticabilità del neocentrismo. La DC sottolineava la contraddizione in
termini tra la proposizione di una formula di collaborazione tra cattolici, comunisti e
socialisti, l'auspicio di un ridimensionamento elettorale della DC, e la formula di 'unità delle
sinistre', sintomo di speranza di riedizione frontista, senza poi enumerare dichiarazioni, quali
la rassicurazione circa la salvaguardia del risparmio e dell'iniziativa privati, in insanabile
contrasto con il retroterra culturale del PCI. Tutto ciò faceva evidentemente paventare la
strumentalità della proposta, in contrapposizione al ruolo da sempre rassicurante svolto dalla
DC nella società italiana [Pellegrini, 1972].
Nello stesso periodo si alzava il livello dello scontro politico. La DC si presentava
quale unica alternativa a sé stessa, pur dopo un accenno di autocritica, di fronte agli attacchi
concentrici e del PCI e del MSI, lasciando aperta la strada sia ad un recupero progressista,
con il PSI, sia al proseguimento della svolta moderata, con il PLI [Ciccardini, 1972 b]. Il
dibattito segnalava un'intensificarsi di dibattiti nelle riviste specializzate, fossero esse di parte
o di pretesa equidistanza. Il Congresso comunista faceva registrare non poche critiche circa
la contraddizione evidenziata dal rapporto di Berlinguer, opportunamente mascherata in virtù
dell'unanimismo proprio del centralismo democratico, nonostante alcuni accenni
interpretativi lievemente difformi dalla linea ufficiale, ma per ciò stesso minoritari, si veda il
caso di Ingrao.
Il programma di governo veniva visto come espressione di uno :"[...] spicciolo
riformismo, che è evidentemente il prezzo che Berlinguer è convinto di dover pagare per
essere accettato nella stanza dei bottoni" [M., 1972, 7]. Diretta conseguenza di ciò non
poteva che essere l'usuale accusa rivolta ai comunisti ogniqualvolta facessero professioni
democratiche, <<doppiezza> od <<opportunismo>>.
Circa la previsione di possibili scenari, dall'assunzione della definitiva caduta della
spinta riformatrice del centro-sinistra, passando per il contingente, o almeno da alcuni
ritenuto tale, 'neocentrismo', il punto principale di osservazione diveniva la possibilità del
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PCI di coagulare attorno a sé una schiera di consensi che trascendesse l'appartenenza di
classe per comprendere al suo interno anche rappresentanti dei ceti medi, senza i quali una
ascesa alla direzione del Paese non poteva che apparire velleitaria. Ma, proprio tenendo
conto di tale necessità, occorreva che :"[...] il programma di una sinistra all'opposizione, ma
con la possibilità di divenire una reale alternativa di governo, rimanga un programma che
non va al di là di una razionalizzazione del relativamente avanzato capitalismo italiano."
[Galli, 1972, 7].
Non si tralasciava comunque la possibilità dell'avvento della 'grande coalizione',
sebbene per non pochi commentatori rappresentasse più una iattura che una sostanziale
possibilità di rinnovamento del Paese. Uno dei punti chiave nella polemica politica era
rappresentato dalle possibili evoluzioni della DC in rapporto alle variabili in esame: accordo
con il PCI come premessa ad una spaccatura, o possibilità di una trasformazione del partito
in un movimento conservatore di stampo anglosassone, con inevitabile scolorimento del
tratto religioso. Addirittura, secondo alcuni, con l'indizione delle elezioni anticipate si
sanciva il definitivo tramonto del sogno della Grosse Koalition, richiamandosi così facendo
all'esperienza tedesca, durata dal 1966 al 1969, che vide la collaborazione governativa tra il
partito democristiano (CDU-CSU) e quello socialdemocratico (SPD) [Ungari, 1972]. Sul
contemporaneo problema dell'indizione del referendum sul divorzio c'era stato chi aveva
voluto vedere nello scioglimento anticipato delle Camere la realizzazione di una Grande
Coalizione imperfetta a livello parlamentare, stratagemma utile alla DC per rinviare il
problema di un pericoloso apparentamento con il MSI in occasione della consultazione
referendaria, ed al PCI per elaborare meglio una strategia con cui far fronte alla proposta
socialista degli "equilibri più avanzati", tendente a subordinare l'ingresso comunista del
governo ad un'azione mediatrice svolta dal PSI [Matteucci, 1972].