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che aveva la sede nell’ex convento parigino dei domenicani, detti in
francese Jacobins, aveva come obiettivo primario gli interessi del
popolo e i suoi ideali erano Patria, Libertà e Virtù, i quali erano
considerati elementi inscindibili: <<Là dove la virtù fiorirà
all’ombra delle leggi, dove regnerà l’uguaglianza fra gli uomini,
dove il nome di padrone sarà sconosciuto e l’uomo sarà quale natura
l’ha fatto, libero e giusto, là sarà la patria di un francese >>
1
.
In Italia le idee giacobine, già in parte circolanti per il contributo
delle logge massoniche, sembrano trovare terreno fertile e
preoccupano non poco i regnanti. E questi ultimi, nell’intento di
difendersi dalle sfide repubblicane, pensano alla costituzione di una
lega (di fatto mai nata) degli stati italiani, che possa costituire un
argine al pericolo giacobino e alla sempre più interessata attenzione
dell’Austria, già padrona del Lombardo-Veneto, alle vicende
politiche nazionali e internazionali.
Il Piemonte, anche per la vicinanza alla Francia, è subito pervaso
dalle idee rivoluzionarie. Il popolo scende nelle piazze e reclama le
libertà più elementari. Il re sabaudo Vittorio Amedeo III non solo
non riconosce la richiesta ma, per pronta risposta, inasprisce
l’intervento della censura e il controllo poliziesco. Quando, poi, nel
1792, allo scoppio della guerra che vede la Francia contrapporsi alle
potenze rappresentanti del vecchio regime, le armate rivoluzionarie
occupano Nizza e la Savoia, il sovrano sabaudo, filoaustriaco,
rifiuta l’offerta dall’alleanza proveniente dalla Francia e resta
1
A. MATHIEZ, La rivoluzione francese / Albert Mathiez, Georges Lafebvre, Torino, Piccola Biblioteca
Einaudi, 1968, p. 419.
6
schiacciato nella morsa degli eserciti francesi e austriaci, che gli
sottraggono prestigio, peso politico e territori.
Il Regno di Napoli, nelle persone del re Francesco IV di Borbone,
della regina Maria Carolina, sorella di Maria Antonietta, e del primo
ministro John Francis Acton, mal sopporta il vento giacobino e
sposa l’idea di una lega antirepubblicana. Questo atteggiamento
offre occasione alla Francia perché, il 16 dicembre1792, guidata
dall’ammiraglio Latouche-Tréville, spedisca, nel golfo di Napoli,
una flotta di 14 navi, col chiaro intento di intimorire il re Borbone e
dissuaderlo dal considerare positivamente l’alleanza
antirepubblicana. Nel 1794, in Sicilia, un gruppo progressista lavora
all’idea di progettare una repubblica ispirata ai principi di
uguaglianza. La scoperta del movimento rivoluzionario siciliano
porta ad una dura reazione e a una giustificazione del regime
repressivo.
Non diverso, ostile, atteggiamento ha lo Stato pontificio. Il papa Pio
VI, infatti, allarmato dal diffondersi delle idee rivoluzionarie,
colpevoli di sovvertire l’ordine costituito e nemiche della religione,
condanna i fermenti giacobini e, specie tra il popolino, avvia una
ferma propaganda antifrancese, che porta la folla a trucidare, nel
corso di un tumulto, il diplomatico d’oltralpe Ugo de Bassville.
Anche in Lombardia nascono fermenti rivoluzionari che tentano di
minare il governo austriaco e il conseguente stato di polizia vigente.
Ferdinando III, granduca di Toscana, invece, non aderisce alla
coalizione antirepubblicana e, quando è costretto a schierarsi,
stipula con la Francia un trattato che gli conferisce uno status di non
7
belligeranza. Il Granducato di Toscana, quindi, insieme alle
Repubbliche di Genova e Venezia, è l’unico Stato italiano a non
prendere posizioni antirepubblicane e antifrancesi.
Napoli è la città italiana dove le idee giacobine sembrano più
facilmente attecchire.
Non appena cominciarono a circolare, nella città partenopea, le
notizie dei primi sviluppi della Rivoluzione francese, venne
formandosi in taluni dei più caldi riformisti napoletani, inclini alla
calda passione politica, una mentalità non più riformistica, ma
rivoluzionaria. E rivoluzionaria in senso sempre più
antimonarchico, dopo che l’editto del 3 novembre 1789, ebbe
mostrato che persino la tanto acclamata Maria Carolina,
abbandonando ormai la Massoneria napoletana alle sanzioni della
legge, s’allontanava nettamente dal programma riformistico che le
era stato sin allora così caro.
2. Origini del giacobinismo napoletano
Disuniti, sparsi in ambienti molteplici e diversi, fra l’aristocrazia,
nel clero, fra la gioventù studiosa, metropolitana e provinciale,
nell’esercito, nella marina, nelle varie amministrazioni dello Stato,
costoro avrebbero probabilmente perdurato a mostrare il loro
malcontento nelle discussioni politiche e nelle mormorazioni contro
il governo, che erano allora tanto in uso nei salotti napoletani, e
avrebbero finito per adattarsi al nuovo indirizzo politico adottato
dalla corte. Sennonché essi trovarono nel riaccendersi dello spirito
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massonico, che si attuò attraverso l’istituzioni di nuove logge,
fondate con 1 ordinamento più semplice e decisamente più
rivoluzionario di quelle antiche, l’occasione di riunirsi in una
organizzazione, che sembrava dare ad uomini di provenienza e di
tendenze così differenti una unità d’indirizzi.
Il primo animatore di questa ripresa massonica fu l’abate Antonio
Jerocades, che già, per proprio conto, aveva organizzato, e
continuava a diffondere, un massonismo di tipo giacobino nelle
Calabrie, e che trovò a Napoli un adepto, fra i più fervidi, nell’abate
Teodoro Monticelli, membro dell’Accademia di Chimica del
Lauberg, la quale più tardi assumerà, anche se in segreto, aspetto
decisamente politico.
L’abate Jerocades ed il Monticelli fondarono a Capodimonte una
loggia massonica , la quale, però, di massonico aveva solo il nome,
in quanto per iniziativa degli elementi più accesi e sviluppando i
nuovi sistemi introdotti dallo Jerocades dopo i sui viaggi in Francia,
s’era già trasformata in giacobina. Soppresse quasi del tutto le
formalità massoniche, bastava che il neofita dimostrasse di
conoscere le massime democratiche, perché fosse accolto nella
società e gliene fosse comunicato il fine: distruggere la monarchia e
stabilire un governo popolare!
Va ricordato, però, che a tanto fervore d’intenti non seguirono, per
allora, fatti concreti, e nemmeno disegni rivoluzionari veri e propri,
infatti nelle varie riunioni, gli adepti si limitavano a discorrere dei
progressi della Rivoluzione in Francia, dei proseliti che in essa
compiva il partito giacobino, si leggeva il Moniteur e la Gazzetta di
9
Leyda, mentre, per quanto riguardava il governo napoletano , si
discuteva dei sui abusi e della necessità di una vasta riforma
generale, quindi inizialmente perdurava ancora un forte ideale
riformistico e la possibilità di una rivoluzione non era presa in
considerazione.
Quando bisognò lasciare Capodimonte, i componenti della loggia,
decisero di non adoperare più il nome “massone”, bensì gli altri più
significativi, di “patriota” e “giacobino”, furono soppresse tutte le
cerimonie e le formalità massoniche e i capi sottolinearono la
necessità di non tener più logge massoniche, ma di iniziare ad
organizzare una società di gente spregiudicata interessata alla
rivoluzione per ottenere un governo democratico. Argomento
essenziale delle discussioni politiche di tali riunioni divennero le
modalità con le quali si sarebbe potuta fare, anche nel Regno, la
rivoluzione e anche se si continuava a discutere delle vicende
francesi, ora lo spirito col quale quegli avvenimenti venivano
affrontati, non era più generico o teorico, bensì apertamente
rivoluzionario. Si leggevano e discutevano le gazzette e gli estratti
della “Cronique”; si discorreva liberamente di religione; si
ammirava la rivoluzione francese; si criticava aspramente il
principio monarchico in generale e il governo di Napoli e delle
potenze coalizzate in particolare; si definiva la rivoluzione francese
uno “scuotimento di tirannia” e si auspicava che ciò avvenisse
anche nel napoletano.
Tali discussioni trovavano ascoltatori sempre più numerosi e più
compiacenti e che prepararono, anche nell’ambiente studentesco e
10
piccolo borghese, quella particolare psicologia, indispensabile
perché giovani ardenti e di scarso senno politico si lanciassero ad
occhi chiusi in un’avventura rivoluzionaria tanto pericolosa quanto
di incerta attuazione e di più incerta riuscita.
In tale ambiente si formò il club giacobino “Sans Compromision”,
guidato da Ignazio Ciaja, allora ufficiale di segreteria
dell’Ecclesiastico. Tale club mantenne, in parte, la liturgia
massonica, come i segni segreti per il riconoscimento dei membri, e
si pose come obiettivo quello di istruire la gente di materie politiche
e del buon governo sulla scia di quello fissato in Francia. Esso
assunse il nome Sans Compromision , in quanto si rifaceva
all’omonimo club dei giacobini di Marsiglia e su tale esempio si
svilupparono a Napoli numerosi clubs.
Ma la responsabilità di aver dato consistenza al giacobinismo
napoletano e di averlo portato alla rivoluzione o, almeno, alla sua
vigilia, spetta a due giovani, amici inseparabili, Carlo Lauberg e
Annibale Giordano, i quali, nel 1792, iniziarono ad alternare alla
loro notevole attività scientifica un interesse sempre più attento
verso gli avvenimenti politici, che, frequentatori assidui dei migliori
salotti napoletani, visto che il Giordano era il figlioccio di Luigi de
Medici, avevano tutto l’agio di seguire da vicino. Da scolari si
fecero maestri, da monarchici rivoluzionari, da rivoluzionari
repubblicani; ne costituiscono la prova i dibattiti, poi le discussioni
sempre più vive, infine la lotta aperta, che i due sostennero in casa
Medici.
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Fu allora che i due scienziati napoletani, pensarono di dare alla loro
attività politica, ancora limitata alla diffusione e alla critica delle
notizie fornite dalla Gazzetta di Leyda, un più vasto sviluppo
attraverso l’istituzione, nel maggio del 1792, dell’Accademia di
Chimica, che era destinata, secondo i loro progetti, a sviluppare nel
campo pratico la loro attività scientifica e insieme quella politica.
Ma, per allora, se pur, fondando l’Accademia, essi avevano
avvertito il bisogno di un’azione più vasta e decisamente più
autonoma dalla generalità dei riformisti napoletani, non
oltrepassarono la propaganda riformistica, né pensarono, almeno
apparentemente, di poter attuare nel Regno di Napoli, qualcosa del
più mitigato illuminismo propugnato dal Medici, e ciò fu
confermato, per così dire ufficialmente, con la nomina dello stesso
Medici a socio protettore dell’Accademia.
Ma più tardi i due amici, in seguito alla sempre più assidua
frequentazione con l’abate Jerocades, si convinsero, che era
necessario creare a Napoli, tramite una instancabile propaganda, una
mentalità politica, non soltanto tendente alla libertà, ma
spiccatamente rivoluzionaria; e che siffatta mentalità avrebbe
dovuto estendersi non solo a monaci, preti e alla gioventù studiosa,
metropolitana e provinciale, ma altresì a quegli aristocratici, che
avevano appoggiato la regina Maria Carolina nella sua politica
riformistica, e che, sconcertati dal repentino mutamento di indirizzo
della sovrana, manifestato attraverso l’editto antimassonico, si
andavano raggruppando attorno a colui che poteva essere definito il
rappresentante tipico dell’illuminismo napoletano, ovvero il
12
reggente della Gran Corte della Vicaria, don Luigi de Medici
d’Ottaiano.
Da allora, sicuri d’aver trovato la loro strada, si dedicarono con
estremo fervore allo sviluppo della nascente organizzazione
giacobina napoletana. Compresero immediatamente che al loro
scopo sarebbe stata utile l’Accademia di Chimica e stabilirono che
essa, all’apertura del nuovo anno scolastico , avrebbe dovuto
accogliere << tutti i giovani di talento, che volevano intervenirci, ad
oggetto di educarli nelle massime democratiche>>
2
.
Essi ebbero la costanza di partecipare a quasi tutte le conversazioni
a sfondo politico che si tenevano nella capitale; e finalmente, da
osservatori attenti e zelanti, si trasformarono in organizzatori
infaticabili; e su loro suggerimento fu possibile fondare il club
rivoluzionario del Ciaja. Da allora, i due giovani scienziati, pochi
mesi prima tollerati frequentatori dei salotti aristocratici napoletani,
furono alla testa dell’incipiente movimento giacobino napoletano.
Dal novembre del 1792, l’Accademia di Chimica, divenne quasi un
gran collegio, a cui interveniva la gioventù di talento e dove si
faceva aperta propaganda di massime democratiche, in modo da
poter scegliere fra gli ascoltatori, coloro che manifestassero
maggiore entusiasmo e per invitarli a partecipare alle adunanze dei
clubs sans compromission, che si tenevano, naturalmente, segrete.
L’Accademia poteva essere ritenuta, adesso, come “un noviziato di
giacobini”.
2
N. NICOLINI, Luigi de Medici e il giacobinismo napoletano, Firenze, Le Monnier, 1935, p. 211.
13
Elaborata, almeno in embrione, l’organizzazione rivoluzionaria,
portati gli animi a un grado di entusiasmo che appariva più che
notevole, mancava, per altro, ancora l’essenziale : un programma
d’azione, che trovasse consenzienti tutti gli adepti. Cosa non
semplice, se si pensa che i patrioti napoletani erano, in fondo, gli
scontenti del regime borbonico o, meglio, dell’improvviso
voltafaccia della regina Maria Carolina e dell’ Acton; e che, tutti
concordi nell’opposizione, potevano non esserlo, o non esserlo
altrettanto, nell’elaborazione di un programma rivoluzionario. E a
tale opera di unificazione degli animi erano intenti gli ispiratori del
movimento, quando, a galvanizzare la loro operosità, si sparse per
Napoli la voce del prossimo arrivo della divisione navale francese
comandata dall’ammiraglio Latouche-Tréville.
La notizia di tale arrivo provocò una grande inquietudine a corte
dove si temeva una imminente insurrezione popolare e proprio di
siffatto timore fu frutto un real dispaccio che istituiva una milizia
urbana ( una sorta di guardia nazionale della monarchia), destinata
alla “custodia dell’interno nella venuta de’ francesi”
3
. Il dispaccio
non apparse come prova di forza, bensì di debolezza; e in tal senso
lo intesero i giacobini che vennero acquistando una sicurezza
nuova; inoltre, gli armamenti marittimi, ordinati dal governo
napoletano, confermando esplicitamente la notizia dell’arrivo della
squadra francese, riscaldarono gli animi dei componenti dei vari
3
N. NICOLINI, La spedizione punitiva del Latouche-Tréville ed altri saggi sulla vita politica napoletana
alla fine del secolo XVIII, Firenze, Le Monnier, 1939, p. 140.
14
clubs giacobini, ove conferenze segrete e convegni patriottici
divennero frequentissimi.
3. L’arrivo di Latouche e nascita della Società
Patriottica.
Finalmente, la sera del 16 dicembre del 1792 il Latouche giunge nel
porto partenopeo e viene accolto da una folla in festa che grida
all’unanimità : << Coraggio, Francesi, noi siamo per voi ! >>
4
. Ma
ben presto tale entusiasmo viene soppiantato dalla delusione, infatti,
da subito, appare evidente che il comandante delle navi francesi,
anzi che attendere alla diffusione del giacobinismo, si preoccupava
unicamente di ottenere dalla corte di Napoli, e nel modo più
clamoroso possibile, la sconfessione della politica estera perseguita
dall’Acton.
E apparve del pari evidente che, se la corte, contro il parere della
quasi totalità dei suoi alti dignitari, aveva deciso di aderire alle
proposte umilianti avanzate dal Latouche, senza tener conto delle
incalcolabili conseguenze che quella adesione avrebbe avuto per
l’avvenire della stessa monarchia borbonica, il compromesso che ne
derivò, rimanendo la guerra contro la Francia a tempo
indeterminato, le lasciava mani libere per una sorveglianza ancora
più stretta di quanti allora si agitassero per la libertà, e rendeva
4
N. NICOLINI, p. 151.
15
ancora più difficile e pericolosa un’agitazione a sfondo francofilo e
rivoluzionario. Pertanto, non appena, non più tardi del 18 dicembre,
le navi del Latouche, ottenute tutte le soddisfazioni, alzarono le
vele; non appena, fu cosa provata, almeno per allora, la neutralità
con la Francia; non appena, la corte di Napoli, e segnatamente
Maria Carolina, poté liberamente anteporre fra le sue priorità, lo
sterminio dell’incipiente movimento giacobino nella capitale; tutte
le rosee prospettive e la gioiosa attività dei patrioti napoletani
caddero d’un colpo per far spazio alla più amara delusione.
Addio sogni dorati, addio chimere! Crollava ogni speranza che il
Latouche si sarebbe offerto benevolmente a far da mentore agli
ancora inesperti patrioti partenopei! Spariva per sempre la
possibilità di una rivoluzione a buon mercato, che, senza alcuna
preparazione politica, e con l’aiuto inestimabile dei cugini francesi,
avrebbe portato in un batter d’occhio quei giovani ardenti ai fasti
del potere, in compenso di un’attività politica, che non aveva
oltrepassato i limiti assai modesti di qualche accesa conversazione,
di frequenti passeggiate per le strade della città, di qualche
traduzione dal francese di testi ispirati al sentimento di libertà.
L’ideale della rivoluzione, che quei giovani sentivano con violenza
pari all’incapacità e indifferenza che mostravano verso il
programma politico che la rivoluzione da essi ideata avrebbe dovuto
assolvere e attuare; quel ideale si allontanava sempre più; e la
rivoluzione si mostrava ora, come nei primi giorni delle loro
conversazioni patriottiche, cosa ancora lontana e alla quale
16
occorrevano gravi fatiche, lunga preparazione, intenso studio,
ragionevolezza e acume.
Da tali avvenimenti, i giacobini napoletani avrebbero dovuto
ricavare un eccellente insegnamento, comprendere, cioè, che la
Francia giacobina, nella quale erano riposte tutte le loro speranze,
faceva della diffusione dei principi rivoluzionari più un mezzo che
un fine della sua politica estera, e quando, come nel caso della
spedizione del Latouche, si fosse vista nella necessità di scegliere
fra il proprio prestigio e la possibilità di diffondere l’idea
rivoluzionaria negli Stati europei, non avrebbe esitato a pensare
prevalentemente a se stessa e ad abbandonare, per conseguenza,
rivoluzione e rivoluzionari al proprio destino. Ma queste
considerazione politiche, i giacobini napoletani non potevano farle,
a causa di una loro essenziale incapacità, che costituisce la
minorazione effettiva di tutto il loro movimento. In tale frangente, è
utile citare l’osservazione, avanzata per la prima volta da Vincenzo
Cuoco
5
, secondo cui la rivoluzione francese ebbe sì rapido e
concreto sviluppo, perché “attiva”, e cioè scaturita dall’intimo del
popolo francese, laddove la rivoluzione napoletana del
Novantanove, e quindi il movimento giacobino che la preparò, era
destinata a sicuro insuccesso, perché “passiva”, e cioè scaturita da
avvenimenti esterni. In verità in Francia la rivoluzione ebbe
l’immediato e compatto appoggio delle masse, che con il loro peso
contribuì in larga misura a far piazza pulita delle velleità di
resistenza della corte e a dar causa vinta, sin dai primi giorni di vita
5
V. CUOCO, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, Edizione critica a cura di Antonino De Francesco,
Mandria-Bari-Roma. P. Lacaita Editore, 1998, p. 245.
17
degli Stati Generali, al Terzo Stato. A Napoli, di contro, si era ben
lontani dal riconoscere la necessità di una radicale riforma dello
Stato, che in Francia aveva dato luogo all’iniziativa governativa
della convenzione degli Stati Generali; e le masse popolari
rappresentavano il più valido sostegno, appunto perché cieche, della
monarchia; e di ciò erano consapevoli i giacobini napoletani, i quali,
per quanto si sforzassero di curare l’educazione politica del
popolino, non si illudevano sull’efficacia di tale lavoro, e
preferivano diffondere la loro fede fra i giovani nobili, e
particolarmente fra gli studenti, animi aperti agli ideali politici, e
pertanto suscettibili di entusiasmo e di volontà rivoluzionaria.
La mancanza dell’appoggio popolare rendeva indispensabile
l’intervento straniero, perché una rivoluzione, anche se ideata dai
soli elementi indigeni e con scopi puramente nazionali, necessitava
di un forte sostegno per vantare qualche possibilità di riuscita.
Inoltre non va sottovalutato che, in Francia la rivoluzione era sorta
dalla lunga preparazione politica degli intellettuali e di buona parte
della nobiltà; dalla contraddizione stridente fra la posizione ideale
della civiltà francese del Settecento, esempio per tutta l’Europa, e la
condizione reale del paese; dalla vivissima simpatia nutrita dai
Francesi verso la rivoluzione americana; dalla impossibilità, infine,
in cui si trovavano gli illuministi e i riformisti francesi, nobili o
borghesi, ricchi o poveri, di attuare i propri ideali per via diversa da
quella della libertà, della rivoluzione. Su tali punti i Francesi furono
tutti concordi, e tale concordia iniziale fu il primo elemento di
successo della rivoluzione francese.
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In modo completamente diverso andavano le cose nel Regno di
Napoli. La plebe era estranea ad ogni attività politica che non si
avvicinasse alla religione o alla monarchia; la grande maggioranza
della borghesia era indifferente alla politica, e curante
esclusivamente del proprio equilibrio economico; la quasi totalità
della nobiltà era assolutamente fuori da ogni azione politica, vuoi
per ignoranza, vuoi per incapacità intellettuale; insomma, la vita
politica napoletana si riassumeva tutta nelle poche migliaia di
studenti, attratti, da ogni parte della provincia, verso i “lumi” della
capitale; e nei pochi sostenitori della splendida tradizione
illuministica partenopea, ovvero l’aristocrazia intellettuale, che
riuniva contemporaneamente, quanto di meglio potessero offrire
nobiltà e borghesia del Reame.
Anche se gli illuministi napoletani erano in condizioni eccellenti per
dare pieno sviluppo alla vita politica del Regno, essi, ben
diversamente dagli illuministi francesi, erano scettici nelle
possibilità delle masse partenopee e consideravano l’illuminismo
riformistico del Settecento, non come punto di partenza di
imprevedibili sviluppi, ma come l’attuazione più piena della civiltà;
e se pur dettero il meglio di se stessi nell’opera riformistica, che
onorò il Regno dal 1734 al 1790, essi non concepirono, neppure da
lontano, la possibilità di una rivoluzione liberale nel Mezzogiorno
d’Italia; anzi perseverarono nel concepire l’attuazione dei loro
programmi riformistici nel quadro del rafforzamento della
monarchia, dell’assolutismo e del dispotismo monarchico.