prio come in ogni grande viaggio, nel corso dei preparativi non ci si
può esimere dal dover fare delle scelte organizzative: pertanto, fissate
le tappe più importanti e irrinunciabili, ci si ritrova inevitabilmente
a dover selezionare, tra le innumerevoli mete alternative, i luoghi che
destano in noi maggior curiosità e ai quali decidiamo di dedicare qual-
cosa in più che una breve sosta, e quelli che invece visiteremo soltanto
“di passaggio”. Avventurarsi nella fitta rete di relazioni esistenti tra
la distribuzione e le altre variabili economiche, sondare il terreno delle
molteplici cause che determinano il livello di diseguaglianza economica
e sociale di un sistema e delle conseguenze che quest’ultimo ha sul be-
nessere di una collettività, per molti versi, richiede di fare delle scelte
analoghe.
Il percorso che in questa sede si è tentato di delineare prende le
mosse da una considerazione di portata generale: la constatazione
di una diffusa presa di coscienza, a tutti i livelli, dell’accentuata dis-
eguaglianza economica che caratterizza il nostro tempo come un “prob-
lema”daaffrontare. L’approccio alle questioni distributive appare così
completamente rivoluzionato: la diseguaglianza non viene più letta
come l’esito dell’interazione di altre variabili fondamentali, ma acquista
la dignità di protagonista delle dinamiche economiche, causa ed effet-
to al tempo stesso di tutta una serie di fattori, le scelte degli agenti,
il progresso tecnologico, la crescita del prodotto, il ruolo svolto dalle
istituzioni e le politiche da esse implementate.
Partendo dal presupposto che non è possibile parlare del modo in
cui la ricchezza di una collettività è distribuita tra i suoi membri, senza
chiedersi se quel determinato assetto distributivo sia giusto o ingiusto,
equo o iniquo, il primo capitolo è dedicato alle più importanti teorie
della giustizia sociale, che nel corso dei secoli hanno forgiato l’idea di
diseguaglianza e la sua presunta soglia di accettabilità nel pensiero
delle persone e negli indirizzi politici dei governi che le rappresentano.
La prima tappa del nostro viaggio ideale è stata, dunque, un’immer-
sione nell’aspetto normativo della questione distributiva. Passando
in rassegna le più importanti linee di pensiero dell’etica economica e
sociale, dall’utilitarismo al libertarismo, dal pensiero di Marx all’egua-
litarismo liberale di Rawls, si è cercato di mettere in luce in che modo
ciascuna di esse abbia contribuito al dibattito sulla giustizia sociale,
fornendo le premesse etiche e filosofiche per lo sviluppo di nuove teorie
4
e di nuovi concetti di equità e di benessere. E’ d’obbligo, a questo
proposito, il riferimento in particolare al noto approccio delle capabi-
lities di Amartya Sen, che oltre ad essergli valso il premio Nobel, è
diventato l’asse portante di tutta la letteratura recente sulla giustizia
distributiva.
Dopo aver discusso le idee in fatto di diseguaglianza, ci si è concen-
trati sulle tecniche per misurarla: il secondo capitolo affronta quindi,
nella prima parte, i problemi inerenti la scelta della variabile rappre-
sentativa del benessere economico, dell’unità statistica di riferimento
e delle fonti informative più appropriate per le indagini; nella secon-
da parte, invece, si tenta di delineare una sorta di guida alla scelta
dell’indice di diseguaglianza da applicare, descrivendo i pregi e i limiti
propri delle misure attualmente più diffuseeutilizzate.
Nonostante i progressi fatti in questo ambito e la messa a punto
di indicatori anche piuttosto sofisticati, la questione della misurazione
della diseguaglianza rimane però ancora abbastanza spinosa. La do-
manda “diseguaglianza di che cosa e tra chi?” ricorre ancora tanto tra
coloro che si trovano a consultare le statistiche in fatto di disegua-
glianza, quanto tra coloro cui spetta l’arduo compito di elaborarle e
interpretarle. L’eterogeneità e, per certi versi, la qualità ancora in-
soddisfacente dei dati disponibili, soprattutto per quanto concerne i
paesi in via di sviluppo, pongono inoltre seri problemi nell’effettuare
comparazioni, soprattutto a livello internazionale.
Nel terzo e nel quarto capitolo, infine, abbandonata l’etica e la sta-
tistica, ci si addentra nella teoria economica della distribuzione, con
l’intento di studiare il modo in cui le questioni distributive siano state
affrontate dagli economisti nel corso delle varie epoche che scandiscono
la storia del pensiero economico e di analizzare le differenze tra i vari
approcci, concentrandoci in particolare sul progressivo spostamento
dell’attenzione da parte degli ‘addetti ai lavori’ dalle teorie della dis-
tribuzione funzionale (o primaria) a quelle della distribuzione personale
(o secondaria).
In particolare, restringendo il campo d’azione, ci si sofferma sul-
l’evoluzione del ruolo della distribuzione (e della diseguaglianza) all’in-
terno delle teorie della crescita economica, sulla base della convinzione
che oggi non si possa più prescindere dall’affrontare congiuntamente
questi due fenomeni, per l’evidenza e l’importanza delle loro inter-
5
relazioni. L’approccio tradizionale di questo filone della ricerca eco-
nomica vedeva la diseguaglianza come un fattore positivo per stimo-
lare la crescita e, per lungo tempo, quest’idea non è stata messa in
discussione. Le teorie più recenti, presentate nell’ultimo capitolo, in-
vece, costituiscono un’importante inversione di tendenza, dal momen-
to che, utilizzando gli strumenti e le ipotesi proprie della teoria della
crescita endogena e abbandonando l’ipotesi dell’agente rappresentativo
(che rendeva chiaramente ininfluente l’assetto distributivo delle risorse
economiche, qualunque esso fosse), esse hanno individuato una serie
di canali di trasmissione attraverso i quali, come l’evidenza empirica
in parte conferma, la diseguaglianza esercita un effetto negativo sulla
crescita.
L’individuazione di questi meccanismi ha un’importante conseguen-
za implicita, ovvero la necessità di rivedere completamente il ruolo della
redistribuzione. Se una maggiore eguaglianza favorisce le opportunità
di sviluppo economico, la redistribuzione, la cui finalitàèproprioquel-
la di ridurre le disparità economiche tra i membri di una collettività,
può produrre degli importanti effetti growth-promoting, finora sotto-
valutati. Queste considerazioni si rivelano tutt’altro che banali perchè
minano le fondamenta stesse di uno dei principi universalmente ac-
cettati in economia: il tradizionale trade-off tra equità ed efficienza.
Inoltre, sul piano politico, pongono un’altra domanda non meno cru-
ciale: se la redistribuzione può davvero dare impulso alla crescita, quali
politiche redistributive dovrebbero essere implementate da un governo
che vuole rilanciare l’economia del proprio paese?
Gli interrogativi che inevitabilmente si sollevano nel corso del nostro
“viaggio” sono dunque di portata senz’altro superiore rispetto all’obi-
ettivo che ci ha indotti a intraprenderlo, guidando passo dopo passo la
stesura di questo lavoro. Obiettivo che potrebbe dirsi raggiunto, qualo-
ra si fosse riusciti ad offrire al lettore una fotografia, quanto più nitida
possibile, dello “stato dell’arte” raggiunto dalla ricerca economica nel-
la speculazione delle tematiche distributive, passando dall’evoluzione
delle idee e dei concetti nella storia del pensiero alla ricerca di soluzioni
tecniche sempre più raffinate, dall’affacciarsi di nuovi problemi all’e-
mergere di nuovi spunti teorici, veri e propri sentieri ancora quasi
inesplorati, dai quali trarre l’immediata voglia di ripartire.
6
Capitolo 2
La diseguaglianza economica
2.1 Perchè studiare la diseguaglianza?
Negli ultimi anni abbiamo assistito alla diffusione di una crescente con-
sapevolezza e di una reale preoccupazione per il divario esistente tra i
ricchi e i poveri del mondo, ma anche per le marcate differenze tra le
condizioni economiche di individui e famiglie che vivono alla “porta ac-
canto”, cittadini delle stesse nazioni dotati degli stessi diritti e, almeno
potenzialmente, delle stesse opportunità. La questione economica, po-
litica, sociale e in primo luogo morale della diseguaglianza trova spazi
sempre più ampi nell’attenzione dei media, negli studi condotti dai
ricercatori, nei programmi d’insegnamento delle scienze sociali, nelle
dichiarazioni dei politici, ma anche nelle opinioni della gente comune.
Basta segnalare a questo proposito la pubblicazione nell’arco dell’ul-
timo anno, da parte dei più importanti organismi internazionali, di
parecchi rapporti ufficiali nei quali i concetti di diseguaglianza e di
equità acquisiscono un ruolo nuovo e insolitamente centrale: l’ultimo
Human Development Report delle Nazioni Unite è interamente imper-
niato sulla questione del rapporto tra diseguaglianza e sviluppo umano,
e non a caso si intitola “International cooperation at a crossroads: aid,
trade and security in an unequal world”. Sempre nel 2005 le Nazioni
Unite hanno pubblicato anche il Report on World Social Situation dal
titolo “The inequality predicament” e la Banca Mondiale ha dedicato
interamente l’ultimo World Development Report al tema “Equity and
Development”.
7
Perchè ciò stia accadendo è una domanda che è lecito porsi, dal
momento che il mondo sta attraversando un’epoca in cui le minacce
del terrorismo internazionale o dei pericoli derivanti dall’inquinamento
e dalla progressiva erosione delle risorse naturali potrebbero risultare
alla coscienza comune, almeno in apparenza, più pressanti del fatto di
vivere in una società più o meno diseguale.
Proviamo a dare alcune risposte. Una prima ragione del rinnovato
interesse per il tema della disuguaglianza economica è sicuramente il
recente aumento della disponibilità di dati aggregati e di micro-dati
ottenuti attraverso indagini campionarie presso le famiglie, che hanno
consentito l’avvio di uno studio razionale e sistematico della distribu-
zione del reddito e della ricchezza e delle sue relazioni con le performan-
ce economiche di ogni paese, aprendo la strada ad un filone autonomo
di ricerca, relegato finoapocotempofaalruolodibrancasecondaria
rispetto agli altri rami della teoria economica.
In secondo luogo, portare a conoscenza di tutti attraverso la radio,
la televisione, la rete, i dati sulle disparità di reddito, sull’accesso ai
beni primari, ai servizi sanitari, all’istruzione di base e sulla mortalità
infantile, ha indotto una forte presa di coscienza da parte dell’opinione
pubblica, destando indignazione e moltiplicando il numero e gli sforzi
delle persone impegnate in attività di volontariato e cooperazione a
tutti i livelli, locale e internazionale. Ma soprattutto ha imposto al-
la comunità globale l’obbligo di dare risposta ad alcuni fondamentali
interrogativi: perchè persistono così alti livelli di diseguaglianza nelle
economie del mondo a dispetto del rapido progresso economico degli
ultimi decenni? Quanta povertà estrema esiste ancora agli inizi del
nuovo millennio? Che priorità dare a questo problema? E’ vero che
le eccessive differenze negli standard di vita di gruppi appartenenti a
nazioni, economie, società, etnie differenti possono essere cause sca-
tenantidigraviconflitti?Eancora:seèverocheesisteunlivellodi
diseguaglianza accettabile quali criteri usare per fissarlo? E perchè al di
sopra di una certa soglia le disuguaglianze violano il senso di giustizia
di ciascuno, indipendentemente dalla propria concezione personale di
società giusta? Quali sarebbero le conseguenze in termini di crescita e
sviluppo economico di politiche fortemente egualitariste?
L’esigenza di rispondere a questi e molti altri interrogativi è dunque
una delle motivazioni che hanno indotto gli studiosi ad affrontare la
8
questione della disuguaglianza economica su scala più ampia di quanto
fatto finora, con tutti i problemi metodologici che ciò comporta e che
vedremo più avanti.
In terzo luogo, non soltanto l’opinione pubblica e la comunità scien-
tifica hanno dovuto confrontarsi con l’enorme portata del problema,
ma a livello politico i legislatori sono stati costretti a constatare la
lentezza e spesso l’inefficacia delle politiche di riduzione della povertà
attuate sino ad ora e ciò ha incrementato la consapevolezza degli effet-
ti benefici sulla diminuzione della povertà che possono essere indotti
dall’implementazione di politiche non direttamente finalizzate a questo
risultato, bensì dirette più in generale a conseguire una distribuzione
più eguale. E’ un processo decisionale complesso che incontra sulla sua
strada forti ostacoli e resistenze, come inevitabilmente accade laddove
si tratta di intervenire sulla distribuzione, e ogni policy maker deve
poter fare affidamento su studi approfonditi e costantemente aggiornati
sulla misurazione della disuguaglianza, sulle sue relazioni con i livelli di
povertà assoluta e relativa, sui rapporti di causa-effetto che legano la
disuguaglianza alla crescita, all’occupazione e all’inflazione, per poter
varare misure “ad hoc” per il proprio paese.
Queste argomentazioni possono spiegare il rinnovato interesse scien-
tifico nei confronti della disuguaglianza economica, che finoapochi
decenni fa era stata quasi sempre studiata come parte integrante di
una più ampia analisi riguardante la povertà o il benessere economico,
sebbene si trattasse di tre concetti ben distinti tra loro, oppure, com’è
avvenuto in tempi più recenti, concentrando l’attenzione su questioni
molto specifiche e settoriali, quali ad esempio la disuguaglianza nelle
remunerazionidiunacertacategoriadilavoratori.
Tuttavia, l’enorme disponibilità di dati, la risonanza del problema
nei media (soprattutto a seguito di fatti catastrofici, calamità naturali,
epidemie, che colpiscono sempre più duramente i poveri) o l’esigenza
politica di mettere a punto interventi pubblici redistributivi realmente
efficaci, non rispondono ad un’altra cruciale domanda: perchè la disu-
guaglianza suscita indignazione e risentimento? Essere a conoscenza
del fatto che i 50 individui più ricchi del mondo possiedono un reddi-
to complessivo pari a quello dei 416 milioni di persone più povere del
pianeta, o del fatto che il 40% della popolazione mondiale, costituito
da 2,5 milioni di persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno,
9
riceve soltanto il 5% del reddito globale, mentre il 54% va a coloro che
si collocano nel decile più ricco della distribuzione
1
, suscita inevitabil-
mente delle reazioni personali, ma soprattutto innesca (o dovrebbe
innescare) dei meccanismi di risposta collettiva e, dunque, in ultima
analisi, politica. Per conoscere e comprendere la natura e l’entità di
queste reazioni occorre sondare le intime convinzioni di ciascuno di noi,
cercando le ragioni personali, etiche, sociali e storiche che stanno alla
base della formazione dei giudizi individuali, e conseguentemente col-
lettivi, sulla disuguaglianza e sulla sua presunta soglia di accettabilità.
Ed è appunto quello che cercheremo di fare nel prossimo paragrafo.
2.2 Perchè la diseguaglianza è ingiusta?
Le teorie della giustizia distributiva
Il primo forte motivo di condanna della disuguaglianza da parte di un
individuo è forse semplicemente il sentimento di invidia e di risentimen-
to provocato dallo spettacolo di enormi ricchezze detenute nelle mani
di pochi fortunati, mentre la stragrande maggioranza delle persone la-
vora, risparmia e talvolta è costretta ad imporsi sacrifici o rinunce per
garantirsi un’esistenza dignitosa, per non parlare di coloro che versano
in condizioni di vera povertà e non sono in grado di soddisfare neanche
i propri bisogni più elementari.
Ma le ragioni per puntare il dito contro l’ingiustizia sociale della
disuguaglianza vanno chiaramente oltre l’interesse personale e hanno la
loro radice nell’etica sociale ed economica predominante e nel contesto
storico, politico e religioso caratterizzante la società in cui l’individuo
vive e con la quale quotidianamente si confronta. Tenteremo quindi di
comprendere i meccanismi che regolano il rapporto tra disuguaglianza
economica ed etica e tra disuguaglianza economica e sviluppo storico.
Per quanto riguarda la prima delle due relazioni, non ci addentrere-
mo pertanto nella dimensione individuale dell’etica, ma ci limiteremo,
qui di seguito, a passare in rassegna i quattro principali approcci teori-
ci dell’etica economica e sociale moderna, mettendo in luce il modo
peculiare in cui ciascuno di essi si misura con l’elaborazione di principi
1
UN, Human Development Report, United Nations Development Programme,
New York, 2005.
10
generali di giustizia sociale, principi capaci di definire e ripartire, cioè,
i diritti e i doveri equamente tra i membri della società, caratterizzan-
do conseguentemente il modo in cui dobbiamo organizzare collettiva-
mentelenostresocietàeforgiarelenostreistituzioni,affinchè possano
definirsi giuste.
La giustizia sociale, quindi, assume un’importanza centrale nel-
la nostra analisi della disuguaglianza economica, poichè l’adozione di
metodi di valutazione e confronto delle distribuzioni del reddito o del-
la ricchezza e l’implementazione di politiche finalizzate a renderle più
egualitarie presuppongono sempre una sorta di consenso implicito a
qualche principio sottostante di giustizia distributiva.
Ai nostri fini, infatti, è questa parte dell’etica che informa le po-
litiche che i decision makers scelgono di adottare, ma che influenza
anche, come cercheremo di dimostrare, la preferenza da parte degli
studiosi per alcuni metodi, alcuni indici e alcune variabili di riferimen-
to, piuttosto che per altri, nella scelta della modalità di misurazione e
rappresentazione più adeguata della disuguaglianza economica.
I quattro approcci che forniscono i punti cardinali della riflessione
e del dibattito contemporaneo in quest’ambito sono: l’utilitarismo, il
libertarismo, il marxismo e l’egualitarismo liberale
2
.
2.2.1 L’utilitarismo
Fondato da Jeremy Bentham (1789) e reso popolare sotto questa de-
nominazione da John Stuart Mill (1861), l’utilitarismo è stato a lungo
il solo quadro teorico di riferimento per la riflessione etica degli econo-
misti, che ne hanno fatto ampio uso per la formulazione di giudizi
sociali e per la valutazione di distribuzioni alternative di reddito.
L’idea di fondo può riassumersi nella seguente affermazione: una
società giusta è una società felice. Premesso che l’utilitarismo è una
dottrina fortemente influenzata dall’Illuminismo del XVIII secolo ed in-
terpretabile, nella sua formulazione originaria, come una visione “edo-
nista” del benessere, questa semplice affermazione, tradotta in termini
normativi, ci condurrebbe a perseguire, quale che sia la decisione da
prendere, la più grande felicità per il più grande numero di individui.
Abbandonando quindi ogni idea di diritto naturale, ogni pregiudizio
2
C.ARNSPERGER, P. VAN PARIJS (2003).
11
morale e ogni fede religiosa, l’utilitarismo propone di porsi di fronte ad
ogni scelta con un unico criterio: selezionare l’opzione che produce il
benessere aggregato maggiore.
Ampliando l’interpretazione edonista di Bentham sopra citata, nel-
la quale il ragionamento era articolato esclusivamente in termini di
piacere e di dolore, i sostenitori contemporanei dell’utilitarismo, pur
mantenendo il carattere individualista della dottrina, per cui la sola
cosa che conta nella valutazione delle opzioni possibili sono le con-
seguenze in termini di benessere di ciascun membro della collettività,
hanno allargato il concetto stesso di benessere, definendo quest’ulti-
mo come l’utilità derivante dal soddisfacimento delle preferenze in-
dividuali, indipendentemente dal fatto che ciò si traduca in piacere
propriamente detto (interpretazione “welfarista”).
Possiamo inoltre distinguere due versioni dell’utilitarismo che si
contendono il merito di incorporare meglio il carattere universalista
delladottrinagenerale,chetieneinegualeconsiderazionelepreferenze
di ciascun membro della collettività (e pertanto anche di coloro che
devono ancora nascere): da una parte, l’utilitarismo classico che inter-
preta l’interesse collettivo come somma degli interessi degli individui
delle generazioni presenti e future, dall’altra l’utilitarismo della media
che persegue invece la massimizzazione del livello medio del benessere
degli stessi individui, tenendo conto dell’incertezza che non consente di
prevedere a quale generazione ciascun individuo potrebbe appartenere.
A prescindere da quale di queste due versioni dell’utilitarismo si
voglia abbracciare, è evidente che focalizzare la propria attenzione
soltanto sulla somma o sulla media delle utilità individuali induce a
trascurare in modo inaccettabile le diseguaglianze fra i membri della
società. D’altronde, l’utilitarismo è stato per molti versi il fondamento
teorico ufficiale della tradizionale economia del benessere, che affronta
infatti un preciso insieme di questioni evitando sistematicamente la
formulazione di giudizi distributivi. Ce lo dimostra il significato di
ottimalità Paretiana, concetto chiave dell’economia del benessere, che
elimina completamente la necessità di una valutazione di tipo distri-
butivo nella scelta dell’allocazione preferibile. La Pareto - ottimalità
di un’allocazione garantisce infatti che a partire da essa non sia possi-
bile alcun cambiamento che migliori la posizione di almeno un soggetto
senza peggiorare quella degli altri, esattamente come avviene nella di-
12
visione in fette di una torta, senza richiedere nessun livellamento delle
disparitàtrachihamoltoechihamoltopoco.
D’altraparte,èpurverochenegliannipiùrecentisièampia-
mente discusso tra gli economisti sull’opportunità di prendere le deci-
sioni di politica economica tenendo conto anche di giudizi distributivi
che guardassero oltre l’ottimalità Paretiana e di utilizzare quindi uno
strumento analitico funzionante sulla base di un criterio meno restrit-
tivo. Questo strumento è rappresentato dalla funzione del benessere
sociale, che nella sua originaria formulazione generale che dobbiamo a
Bergson e Samuelson, non è altro che un qualsiasi ordinamento su un
insieme di stati sociali alternativi. Su questa definizione di partenza si
innestano poi una serie di assunzioni e di requisiti ai quali la funzione
del benessere sociale deve rispondere, che ne connotano la forma. Ai
nostri fini sceglieremo perciò una funzione del benessere sociale “indi-
vidualistica”, secondo la quale cioè il benessere socialeW dipenda dalle
utilità individuali: W (x)=F (U
1
(x) , ...., U
n
(x)),doveU
i
rappresenta
la funzione di utilità dell’individuo i,peri=1, ..., n,ex rappresenta
ogni stato sociale appartenente all’insieme di definizione di W
3
;as-
sumeremo poi che W aumenti al crescere di ogni U
i
, dato l’insieme
delle utilità degli altri individui. Fatte queste ipotesi, il risultato della
massimizzazione di W , tenuto conto del vincolo rappresentato dal-
la frontiera delle utilità possibili , insieme delle possibili configurazioni
distributive a partire dalle quali non è possibile riallocare le risorse
in modo da migliorare il benessere di un individuo senza danneggiare
quello di un altro, corrisponde al punto di massimo benessere sociale
(vedi figura 2.1).
Tuttavia, ricordando che il principale obiettivo dell’introduzione di
una funzione di benessere sociale è quello di spingerci al di là della
limitatezza concettuale dell’ottimo Paretiano, al fine di caratterizzare
la nostra analisi con giudizi distributivi più forti, il nodo cruciale sta
proprio nella scelta di una ben precisa forma funzionale. Il tipo di fun-
zione prescelta infatti rispecchia l’approccio di giustizia distributiva a
cui il policy maker decide di aderire, ed in particolare il suo grado di
3
Nella quasi totalità delle sue applicazioni, gli argomenti delle funzioni U sono
rappresentati dal vettore di beni e servizi o più semplicemente dal reddito che un
certo stato sociale, ovvero una determinata distribuzione delle risorse, assegna a
ciascun individuo. Si accetta cioè quasi sempre un punto di vista egoistico e non
si ammette che il benessere dell’uno possa dipendere dal benessere dell’altro.
13
Figura 2.1: Massimizzazione del benessere sociale in corrispondenza
del punto di tangenza tra la frontiera delle utilità possibili (FUP) e la
più alta curva di indifferenza sociale raggiungibile.
concavità incorpora l’avversione alla disuguaglianza della comunità di
riferimento. Difatti, tanto più una funzione del benessere sociale è con-
cava (convessa), tanto maggiore (minore) è l’incremento di benessere
che la società ottiene dall’effettuare un trasferimento di reddito (o di
un equivalente ammontare di beni e servizi) da un individuo ricco ad
uno povero.
Nell’ambito dell’approccio utilitarista la funzione del benessere so-
ciale rappresentativa della visione etica sottostante dovrà evidente-
mente essere di tipo additivo:
W (x)=
n
X
i=1
U
i
(x)
Graficamente, supponendo per semplicità che la società sia composta
da due soli individui: W = U
1
+U
2
, è possibile rappresentare nel piano
(U
1
,U
2
), le curve di indifferenza sociale corrispondenti alla funzione del
14
benessere benthamiana come rette inclinate negativamente di 45
◦
.Una
redistribuzione che comporti lo spostamento da un punto ad un altro
della stessa curva di indifferenza, ad esempio dall’allocazione A a quella
B, determina infatti una diminuzione del benessere di un individuo e un
miglioramento di pari misura del benessere dell’altro, senza pertanto
incidere sulla somma delle loro utilità e quindi sul benessere sociale.
Esiste dunque perfetta sostituibilità tra le utilità degli individui. Per la
stessa ragione, all’allocazione A è associato lo stesso livello di benessere
collettivo dell’allocazione C, pur essendo quest’ultima decisamente più
equa (vedi figura 2.2).
Figura 2.2: Curve di indifferenza sociali lineari implicano neutralità
rispetto alla diseguaglianza (funzione del benessere sociale utilitarista).
Amartya Sen (1997) mette chiaramente in luce l’inadeguatezza di
fondo dell’approccio utilitarista per la formulazione di giudizi distri-
butivi, argomentando che la necessità di eguagliare le utilità marginali
di tutti gli individui in modo che non sia possibile aumentare il benes-
sere di uno più di quanto non si riduca quello di un altro, al fine di
massimizzare appunto l’utilità complessiva, può richiedere anzi che in
15
certi casi si trasferiscano risorse in direzione opposta rispetto a quella
che un intervento redistributivo egualitarista suggerirebbe.
Sempre Sen ci mostra anche che questa inadeguatezza può in qualche
modo essere smorzata, introducendo l’ipotesi di cardinalità delle fun-
zioni di utilità e la possibilità di comparazioni interpersonali tra i criteri
di valutazione del benessere dei diversi individui. In questo caso infatti
è possibile introdurre considerazioni di stampo egualitarista nel model-
lo utilitarista, come il cosiddetto Assioma di Equità Debole: dato un
certo ammontare di reddito totale da distribuire tra n individui, sup-
poniamo che il benessere individuale dipenda interamente dal reddito
di cui si dispone e che gli individui i e j differiscano tra loro per il
diverso livello di benessere che sono in grado di estrarre da uno stessa
quantità di reddito individuale, in particolare: U
i
(y)>U
j
(y),perogni
livello di y. Sotto queste ipotesi, l’Assioma di Equità Debole richiede
che la soluzione ottima assegni a j un maggior livello di reddito rispetto
ad i.
Certamente in questo modo si fa strada nel modello una seppur
debole preferenza nei confronti di una distribuzione più egualitaria,
laddove l’economia del benessere applicata invece aveva semplicemente
scansato il problema assumendo che, se due persone hanno la stessa
funzione di domanda dei beni disponibili sul mercato, allora traggono
la stessa utilità da un dato paniere di questi ultimi.
Un altro “espediente” per inserire nel modello utilitarista una pre-
ferenza per l’uguaglianza di reddito consiste nell’attribuire a tutti gli
individui della collettività di riferimento la stessa funzione di utilità
concava definita sui rispettivi livelli di reddito. In questo caso, mas-
simizzare la semplice somma delle utilità individuali dato un certo red-
dito totale, eguagliando le utilità marginali, richiede ovviamente che
il reddito sia distribuito equamente tra tutti. Oltre allo scarso reali-
smo di un’ipotesi simile, però, rimane il fatto che, se è vero che queste
assunzioni condurrebbero ad un “utilitarismo egualitarista”, è altret-
tanto vero che questa preferenza per l’uguaglianza di reddito come
scelta ottimale deriverebbe solo da considerazioni in termini di effi-
cienza. L’equiripartizione del reddito totale sarebbe cioè la migliore
possibile perchè massimizza il benessere aggregato ma non perchè è la
più giusta.
In sintesi, pertanto, l’utilitarismo si rivela fondamentalmente ina-
16