4
di significati e si abusa di semplificazioni che non
hanno davvero nessun piccolo legame con la realtà.
Estremo disagio, questo mi causava la mia visione, e proprio
la considerazione che non possono esistere sulla Terra individui
che incarnano totalmente il paradigma del male, dell’indecenza,
mi ha portato a coltivare il dubbio. Non poteva restare nella mia
mente uno spazio inattaccabile. Proprio sugli zingari era
doveroso attivare un processo di conoscenze: anche se è comodo
e poco impegnativo, l’affidarsi a stereotipi e pregiudizi non
mi assicurava il benessere interiore.
Forse l’aiuto più significativo è arrivato dall’ascolto dell’opera di
un cantautore, un poeta: Fabrizio De Andrè, il cantore degli ultimi,
dei diseredati, un grande uomo capace di condensare in una
canzone anni di studi ed esperienze, passioni e valori.
Non è un caso che le parole e le sonorità di un artista - che ha
fatto dell’incontro, della contaminazione e della condivisione
la bandiera della sua vita - mi abbiano spinto a mettere in crisi il
mio stolto atteggiamento nei confronti dei rom. Dalla musica sono
arrivato ad essi, che vivono la musica come un elemento identitario
ed essenziale, presente in ogni occasione: un fattore costitutivo della
loro cultura. Il cammino che mi ha portato a richiedere una tesi di
laurea sulla persecuzione nazi-fascista ai danni degli zingari è
partito da lì, dall’importanza data alla voglia di sapere, di
addentrarsi verso sentieri che la “massa” non percorre. Proprio su
quelle mulattiere, tanto care al maestro genovese, c’è la storia, la
vita di persone in carne ed ossa; sono rintracciabili, cioè, quelle
verità che permettono di rigettare tutte le false spiegazioni e
ricostruzioni che chi non sa, o vuole che non si sappia, ci propugna.
5
KHORAKHANE’*
“a forza di essere vento”
Il cuore rallenta la testa cammina
In quel pozzo di piscio e cemento
A quel campo strappato dal vento
A forza di essere vento
Porto il nome di tutti i battesimi
Ogni nome il sigillo di un
lasciapassare
Per un guado una terra una nuvola
un canto
Un diamante nascosto nel pane
Per un solo dolcissimo umore del
sangue
Per la stessa ragione del viaggio
viaggiare
Il cuore rallenta e la testa
cammina
In un buio di giostre in disuso
Qualche Rom si è fermato italiano
Come un rame a imbrunire sul
muro
Saper leggere il libro del mondo
Con parole cangianti e nessuna
scrittura
Nei sentieri costretti in un palmo
di mano
I segreti che fanno paura
Finché un uomo ti incontra e non
si riconosce
E ogni terra si accende e si
arrende la pace
I figli cadevano dal calendario
Yugoslavia Polonia Ungheria
I soldati prendevano tutti
E tutti buttavano via
E poi Mirka a San Giorgio** di
maggio
Tra le fiamme dei fiori a ridere a
bere
E un sollievo di lacrime a
invadere gli occhi
E dagli occhi cadere
Ora alzatevi spose bambine
Che è venuto il tempo di andare
Con le vene celesti dei polsi
Anche oggi si va a caritare
E se questo vuol dire rubare
Questo filo di pane tra miseria e
fortuna
Allo specchio di questa
kampina***
Ai miei occhi limpidi come un
addio
Lo può dire soltanto chi sa di
raccogliere in bocca
Il punto di vista di Dio
6
****Čvava šero po tute Poserò la testa sulla tua spalla
i kerava e farò
jek sano ot mori un sogno di mare
i taha jek jak kon kašta e domani un fuoco di legna
vašu ti baro nebo perché l’aria azzurra
avi ker diventi casa
kon ovla so mutavia chi sarà a raccontare
kon ovla chi sarà
ovla kon aščovi sarà chi rimane
me ğava palan ladi io seguirò questo migrare
me ğava seguirò
palan bura ot croiuti questa corrente d’ali
* Etnia Rom di provenienza serbo-montenegrina
** Festa annuale del popolo Rom nel sud della Francia
*** Baracca [o roulotte] da campo dei Rom
**** Traduzione in ròmani di Giorgio Bezzecchi, Rom Harvato
Testo e musica di FABRIZIO DE ANDRÈ e IVANO FOSSATI, da Anime Salve,
BMG Ricordi, 1996.
7
INTRODUZIONE
La memoria del popolo zingaro massacrato deve
trovare un posto tra tutti i popoli del mondo.
MIRIAM NOVITCH
L’oblio è l’ultimo rifugio di coloro che preferiscono seppellire tutto,
che non hanno il coraggio di guardare negli occhi il proprio passato,
che sperano di cancellarlo come un brutto sogno:
amnistia sommaria collettiva attraverso l’amnesia di massa.
FRANCO FERRAROTTI, La tentazione dell’oblio, Laterza, 1993, pag. 9.
Indagare nel periodo nazi-fascista per capire, conoscersi, porre la
lente dell’approfondimento su eventi che ancora non vengono alla
luce e che per tanto tempo non hanno guadagnato lo spazio che
avrebbero dovuto ottenere.
“Naucht und Nebel”: notte e nebbia era il nome in codice della
soluzione finale: i prigionieri ebrei, zingari, omosessuali, malati,
oppositori dovevano scomparire senza lasciare traccia. Riprendere il
filo della storia, agire sulla memoria vuol dire anche diradare la nebbia
e vedere nella notte, far sì che un immenso patrimonio storico non
diventi inservibile, muto.
L’esigenza di approfondire una pagina della nostra recente storia è
scaturita dal silenzio assordante con il quale i libri scolastici, i media,
le cerimonie pubbliche coprono quegli avvenimenti. L’incapacità di
rientrare all’interno delle canoniche classificazioni diviene causa della
mancanza di un effettivo riconoscimento sociale. A differenza degli
altri gruppi colpiti in quel periodo, per le popolazioni zingare non c’è
8
stato riscatto, nonostante essi abbiano subito, al pari degli ebrei, una
persecuzione di tipo razziale, solo pochi decenni fa sono stati
riconosciuti loro dalla Germania i diritti al risarcimento. Seppure
ariani, cioè originari dell’India, hanno sofferto le persecuzioni: da qui
il paradosso dell’essere stati braccati e sterminati proprio da coloro
che sostenevano la superiorità e si prefiggevano il dominio millenario
da parte della razza ariana.
Ma “chi è questo essere umano abbandonato prima dell’olocausto,
durante l’olocausto e dopo l’olocausto?” [Bruno Nicolini (sacerdote
fondatore, nel 1963, dell’Opera Nomadi; ideatore del Centro Studi
Zingari e della rivista Lacio drom), in Zingari ieri e oggi, 1993, pag.
123]. Gli zingari non hanno un territorio autonomo, non hanno
istituzioni come noi le intendiamo, nessun eroe, niente leggi scritte né
regnanti, non hanno né eserciti né colonie, quindi non si prefiggono di
raggiungere alti interessi nazionali. Un popolo transnazionale che non
ha mai dichiarato guerra a nessun altro popolo e non è mai ricorso al
terrorismo per rivendicare il sacrosanto diritto alla propria esistenza.
In tantissimi stati i rom non sono considerati nemmeno come
minoranze linguistiche - anche in Italia è così: tutto ciò ha reso
possibile la loro estraneità ai trattati di pace, agli accordi, a tutte le fasi
cruciali che le nazioni vivono. Un popolo senza voce quindi, un vero
paradosso se si pensa che la loro cultura e le molteplici tradizioni si
tramandano da secoli per via orale e la maggioranza degli zingari sia
analfabeta. Gli ultimi degli ultimi, niente risarcimenti, niente
riconoscimenti, ma soprattutto la drammatica situazione a tutt’oggi,
cioè la sistematica soppressione di alcuni diritti fondamentali
appartenenti ad ogni individuo. Sono invisibili giuridicamente,
9
inesistenti, ma, in particolare, mediaticamente assenti: nella nostra
società dell’immagine, chi non appare non esiste.
Un filo conduttore di rifiuti, bandi, conflitti e violenze traccia la
storia dei tanti gruppi zingari, dal loro arrivo in Europa intorno
all’anno 1000, fino ai nostri giorni. Nei paesi occupati dai nazisti,
l’80% degli zingari è stato ucciso, proporzione assai simile a quella
degli ebrei: più di mezzo milione di persone quindi, molte passate per
il camino dei più famigerati lager.
Se i nazionalsocialisti avessero potuto, il 100% di loro sarebbe stato
annientato. Tuttora tra gli zingari corre la voce che Hitler li odiasse,
perché un’indovina gitana ne aveva previsto il crollo (Kenrick-Puxon,
1975, pag. 92). Molti esperti in materia sono concordi nell’indicare la
cifra del mezzo milione di vite spezzate come la più verosimile. La
distruzione dei documenti compiuta dai carnefici alla vigilia della
sconfitta, le poche testimonianze rintracciate e le peculiarità stesse
delle comunità zingare - il nomadismo, l’oralità, il rifiuto di parlare
del tragico passato e dei morti (i mule), tanti individui non iscritti nei
registri anagrafici - ma soprattutto le modalità dello sterminio: tutto
ciò impedisce una definitiva e chiarificatrice ricostruzione delle
violenze perpetrate ai loro danni.
Gli ebrei hanno risposto alle persecuzioni e alla diaspora con una monumentale
industria della memoria. Gli zingari, con il loro peculiare miscuglio di fatalismo
e di filosofia del carpe diem, dell’oblio hanno fatto un’arte.
ISABEL FONSECA, Seppellitemi in piedi, 1995, pag. 275.
Se per l’olocausto ebreo si può far riferimento ai dati delle comunità
presenti ed operanti in ogni paese, alla voce essenziale dei
10
sopravvissuti, alle memorie scritte diventate best-sellers, ai documenti
attestanti i numeri ed i trasporti verso i lager, ad una ricchissima mole
di studi effettuati, tutto questo non è presente per gli zingari.
L’ostacolo principale però è dato dall’enorme quantità di famiglie ed
intere carovane zingare sterminate lungo le strade, nelle foreste dove
s’erano rifugiati e nei moltissimi massacri eseguiti dalle
Einsatzgruppen nei territori occupati ad est dalla Germania nazista.
Fosse comuni sono presenti ovunque in quei luoghi, e sapere chi e
quanti hanno avuto un simile destino è davvero impossibile.
Le cifre sono importanti, certo, ma diventano irrilevanti se relative
al giudizio storico che bisogna emettere contro uomini che
predicarono l’annientamento totale di altri uomini, colpevoli soltanto
di appartenere ad etnie diverse, aventi valori e stili di vita differenti
(Vittorio Giuntella, Il nazismo e i lager, Studium, 1979). I lager sono
apparsi lo sbocco logico, non folle né episodico, di quella concezione
la quale sostiene che non bisogna tollerare la differenza e
l’opposizione; ciò che si distingue dal gruppo del noi è male, è
pericoloso, diviene nemico totale: nei campi e per le strade di tutta
l’Europa sono morti assieme ad ebrei e zingari, migliaia di russi,
politici perseguitati, credenti di diverse religioni, omosessuali e tanti
uomini, donne e bambini di diverse nazioni (Giovanna Boursier,
Zigeuner. Lo sterminio dimenticato, Sinnos, 1996).
Già partendo dalle leggende e dalle denominazioni si possono
focalizzare le differenti visioni che intercorrono tra il we-group - il
sistema dell’identità e l’out-group - il sistema dell’”alterità”, si può
intendere la particolarità delle relazioni esistenti tra le maggioranze e
coloro che sono stati sempre visti come diversi, misteriosi alieni da
allontanare. Le stesse parole con cui la parte maggioritaria della
11
popolazione identifica i rom, sono vocaboli che contribuiscono ad una
segregazione linguistica, che sfocia nella segregazione razziale vera e
propria, bene in evidenza nei cosiddetti campi nomadi. Nel primo
capitolo si parlerà di questo.
L’approccio sociologico è essenziale nel consentire di penetrare le
motivazioni, i meccanismi e le strategie che sono riscontrabili nei
rapporti tra chi appartiene al sistema dominante e coloro che vengono
marginalizzati e mostrati come irrecuperabili, e oramai senza più
niente da offrire sull’altare del mercato.
Abbiamo intrapreso un percorso nella memoria: “l’uomo è un ricordo
per l’uomo, un ricordo e insieme un progetto” (Franco Ferrarotti,
1996). La consapevolezza che per distruggere la memoria storica non
ci vuole molto - basta il silenzio - ha indirizzato la ricerca agli esordi,
per comprendere che i regimi totalitari del XX secolo (terzo e quinto
capitolo: Germania nazista ed Italia fascista) hanno solo seguito le
orme dei precedenti (secondo capitolo), aggiungendo alle loro azioni e
direttive la modernità delle proposizioni scientifiche, l’efficienza
razionale dell’apparato burocratico e del sistema industriale. Il
genocidio - Porrajmos = “divoramento” - analizzato nel capitolo
centrale, il quarto, si configura quindi come l’apice della lotta contro
la piaga zingara, che si ritiene infetti da secoli la società “normale”. E’
doveroso sottolineare che il massacro avvenuto rimane nella cornice
che regola i consueti rapporti di forza, proprio per questo motivo non
è scontato che non si ripresenti sotto disparate forme: l’odierna
situazione di molti campi, il controllo assiduo ed i soprusi - “nessun
non zingaro viene cacciato di casa se non manda i figli a scuola”
(Piasere, 1991, pag. 212), i diritti negati mettono costantemente in
pericolo l’esistenza di culture distinte dalla nostra.
12
La politica razziale nazi-fascista è stata l’esito specifico
dell’incontro tra gli sconvolgimenti sociali dovuti alla
modernizzazione e gli straordinari strumenti di ingegneria sociale
prodotti dalla modernità stessa. L’idea sostanziale riguarda le
responsabilità che le élite nell’ambito scientifico, comunicativo,
economico e politico, hanno in relazione ai processi di natura
socioculturale: se politici-scienziati- industriali, sostenuti da letterati e
pensatori, hanno messo a punto un razionale progetto d’eugenetica ed
ingegneria sociale, hanno creato le cosiddette fabbriche della morte ed
eseguito esperimenti su cavie umane, in gran numero zingare, altre
persone, che hanno rivestito ruoli di indirizzo e comando, hanno fatto
sì che negli anni del dopoguerra (sesto capitolo) determinate porzioni
di storia siano state accantonate, rimosse consapevolmente. Tanti
luoghi, che hanno rappresentato la morte delle libertà e la fine di tante
vite, sono lasciati al totale abbandono, in altri ci sono fattorie e asili; a
Monaco di Baviera, di recente, è stato attrezzato un campo nomadi
proprio sul terreno in cui vi fu il vecchio campo di custodia preventiva
dell’epoca nazista: la dimenticanza storica, la rimozione di un intero
capitolo provocano anche questo. In Italia è calato il buio assoluto
sulle tante località che videro le deportazioni; tanti siti
rappresentarono per i prigionieri l’anticamera dello sterminio.
I frutti dell’albero dell’oblio sono pronti. Oltre al silenzio c’è anche
il revisionismo ed il negazionismo; nella cittadina in cui vivo, sempre
governata nel dopoguerra dal partito comunista, da qualche anno
movimenti dichiaratamente neonazisti fanno politica, tappezzano le
vie, organizzano sit-in e mostre, tutto alla luce del sole: “lotta
razziale” è tornata ad essere una parola d’ordine per tanti giovani; la
violenza non appartiene solo alle ideologie del passato. Proprio per
13
questo siamo andati a verificare “sul campo” la conoscenza storica del
“fenomeno olocausto” tra i più giovani, avvalendoci dello strumento
dell’intervista - focalizzata in dieci domande, a risposta aperta (settimo
capitolo). Il questionario è stato sottoposto, alla fine del maggio 2004,
a circa trenta studenti delle ultime classi delle scuole secondarie
superiori di Civita Castellana (VT); si tratta di ragazzi/e frequentanti,
nello specifico, l’Istituto Tecnico Commerciale e per Geometri (6
alunni), il Liceo Scientifico (6) ed il Liceo Classico (17). Gli
intervistati risiedono tutti in paesi che vanno dai 16.000 abitanti di
Civita Castellana, a paesi più piccoli come Fabrica di Roma,
Carbognano, Nepi, Gallese. In coda riportiamo l’incontro con una
giovane suora ancora studente che, saputo delle interviste, ha voluto
dare il suo contributo rispondendo alle domande.
L’ultimo capitolo, l’ottavo, sarà dedicato alle conclusioni.
Ferrarotti (1996) ha sostenuto che la morte di una democrazia è
sempre e solo un suicidio. Le basi dei fenomeni dittatoriali, quali il
fascismo ed il nazionalsocialismo, sono ancora vive, esse appaiono
come motivazioni politico-istituzionali o economiche, ma sono
soprattutto culturali, “fattori tuttora diffusi e normali” (Bauman,
1992): perciò la civiltà europea non è da intendersi come un risultato
raggiunto per sempre. Inoltre, come insegna Bauman (1992, pag. 27),
va ricordato che “creazione e distruzione sono entrambe aspetti
inseparabili di ciò che chiamiamo civiltà”.
La libertà e la democrazia non si conquistano una volta
per tutte, ma vanno sorrette permanentemente da una
14
coscienza vigile, dalla partecipazione e
dall’impegno civile e culturale dei cittadini.
CARLO SPARTACO CAPOGRECO, Ferramonti – La vita e gli uomini del più
grande campo d’internamento fascista (1940-1945), Giuntina, 1987, pag. 26.
Müller Hill (1989) conviene nel ritenere che l’olocausto potrà
riaccadere, perché è la logica conseguenza dell’oggettivizzazione, cioè
del trattamento riservato agli uomini-oggetto, convertiti in numeri.
Oramai dappertutto è stata impiantata una disumana logica di mercato.
Tale trasformazione ha spazzato via usi, tradizioni, culture e religioni:
l’essere umano non è più considerato in quanto tale, ma solo per la sua
capacità d’agire all’interno della struttura capitalistica. L’ordine
mercantile si contraddistingue per le sue specifiche leggi e per avere
delle coordinate di senso e di scopo che non coincidono con le
esigenze ed i bisogni particolari delle persone. L’appiattimento e
l’omologazione al sistema mercantile sono assolutamente necessarie,
il valore di scambio è il fondamento del mondo moderno (M. Delle
Donne, 2000). Fino ad ora gli zingari sono riusciti a sopravvivere. Essi
non sono andati incontro allo stesso destino degli Incas, dei Maya,
degli Aztechi e di tutte quelle culture annientate dall’etnocentrismo
occidentale. La cultura zingara è un patrimonio dell’umanità:
l’interculturalità, la reciproca conoscenza ed il rispetto speriamo
consentano di scongiurare la fine del “mondo di mondi” rom.
L’Olocausto fu pensato e messo in atto nell’ambito della nostra società
razionale moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà e al
culmine dello sviluppo culturale e umano: ecco perché è un problema
di tale società, di tale civiltà e di tale cultura.
ZYGMUNT BAUMAN, Modernità e Olocausto, Il Mulino, 1992, pag. 11.
15
1. CENNI SUL RAPPORTO COL
MONDO ZINGARO
1.1 I nomi, le origini e le leggende
Se voglio tradurre il termine italiano “zingari” nelle varie lingue parlate in Europa,
consulto i dizionari corrispondenti; sembra non sussistano problemi: ogni lingua
ha almeno un lessema che corrisponde a quello italiano. Eppure un’analisi
semantica univoca sembra impossibile: quali sono i tratti minimi di significato, i
sèmi necessari e sufficienti che concorrono alla denotazione di “zingari”? Non ce
ne sono. Nessun tratto è indispensabile: non “nomadismo” (…), non “parlanti una
lingua diversa” (…), non “l’abbigliamento particolare” (…), non certi tratti
somatici (“pelle scura” …), non i “mestieri” eccetera.
LEONARDO PIASERE, Un mondo di mondi, 1999, pag. 42.
La categoria “zingari” non è nient’altro che una costruzione,
appunto un eteronimo, cioè una parola attraverso cui noi
identifichiamo un gruppo percepito come altro, diverso dal nostro
d’appartenenza. Come sostiene il maggiore esperto ziganologo
italiano, l’antropologo Leonardo Piasere, sia gli zingari sia i non
zingari sono due idealtipi, il frutto di costruzioni sociali create e
radicate nel corso dei secoli. Proprio sull’alterità si fonda l’identità, se
non avessimo l’opportunità di incontrare il distante, il distinto da noi,
non sarebbe affatto possibile venire a conoscenza della propria
identità.
16
L’analogia, la contrapposizione sono elementi che determinano e ci
fanno capire ciò che siamo. Piasere (1999, pp. 11-12) continua
dichiarando una sorta di vera antropologia dualista, infatti
l’invenzione degli zingari è basata sullo stigma, si riferisce ad un
insieme di persone “storicamente desocializzate, deterritorializzate,
denazionalizzate, (…) decristianizzate”. Evidentemente queste
posizioni provengono da chi considera se stesso l’opposto, l’integrato
perfetto ed il “normale”. La parola zingaro è un’eterodenominazione
piena di disprezzo, un contenitore di pregiudizio, con questa
operazione è stato tolto loro perfino il diritto su come essere chiamati.
Da qualche decennio il termine zingari è stato sostituito, soprattutto
nel linguaggio dei mass-media, da un altro termine che sembra essere
più politicamente corretto e rispettoso: nomadi.
La casa, il domicilio, è l’unica barriera contro l’orrore del caos, della notte e
dell’origine oscura; racchiude tra le sue pareti tutto ciò che l’umanità ha
pazientemente raccolto nel corso dei secoli; si oppone all’evasione, alla perdita,
all’assenza, poiché organizza il suo ordine interno, la sua civiltà, la sua passione.
La sua libertà fiorisce nella stabilità, nel contenere, e non nell’aperto o infinito.
(…) Pertanto, l’identità dell’uomo è domiciliare; ed ecco che il rivoluzionario,
colui che è senza arte né parte, e quindi senza fede né legge, condensa in sé tutta
l’angoscia del vagabondaggio… L’uomo del non luogo è un criminale in potenza.
E. KANT, in Nando Sigona, Figli del Ghetto, 2002, pp. 99-100.
Zingari quindi è anche un etnonimo, vale a dire un termine atto ad
identificare un gruppo umano contraddistinto da particolari
caratteristiche socioculturali, nella fattispecie il nomadismo, e le
qualità negative che si riconoscono in questo gruppo minoritario. Il
vasto “mondo di mondi” dell’universo Rom è davvero difficile da
17
definire seppure in linea generale, se si usa “zingari” come categoria
polietica, in altre parole mancante di tratti necessari e sufficienti, si
commette certamente un grossolano errore.
Già nel nome affibbiato loro, in italiano “zingaro”, “cingano”,
“zingano”, sono prossimi a noi, ma separati. L’etimologia accettata
oramai quasi unanimemente è athinganoi, il nome di una setta
gnostico-manichea del VII secolo diffusa in Anatolia occidentale. Il
nome della setta, composta da indovini e maghi, sembra derivi dal
greco antico “thinganein” (toccare con le dita) e quindi significa
“intoccabili”. Quindi più che una connotazione di tipo etnico, è
l’intoccabilità ciò che caratterizza e distingue gli zingari sin dal loro
arrivo in Europa. L’altro celebre eteronimo è “gipsy” (da egyptians),
diffuso nei territori anglofoni, e si riferisce ad una delle tante leggende
relative all’origine degli zingari: la presunta provenienza dall’antico
Egitto. I loro portavoce spesso si dichiaravano proprio duchi o conti
del Piccolo Egitto, gli ungheresi ancora chiamano le popolazioni
zingare il popolo del Faraone.
Le denominazioni non sono mai neutre: le etichette sono
un’espressione di quello che Foucault ha chiamato regime di verità.
“La verità è legata da una relazione circolare al sistema di potere che
la produce e sostiene, e agli effetti che essa induce e la rinforzano.”
(N. Sigona, Figli del ghetto, 2002, pag. 51)
(…) La legislazione fa vivere [lo zingaro] nell’instabilità,
e poi è detto instabile, nello squilibrio, ed è detto squilibrato.
(…) Il testo di legge si nutre dell’immagine.
L’immagine serve a razionalizzarlo.
E l’immagine vi si nutre a sua volta.