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La prima parte è dedicata alla cornice teorica che fa da riferimento al lavoro. Dopo
aver introdotto alcuni costrutti attenenti all’approccio psicoanalitico all’arte, presento
la teorizzazione freudiana relativamente all’origine del sentire perturbante e, come
esempio, espongo le riflessioni di diversi autori sul tema del doppio. Successivamente
introduco il tema centrale del presente lavoro: le trasformazioni corporee e
l’inquietudine che spesso generano (capitolo primo).
Il tema del corpo, il suo ruolo nella vita dell’individuo, la sua rappresentazione
mentale e l’immagine psichica del sé fisico, sono gli argomenti del secondo capitolo.
Le ipotesi e il metodo della ricerca esplorativa, nucleo fondamentale del testo, sono
esposti nel terzo capitolo.
La seconda parte è interamente dedicata all’interpretazione delle trasformazioni
corporee presenti in sei film proposti ad altrettanti soggetti sperimentali. Ogni opera
cinematografica, è stata analizzata in base ai costrutti teorici introdotti nella cornice e
attraverso la prospettiva dei sei spettatori, definita a partire dalle loro risposte
all’intervista semi-strutturata che ha seguito la fruizione. Parlerò dei protagonisti dei
film, caratterizzati da un’incertezza relativa alla loro natura a metà strada tra l’umano
e l’artificiale (capitolo quarto), tra l’umano e il demoniaco (capitolo quinto), tra
l’umano e l’animale (capitolo sesto).
L’ultima parte riassume le sensazioni dei soggetti sperimentali di fronte alle scene di
mutazione e le mette in relazione alla loro rappresentazione corporea, indagata
tramite una traccia di colloquio proposta da Jodelet e Ohana (1982) dell’Ecole des
Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi (capitolo settimo).
Infine presento le conclusioni alle quali sono giunto.
Alcuni immancabili ringraziamenti.
Alla prof.ssa Gabriella Maria Gilli, per avere seguito e coordinato il lavoro e, prima
ancora, per aver valorizzato la mia passione. Ai soggetti che hanno partecipato alla
ricerca, per il loro tempo e la cordiale disponibilità. A Lucia, Anna, Monica, Laura,
Fulvia, Francesco e Rosaria, per la consulenza e la collaborazione. A mio fratello
Gianpietro, per il supporto tecnico ed emotivo. Ai miei compagni di corso e, in modo
speciale, a Federica. E a tutti coloro che hanno pazientemente sopportato ritardi ed
assenze.
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cornice
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CAPITOLO PRIMO
psicoanalisi di un’inquietudine voluta
uno.uno. psicologie, arti e punti di vista
Si racconta che Leonardo da Vinci per realizzare i volti degli apostoli e di Cristo ne
“L’ultima cena” trasse ispirazione da persone reali che incontrò mentre realizzava
l’opera. Si trovò in difficoltà nella fase finale del lavoro: il Vaticano, che gli aveva
commissionato l’opera, ne sollecitava la conclusione, ma nella raffigurazione
mancavano ancora due volti, quello di Cristo e quello di Giuda. Una sera, mentre
Leonardo scoraggiato pensava che non sarebbe mai riuscito a terminare il dipinto
come avrebbe voluto, conobbe un giovane attore con un viso intenso ed innocente.
Costui posò per l’artista e sulla tela il volto di Cristo prese con estrema naturalezza le
volute sembianze. Mancava ancora il volto di Giuda. Passarono altri giorni quando, in
una notte infausta, Leonardo, passeggiando per Roma, venne assalito da un bandito
che aveva l’intenzione di derubarlo. Per buona sorte alcuni uomini si trovarono sul
posto e immobilizzarono il malintenzionato. Prima di lasciare che lo portassero in
carcere Leonardo fece qualche schizzo ispirato al volto del brigante: i suoi occhi cupi
e l’inquietante espressività di quel viso parevano perfetti per il suo Giuda. Così venne
completata “L’ultima cena”. Qualche tempo più tardi Leonardo fece visita in carcere
al bandito per comunicargli cosa ne avesse fatto del suo volto, entrato poi in
confidenza, gli promise che il giorno in cui sarebbe uscito da lì gli avrebbe mostrato il
dipinto. Quando ciò avvenne, il ragazzo di fronte all’opera rimase scosso e senza
parole. Leonardo chiese: ”Non ti piace?”. Egli rispose: ”Io ho già posato per questo
quadro quando, prima di prendere la cattiva strada, mi dilettavo a fare l’attore”.
1
Questa leggenda serve da spunto per ripensare al fatto che l’osservabile ha varie
sfumature e molto dipende dal punto di vista dell’osservatore.
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Leggenda trasmessa oralmente.
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In ambito scientifico i modelli positivisti sono andati sgretolandosi alla luce di questa
consapevolezza. La storia ci ha condotto attraverso varie tappe al mondo attuale,
quello del possibile. La logica della complessità ridisegna il tangibile e la
semplificazione è ammessa solo come lecito strumento didattico. E’ una realtà che ha
perso molti dei suoi postulati, l’era della crisi degli assiomi, il trionfo dei punti di vista.
Lo sfondo di questo lavoro è costituito da due universi connotati decisamente da
poliedricità di significati: la psicologia e l’arte.
Non esiste una psicologia, esistono invece le psicologie, differenti scuole di pensiero
con asincronie e contraddizioni spesso notevoli; non esiste nemmeno un’idea univoca
di arte e le sue estensioni sono numerose.
Avvicinando questi mondi parlando di psicologia dell’arte, il discorso non può che
complicarsi. Le domande rapidamente si moltiplicano: cosa studia esattamente la
psicologia dell’arte? Qual è il suo statuto? Quale psicologia studia quale arte?
Il rischio intuibile è di perdersi, di confondere e di confondersi; la speranza è di dare
a tutti gli elementi intervenienti una giusta collocazione, un nome.
Procedo dunque con il processo di semplificazione.
Nel presente lavoro, lo sfondo teorico è la psicoanalisi dell’arte che secondo Stefano
Ferrari riassume un po’ tutte le tensioni della psicologia dell’arte in generale a cui
prima accennavamo (Ferrari,1999).
Mi occuperò anche di cinematografia, arte giovane e molto impegnativa dal punto di
vista semiotico.
I contatti tra psicoanalisi e arte sono molti; la psicoanalisi ha trovato
spontaneamente nella creazione artistica uno straordinario ambito al quale applicare
le proprie categorie concettuali così come l’arte, la letteratura in particolare, ha
subito il fascino della psicoanalisi.
“Stimato dottore, da molti anni sono consapevole della vasta coincidenza che sussiste
tra le Sue e le mie interpretazioni di parecchi problemi psicologici ed erotici […]. Ora
può immaginare quanta gioia mi ha dato e quanto mi hanno commosso le righe nelle
quali anche Ella mi dice di aver attinto stimolo dai miei scritti.” (in Freud, 1919).
Questa potrebbe apparire una comunicazione tra due psicologi, in realtà è il
frammento di una lettera che Sigmund Freud scrisse ad Arthur Schnitzler nel maggio
del 1906 e ben dimostra la citata attrazione reciproca.
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La forma d’arte che la psicoanalisi ha maggiormente studiato è la letteratura, Freud
stesso ha ammesso la sua predilezione per questa forma di espressione
(Freud,1919).
Non si può dimenticare che Freud ha espresso le sue intuizioni attraverso il racconto
di casi clinici; le sue opere suscitarono interesse e apprezzamento prima nei circoli
letterari e solo successivamente negli ambienti scientifici.
L’attenzione si è estesa nel tempo anche al cinema. Uno dei primi lavori interpretativi
è l’analisi di Otto Rank de Lo studente di Praga opera di Stellan Rye prodotta in
Germania nel 1913 (Rank, 1914).
La psicoanalisi dell’arte guarda alla creazione come espressione dell’inconscio
dell’autore in grado di mettere in contatto clandestinamente il proprio mondo
sommerso con quello del fruitore. Arte come sogno consciamente costruito con
genesi primaria inconsapevole.
Questa premessa ha spesso portato la psicoanalisi alla produzione di lavori
patobiografici che hanno ricevuto molti attacchi sia dalla comunità scientifica che
dall’opinione pubblica. L’opera d’arte può essere lecitamente considerata
un’espressione sintomatica, ma utilizzarla come mero strumento per indagare lo
psichismo dell’artista lascia adito a molte perplessità. Problemi di questo tipo hanno
gettato un velo di sospetto sulla psicoanalisi dell’arte in toto riducendola ad
affascinante applicazione di dubbio valore.
Concretamente la psicoanalisi dell’arte non è patobiografia, nel tempo si è
conquistata un proprio statuto. E’ proprio partendo da Freud che possiamo tracciarne
le linee essenziali.
Ferrari elenca i punti della teorizzazione freudiana che giustificano il suo interesse
verso la creazione e fruizione artistica (Ferrari, 1999).
• l’arte è espressione di conflitti inconsci;
• gli artisti nelle loro opere si dimostrano abili indagatori dell’inconscio;
• l’arte è appagamento di desideri inespressi;
• l’arte ha un contenuto e uno forma; essi sono inscindibili e non si può arrivare
all’uno senza abbandonarsi all’altra;
• l’arte è sublimazione;
• l’arte si pone come ponte tra principio del piacere e quello della realtà;
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• l’arte ha radici nel pensiero magico-animistico;
• l’arte, proprio perché in grado di sottrarsi al principio di realtà, funge da difesa
e da consolazione;
• l’arte e il connesso giudizio estetico traggono origine dalla sensitività sessuale.
L’insieme di questi punti e degli approfondimenti che richiamano sono sufficienti ad
assegnare all’arte un posto di tutto riguardo tra i fenomeni indagabili dalla
psicoanalisi. Avremo modo di incontrare tutti questi aspetti nel presente lavoro.
Si ritiene che la nobiltà di un’opera d’arte non dovrebbe essere sacrificata sugli altari
delle teorizzazioni qualunque esse siano. L’opera va ammirata e amata, tollerata o
evitata, tecnicamente e formalmente conosciuta, emotivamente vissuta senza
pretese di comprensione ultima.
Credo che i lavori degli psicoanalisti siano rispettosi in questo senso a partire dai
saggi di Freud. Quella che viene offerta è un'altra prospettiva, una delle molte
possibili. Ogni osservazione ha diritto d’essere; può essere adeguata o meno, umile o
presuntuosa, può ispirare ulteriori approfondimenti, passioni, clamori oppure
rimanere fine a se stessa. In ogni caso è un altro punto di vista e come tale lecito e
innocuo.
Come un Leonardo da Vinci che, seppur leggendario, può vedere nel volto dello
stesso uomo i contorni di Cristo e di Giuda, un’opera d’arte non può essere ammirata
allo stesso tempo con gli occhi di critico, di storico, di uomo della strada o di
psicologo? E’ una questione di punti di vista, volere le riflessioni umane estese fino al
possibile.
Il percorso inizia da Freud e in particolare da un suo scritto del 1919, “Das
Unheimliche”.
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uno.due. unheimlich: il segreto violato
Nel celebre articolo del 1919 “Das Unheimlich” Freud, prima di esporre le sue
riflessioni su una particolare qualità angosciosa del sentire relativa in modo specifico
alla creazione artistica, affronta una questione terminologica centrale nel significato
del termine Unheimlich.
Il termine tedesco Unheimlich (in italiano perturbante) risulta intraducibile in molte
lingue a causa della sua ambiguità semantica di fondo che genera differenti
sfumature di significato. Nell’articolo in questione vengono riportate tutte le differenti
definizioni contenute nel dizionario di lingua tedesca di Daniel Sanders. Esse sono
riconducibili a due significati principali. Heimlich significa famigliare, conosciuto,
intimo, fidato nella prima accezione, ma può essere anche utilizzato con il significato
di nascosto, tenuto lontano da occhi indiscreti, da non far sapere ad altri. “Un-“ in
tedesco indica la negazione. Unheimlich nega entrambe le accezioni di heimlich, nel
primo caso indicando lo sconosciuto, l’alieno, mentre nel secondo con il significato di
scoperto, venuto a galla.
Questa seconda sfumatura si ricollega perfettamente al senso dell’articolo; Freud
citando Shelling definisce Unheimlich “tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere
segreto, nascosto e che invece è affiorato” (Freud, 1919).
Fenomenicamente l’Unheimlich è sperimentabile nella vita reale e soprattutto nella
fruizione artistica come una qualità specifica del sentire così come lo è il sublime
negli studi di estetica. Freud passa in rassegna tutti i principali fenomeni che hanno
un effetto perturbante. Essi sono:
• il motivo dell’automa;
• tutte le forme di doppio (vedi paragrafo uno.tre.);
• la ripetizione di eventi consimili;
• la realizzazione immediata di desideri;
• la figura dello iettatore, il malocchio;
• le tematiche di morte;
• la malattia psichica.
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Ad ognuno di essi, dopo l’analisi di esempi tratti dalla letteratura ma anche dagli
eventi insoliti che a volte accadono, Freud applica l’ipotesi interpretativa secondo la
quale l’esperienza angosciosa sarebbe dovuta a qualcosa di rimosso che ritorna;
l’effetto perturbante sarebbe riconducibile a residui infantili nello psichismo adulto.
Ecco spiegata l’importanza della questione terminologica: l’Unheimlich è stato in
passato qualcosa di famigliare (heimlich, prima accezione), ma poi la rimozione ha
reso questo qualcosa celato, nascosto (heimlich, seconda accezione); la sua
attualizzazione nell’ hic et nunc genera l’effetto perturbante, l’Unheimlich, il segreto
violato. “Il prefisso un- è il segno della rimozione” (Freud, 1919).
Il perturbante sorge, inoltre, quando sperimentiamo un’incertezza intellettuale,
quando cioè ci troviamo di fronte a fenomeni per i quali abbiamo avuto in passato
avuto dubbi relativi alla loro natura, dubbi risolti grazie a spiegazioni razionalistiche
delle quali nel presente, causa lo stimolo perturbante, non siamo più sicuri. E’
un’antica incertezza che si ripresenta. “Ora, non appena nella nostra esistenza si
verifica qualcosa che sembra confermare questi antichi convincimenti ormai deposti,
abbiamo il senso del perturbante” (Freud, 1919).
Non tutti i motivi perturbanti presentati hanno tale effetto. Come sottolinea Freud,
molto dipende dalla capacità del fruitore di lasciarsi coinvolgere dall’opera,
dall’intensità delle sue evocazioni e, aspetto fondamentale, dalle abilità dell’artista.
Nella favola per esempio i mondi nei quali gli scrittori ci conducono abbandonano
volutamente l’ancoraggio alla realtà rendendo situazioni straordinarie perfettamente
consuete. Se invece il poeta presenta al fruitore un contesto tutto sommato credibile
per poi ambientarvi fenomeni meno probabili (i motivi perturbanti) l’effetto che si
ottiene è decisamente diverso (Carotenuto, 2002).
E’ la mano dell’artista, il suo condurci in dimensioni più o meno consciamente volute.
In ambito letterario lo scrittore ad esempio può costruire una trama inquietante
attraverso un’evoluzione dosata della tensione nel susseguirsi degli eventi. Nella
pittura lo stesso effetto si ottiene, per esempio, tramite un uso ardito del colore,
intensità inaspettate della pennellata, equilibri giocati fra luci ed ombre. Nel cinema
vi è un concetto tecnico: la sutura. Come spiega Gabbard la sutura deriva da una
metafora medica e sta ad indicare il montaggio “chirurgico” delle cesure filmiche in
modo da inserirvi lo spettatore (Gabbard,1999).
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E’ un’operazione che consiste nel far vivere allo spettatore la storia rappresentata in
maniera predeterminata sfruttando la sequenza di inquadrature che limita il campo
visivo a ciò che si vuole venga visto. Lo spettatore si lascia guidare senza difese in
questo mondo di scorci già decisi, si abbandona alla trama tessuta dal regista e
dall’editor e da essa si lascia fascinare.
Questa riflessione ci permette di introdurre un costrutto fondamentale in psicoanalisi
dell’arte: la coscienza dell’illusività. E’ un fenomeno che interessa sia l’artista che il
fruitore.
I protagonisti della dinamica artistica cedono il passo alla finzione permettendo alla
coscienza di abbandonare le sue stasi.
La coscienza dell’illusività è una sorta di negazione preventiva che concede ai
contenuti rimossi di inserirsi senza danno apparente sia nel processo di creazione che
di fruizione. Emozioni occultate dall’Io trovano nell’arte un ambiente protetto per
esprimersi liberamente. Queste emozioni possono avere valenze edoniche differenti.
Nel caso del perturbante gli affetti liberati sarebbero “repellenti e penosi” (Freud,
1919).
Nel processo secondario dello spettatore si insinua uno squarcio che lascia l’Io
indifeso di fronte alla rappresentazione come avviene in maniera netta negli eventi
traumatici in cui la capacità di elaborazione dell’individuo viene meno.
Quel che Freud tralascia però in questa appassionante analisi è “il sotterraneo
legame del perturbante con il piacere” (Carotenuto, 1997) . L’inquietudine scatena
una costellazione di sentimenti negati accompagnati da un’ambigua attrattività che
crea un equilibrio dinamico tra godimento e repulsione. In questa dinamica la
coscienza dell’illusività ha un ruolo basilare. “La questione del piacere legato a questa
particolare esperienza del perturbante –l’esperienza ‘protetta’ della finzione letteraria-
è connessa alla possibilità data all’Io di controllare e dominare il fantasma. Qualsiasi
esperienza ‘penosa’, se vissuta con la garanzia di uscirne indenni, è già di per sé
‘diletto’” (Carotenuto, 1997).
Quest’appunto è fondamentale per il nostro lavoro: le opere cinematografiche che
prenderemo in considerazione sono per alcuni aspetti decisamente perturbanti, ma
allo stesso tempo dotate di un fascino speciale.
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Il piacere che ne suscita la fruizione deriva dal fatto che ci troviamo in un contesto
fittizio che, se abbassa le difese rendendo possibile l’esperienza perturbante, dà allo
spettatore la garanzia di farlo in un ambiente protetto dove tutto possiamo provare
senza che nulla accada realmente.
Senza ripari nello studio delle difese abbattute, lasciamoci fascinare dal piacere
estetico dell’inquietudine.
Heimlich-Unheimlich. Il gioco di significati di questi termini è già di per sé
perturbante.
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uno.tre. altri sé
Ripercorriamo brevemente le ipotesi interpretative di Otto Rank, in primis. e di altri
autori sul tema del doppio, sia per esporre un effetto perturbante fra i più ammalianti
e studiati, sia per cogliere parallelismi significativi con quello delle trasformazioni
corporee che ci proponiamo di disquisire.
Il testo “Der Doppelganger” di Otto Rank inizia con una disanima delle opere
letterarie che descrivono le varie sfumature del doppio.
La tendenza ad affrontare l’analisi dell’arte in termini patobiografici, comune a molti
psicoanalisti, è presente anche in questo saggio: vi è un’intera parte dedicata alle
biografie di Maupassant, Hoffmann, Poe, Dostoevskij ed altri, alla ricerca di linee
comuni fondanti le personalità di questi scrittori con il fine di spiegare, tramite
queste, la capacità e l’esigenza di suscitare con tanta abilità particolari situazioni
perturbanti. “Le analogie […] spiegano sul piano psicologico […] perché i nostri
scrittori abbiano prediletto il tema del doppio” (Rank, 1914).
A questo riguardo Fausto Petrella, comprovando lo scetticismo che circonda i lavori
patobiografici, osserva che questa è la parte più invecchiata del saggio e che il
tentativo di individuare negli artisti una patologia psichica costante e comune è
piuttosto deludente (Petrella, 1986).
Grande entusiasmo ha suscitato invece la parte dedicata allo studio antropologico e
culturale sull’origine delle credenza per le quali l’ombra, il ritratto, l’immagine allo
specchio e il sosia, sarebbero riproduzioni del Sé, manifestazioni dell’anima, preludio
a eventi significativi o alla morte.
L’esperienza del doppio trae origine secondo Rank da fissazione o da regressione allo
stadio del narcisismo primario vissuto da ognuno di noi nella prima infanzia: consiste
nella fusione del bambino con la madre, situazione che gli dà un senso di
onnipotenza e lo rende incapace di sperimentare l’esperienza di separatezza dal
mondo esterno.
La costruzione dell’Io infantile è caratterizzata da un’iniziale angoscia dovuta al
distacco ed ha successo tramite “un’esperienza che si colloca tra il distacco doloroso
dall’oggetto narcisisticamente assimilato e l’angoscia per l’estraneo, tappe che
segnano la strada dell’individuazione” (Petrella, 1986).
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Il contatto con il doppio rimanda, in qualche modo a difficoltà relative ai passaggi ora
citati: non ha superato la stadio dello specchio nel quale l’infante impara a
riconoscere se stesso nella sua immagine riflessa vivendo così l’esperienza
d’individuazione come essere unico separato dalla madre. “L’insorgenza del doppio
assicura ogni volta al protagonista il mantenimento dell’illusione onnipotente, la
sospensione del tempo oggettuale, l’esenzione dai limiti della realtà” (Aparo, 1986).
L’individuo che nella finzione letteraria vede la propria immagine replicarsi e condurre
una vita autonoma si trova nella condizione di non riuscire a creare quel posto per
l’altro di cui parla Di Chiara in un suo articolo:”Se ad ogni esperienza d’incontro
avviene una confusione tra l’Io e il non-Io […] avremo l’esperienza soggettiva del
narcisismo: io sono il mondo, io sono l’altro. Per questo la funzione principale dell’Io
nello sviluppo mentale è fare dentro di sé un posto per l’altro” (Di Chiara, 1985).
Nelle opere considerate da Rank i personaggi sono spesso concentrati su loro stessi,
egoisti, incapaci di provare amore e con una vita sessuale anomala. Fra il
personaggio e il suo doppio vi è intensa similarità formale. L’altro sé è
contemporaneamente percepito come intimo ed estraneo, minaccioso, in quanto
diventa la figura sulla quale proiettare tutte le pulsioni e quegli istinti inaccettabili per
il Super-Io. L’Io narcisista e il suo doppio, temendo l’annientamento, hanno un
ossessivo timore della morte.
Nel materiale folkloristico, paradossalmente, il doppio è avvertito spesso come
presagio di morte e sventure e nelle opere artistiche il personaggio perseguitato dal
proprio doppio solitamente finisce con l’eliminarlo, uccidendo in questo modo anche
se stesso. Rank spiega questo paradosso fra il timore della morte e l’epilogo mortale
ricordando che il narcisista più che temere la sua inevitabile fine, non tollera
l’angoscia causata dall’attesa di quel giorno e preferisce evitarla tramite il suicidio.
Secondo Freud la paranoia è un altro aspetto della fissazione al narcisismo. Con il
meccanismo di difesa della proiezione, l’Io narcisista svela “una tipica megalomania,
la sopravvalutazione sessuale del proprio Io” (Rank, 1914) con una regressione alla
fase dell’omossessualità sublimata.
Autoconservazione, spinta al cambiamento, volontà d’instaurare relazioni oggettuali e
poi la formazione del doppio, l’angoscia persecutoria che l’accompagna, il tentativo di
superarla, l’ambivalenza comportamentale e infine la ricerca della pace attraverso
l’annientamento.
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Ecco elencati gli aspetti principalmente ricorrenti nella formazione del doppio, il
rimosso origina la creazione e ritorna silenziosamente nella fruizione delle opere
d’arte nelle quali compare.
E’ interessante constatare che queste particolarità si presentano anche nella vita
reale e nel setting analitico (Funari, 1998).
Come visto il solo motivo perturbante del doppio apre scenari e riflessioni
impegnative.
E’ giunto il momento di calibrare in maniera ancor più accurata il nostro focus
d’osservazione e introdurre un motivo perturbante specifico e sottile: le
trasformazioni corporee.
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uno.quattro. quando il corpo cambia
Una giovane donna in fuga sta facendo la doccia in un desolato motel dell’Arizona.
Qualcuno entra in bagno e attraverso il telo della doccia non riusciamo ad intuirne i
contorni. Marion Crane viene assassinata da Norman Bates nella finzione filmica.
E’ la scena madre di Psyco opera indimendicata di Alfred Hitchcock del 1960.
“In assoluto Psyco resta uno dei film più paurosi ed imitati. La famosa scena
dell’omicidio nella doccia è diventata prima una citazione d’obbligo poi uno
stereotipo” (Lusardi, 2000).
I motivi che rendono il capolavoro di Hitchcock tanto inquietante sono molteplici.
Innanzitutto la costruzione della trama che ci coinvolge nel furto di 40.000 dollari
della protagonista per poi condurci senza indizi al vero tema del film che tratta
inaspettatamente un reato ben più grave e violento. Lo spettatore è trascinato in
cambi di prospettiva senza soluzione di continuità nei quali la particolare sutura di
Psyco rende la macchina da presa dittatrice dello sguardo.
La scena della doccia è particolarmente toccante. Secondo Gabbare, Hitchcock
“profanò perversamente il tempio americano dell’igiene personale trasformandolo in
un luogo in cui da allora nessuno si è più sentito davvero al sicuro” (Gabbard, 1999).
Motivo di inquietudine è il reato stesso e la mancata identificazione dell’assassino.
Norman e mamma Bates paiono fin dall’inizio coinvolti, ma precisare ruoli e
responsabilità non è possibile ed è forte le sensazione che ci sia dell’altro nello strano
rapporto fra i due sinistri personaggi che abitano la casa vicino al motel.
La scoperta del fatto che ad uccidere Marion è stato Norman indossando gli abiti
della madre ed identificandosi con essa, più che rappresentare un insight
ammaliante, precipita lo spettatore in un vortice di sensazioni perturbanti.
Esquire, in linea con la propria impostazione ideologica, recensì duramente il film
definendolo il “riflesso di una mente meschina, cattiva, vile e sadica” (Ferrari,2000).
Hitchcock colpiva nel segno e inseriva nella storia del cinema un’opera registicamente
perfetta, di grande successo e negli anni, qualche stroncatura a parte, poche per la
verità, non ha perso il suo smalto.
L’aspetto fortemente perturbante di Psyco si concentra principalmente sul
personaggio di Norman Bates, reso perfetto dalla vissuta performance di Anthony
Perkins.