2
il problema, secondo Rusconi, di trovare nuovi miti identitari dell’opinione pubblica.
A questo scopo l’Europa e la Nazione appaiono i due principali candidati. Rispetto al
passato si accresce il peso degli orientamenti di massa rispetto a quelli filtrati dal
sistema dei partiti ormai deboli e delegittimati. Senza dubbio questo riflette, come ha
sottolineato Isernia, un cambiamento del rapporto fra i partiti e opinione pubblica. Se
in passato era l’influenza dei partiti a condizionare gli umori della piazza ora sono i
politici che devono interpretare gli orientamenti dell’opinione pubblica. Cambia il
ruolo della piazza
1
, il luogo deputato tradizionalmente, nel nostro paese, alle grandi
mobilitazioni di massa a favore o contro la guerra, viene sostituita dai nuovi mezzi di
comunicazione: piazze virtuali e telematiche, altrettanto ricche di mercanti e
imbonitori.
L’attenzione della mia ricerca si concentra, principalmente, sulla disamina della carta
stampata italiana, in cui si è riproposto l’eterno scontro, che ha caratterizzato tanti
momenti della nostra storia, tra pacifisti e interventisti, non tralasciando di
considerare il ruolo del mezzo televisivo in una guerra che prima di tutto è stato un
evento mediatico. Ma accanto ai mezzi tradizionali di confronto, il dibattito sulla
guerra del Golfo ha evidenziato, da parte di alcuni giornalisti e intellettuali, la
tendenza a manipolare memorie storiche per costruire un consenso intorno alla
guerra. L’uso della storia che avviene, nel dibattito sulla crisi, non è, secondo
Gallerano, quello che si interroga sugli eventi per proporre nuove chiavi di lettura che
consentono di interpretare il presente, ma quello che stabilisce analogie forvianti e
1
Mario Isnenghi, I luoghi della memoria, Bari, Laterza,1997, da pag 43 a pag 52
3
che appiattisce sull’oggi la profondità e la complessità del passato. Il rimando storico
che viene fatto, sulla carta stampata, è principalmente alla seconda guerra mondiale,
paradigma nella nostra coscienza della guerra giusta. Si paragona il dittatore iracheno
a Hitler, archetipo nell’immaginario collettivo delle forze del male all’opera nella
storia, si criticano i pacifisti accusandoli di comportarsi come gli stati europei che alle
soglie della seconda guerra mondiale si erano dimostrati attendisti nei confronti della
crescita del nazismo. Anche il crollo dell’URSS, poi, viene piegato alle esigenze di
interpretazione del presente e letto come data d’avvio di un processo di
democratizzazione, attraverso l’ONU, nella soluzione delle controversie
internazionali. Ancora più interessante è l’uso degli stereotipi
2
storici che vengono
messi in campo. Si tratta di luoghi comuni che tendono a trasferire di peso
atteggiamenti, argomentazioni del passato nel presente, cancellando la memoria dei
loro effetti concreti attraverso una procedura analogica che nega qualsiasi possibilità
di riflessione critica del passato. Gli stereotipi sono quelli classici: la brevità della
guerra, la precisione chirurgica dei bombardamenti che rimuove la morte dei civili
come mezzo per sedare le coscienze sociali, la necessità di risolvere quel conflitto per
evitarne un altro più distruttivo.
E’ bene segnalare che il mutamento del quadro generale italiano e mondiale, non
poteva non ripercuotersi anche sulle considerazioni del nostro recente passato. I
grandi eventi, simboleggiati dalla caduta del muro di Berlino, hanno accelerato in
Italia la duplice crisi del sistema politico e dell’identità nazionale. Sempre i momenti
2
Nicola Gallerano, Le verità della storia, Roma, Manifesto libri, 1999 da pag 116 a pag 132
4
di crisi riattivano l’elaborazione che del passato fanno sia la memoria che la ricerca
storica, sospingendola su nuove strade e costringendole a cercare nuovi equilibri.
Questo fenomeno di per sé sintomo di vitalità, genera talvolta, come ha evidenziato
Pavone, almeno in Italia, la tentazione di imboccare la pericolosa scorciatoia di un
meccanico ribaltamento di posizioni e di giudizi. Questo è ciò che è avvenuto nel
nostro paese nel periodo che abbiamo preso in considerazione. Infatti, parallelamente
alla guerra del Golfo, sulla carta stampata e nelle sedi accademiche, si consuma una
lotta che mette in discussione la Resistenza e i valori antifascisti alla base della nostra
stessa identità nazionale. La formula, della quale si è certo retoricamente abusato,
della <Repubblica fondata sulla Resistenza>, sembra quasi capovolgersi in quello
della <Resistenza come vizio d’origine della Repubblica>
3
. La giusta richiesta di
riconsiderazione e di approfondimento di un evento come la Resistenza, che per
troppo tempo era stato sacrificato all’altare dell’equilibrio politico interno e chiuso
nella superficialità dei cerimoniali ufficiali, rischia di trasformarsi nella tesi di un
vulnus senza rimedio inferto all’identità nazionale, così da minacciarne la stessa
sopravvivenza. La crisi politica e istituzionale che il nostro paese vive nel periodo
post guerra fredda è solo il sintomo di un malessere più profondo, determinato dalla
crisi della nostra identità collettiva, come ha evidenziato Lanaro, dovuto
principalmente all’uso spregiudicato che la politica ha sempre fatto della storia,
privandoci della possibilità di maturare una reale coscienza del nostro passato.
3
Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità della resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pag 1 a
pag 16
5
L’uso o meglio l’abuso che viene fatto dai giornali italiani di determinate categorie
storiche propone un altro problema importante: la proliferazione delle sedi in cui le
rappresentazioni del passato sono prodotte. Il rapporto fra memoria e storia
4
è antico
quanto le società storiche. Ciò che vi è di nuovo oggi, secondo Revel, è il carattere
quasi ossessivo che ha assunto la memoria nella nostra società. E’come se le nostre
società fossero diventate delle imprese produttrici di storia, che impiegano buona
parte della loro narcisistica attività a riflettere sui mezzi per fissare la loro immagine
mentre sono ancora viventi. Viviamo in curiose società, che da un lato, sono
ossessionate dalla loro memoria, ma che dall’altro sono ampiamente ignoranti della
loro storia. L’aumento delle sedi di rappresentazione della storia: riviste divulgative,
televisione, cinema, non fanno altro che rendere gigantesche le fratture
5
fra i territori
della storiografia “seria”e quelli della divulgazione.
Un’altra operazione effettuata dai mass media è stata quella di far coincidere il
nemico politico e militare, in questo caso Saddam Hussein, con il concetto di male in
assoluto. I mezzi di informazione hanno cercato di alterare i termini della questione,
trasformando una guerra in una vera e propria crociata e un tiranno del sud del mondo
in un nemico dell’umanità al fine di conferire una dimensione etica di un certo
spessore ai motivi alla base del conflitto stesso. Ma la contrapposizione con un
nemico esterno nella storia dei popoli ha avuto sempre il fine di rafforzare la
solidarietà interna, secondo il meccanismo psicologico del “capro espiatorio”, per cui
ci si sente più uniti contro qualcuno che per qualcosa. Ed è ciò che è avvenuto anche
4
Jaques Revel, La memoria e la storia, in www.rai.it
5
Salvatore Lupo, La battaglia delle storie, in “Bollettino d’Ateneo”, giugno, 2003, da pag 52 a pag 53
6
nel periodo della crisi del Golfo. L’enfatizzazione della figura di Saddam Hussein
come nemico dell’umanità è stato funzionale ad accrescere la solidarietà delle
nazioni, dopo la fine della guerra fredda, e a avvalorare il progetto di un “nuovo
ordine mondiale”.
A mio parere è evidente come i mezzi di informazione, durante la guerra del Golfo,
abbiano sezionato al microscopio le nostre memorie, non per avvalorare una seria
ricerca storica, ma per porre in risalto la loro componente emozionale in modo da
avere un impatto maggiore sull’immaginario pubblico. La storia, quindi, entra di
diritto nella logica del grande circo mediatico attraverso la spettacolarizazzione di
eventi traumatici, come l’olocausto e il nazismo, ancora vivi nell’inconscio comune.
Porre l’accento, sul carattere emotivo di questi eventi, non permette all’opinione
pubblica di rielaborare il suo rapporto problematico con il passato, da un punto di
vista razionale, per prendere le giuste distanze da eventi che dovrebbero essere
ricontestualizzati nel loro alveo storico naturale in modo da non essere più usati come
parametro per giudicare la differenza fra il bene il male. La guerra del Golfo
inaugura, quindi, una nuova stagione in cui cancellazione del passato e ipertrofia de
riferimenti storici vanno di pari passo
6
.
6
Nicola Gallerano, Le verità della storia, pag 116 cit.
7
1. CAPITOLO – DISAMINA DEGLI ARGOMENTI TRATTATI DAI GIORNALI
1.La storia del conflitto fra Iraq e Kuwait
La notte del due agosto 1990 Saddam Hussein presenta, ai paesi occidentali
consumatori di petrolio e ad ai loro alleati mediorientali,il conto per gli otto anni di
guerra con l’Iran. Il prezzo da pagare è l’occupazione del Kuwait, uno degli snodi
principali nell’organizzazione geoeconomica internazionale
7
.
Ma l’invasione del regno degli emiri Sabah è il più recente capitolo del sanguinoso
romanzo del Golfo che da anni vede protagonisti i due paesi mediorientali. La data di
inizio risale al 1899
8
, anno in cui, lo sceicco e la Gran Bretagna siglarono un accordo
segreto di protezione nonostante il Kuwait fosse formalmente parte integrante
dell’impero Ottomano. L’Inghilterra riservandosi di rappresentare lo sceiccato, su
scala internazionale, acquisisce un’influenza decisiva su uno snodo commerciale di
straordinaria importanza e sugli enormi giacimenti di petrolio della regione. Dopo
numerosi contrasti, Gran Bretagna e Turchia firmarono un accordo, in base al quale,
quest’ultima riconosceva il protettorato inglese sugli emirati che si affacciavano sul
Golfo Persico.
L’Iraq, il paese direttamente confinante con il Kuwait, ha sempre considerato questo
atto di forza della Gran Bretagna, come una mutilazione del suo territorio e molto
spesso il piccolo emirato è stato mira delle ambizioni irredentiste dei governi iracheni
che hanno cercato attraverso le invasioni del Kuwait di offrire un diversivo panarabo
7
Bernardo Valli, Il ladro di Bagdad, La Repubblica, 3 agosto 1990
8
Fabio Andriola, La lunga notte dell’informazione, Roma, Settimo Sigillo, 1992, da pag 27 a pag 43
8
all’opinione pubblica per far passare in secondo piano le grosse difficoltà di politica
interna.
L’Iraq aveva già tentato di far valere i suoi diritti sul Kuwait nel 1939 sotto il re
Ghazi, sotto Nuri Said e nel 1961 durante il governo di Kassem. Nel 1977, dopo
l’ennesima crisi, è stato firmato un trattato, fra i due paesi, che dava una definizione
di massima delle frontiere. A parte le rivendicazioni storiche, il Kuwait è sempre
stato geopoliticamente indispensabile a Bagdad per diventare la prima potenza del
Golfo: il suo territorio allarga lo sbocco dell’Iraq sul mare, altrimenti ridotto a un
semplice corridoio e il controllo dei suoi pozzi di petrolio fa dell’Iraq un paese
produttore secondo soltanto all’Arabia Saudita
9
.
Ma le continue incursioni dell’esercito iracheno sul territorio dell’emirato sono la
prova tangibile non della forza, ma della debolezza di questo popolo dalla cui storia
traspare un forte desiderio di revanchismo per non aver saputo sfruttare tutte le
potenzialità strategiche ed economiche del suo territorio per rendere il giusto tributo
agli antichi fasti del passato. L’Iraq odierno, infatti, corrisponde all’antica
Mesopotamia, culla della civiltà dei sumeri, degli accadi, dei babilonesi, civiltà a cui
l’umanità deve la scrittura il calcolo e le sue prime città. Quando nel 1638, il
territorio iracheno venne inglobato nell’impero ottomano si aprì il lungo capitolo
delle invasioni e delle dominazioni straniere.
Per comprendere le tragedie che questo paese conosce da decenni bisogna, infatti,
risalire alla nascita dello stato iracheno
10
.
9
Bernardo Valli, Il ladro di Bagdad, La Repubblica, 3 agosto 1990
10
Pierre-Jean luizard, La questione irachena,Milano, Feltrinelli,, 2003, da pag 13 a pag 85
9
Uno stato, posto fin dalla sua nascita, sotto il mandato della Gran Bretagna.
L’istituzione dei mandati che avviene con gli accordi Sikes-Picot, venne presentata
come una missione di civilizzazione che attingeva alle forze dell’universalismo
illuminista. I mandati, invece, riprendono la pratica ereditata dal dispotismo
illuminato, mirante a fare il bene del popolo anche contro di esso. Durante la seconda
guerra mondiale, in Iraq come in tutto il Medio Oriente sono molti a protendere per la
Germania hitleriana, nella speranza che la sconfitta degli alleati permetterà loro di
liberarsi dal dominio britannico.
Gli Inglesi hanno voluto fare dell’Iraq un paese moderno secondo i criteri europei. Lo
hanno dotato di un esercito all’avanguardia di tecnologie avanzate. Ma era un paese
dai confini artificiali dominato da una minoranza sunnita che non era espressione
della maggioranza sciita della popolazione. Un paese in cui il nazionalismo arabo era
stato imposto, come elemento di coesione di una società caratterizzata da forti
divisioni etniche e confessionali. La missione civilizzatrice degli inglesi è consistita,
quindi, nel manipolare l’identità di questo popolo distruggere l’ordinamento
tradizionale e imporre il sorgere di una società autarchica e nazionale
11
. Ma è nella
dominazione della minoranza sunnita della popolazione da ricercare la causa della
continua instabilità politica di questa nazione che non è mai riuscita a realizzare un
reale processo democratico. La repubblica di Kassem ha destabilizzato il fragile
equilibrio imposto coattivamente dai britannici, ha eliminato le vecchie élite della
monarchia hashemita, ha permesso la liberazione di movimenti a lungo repressi, ma
11
G.E.Von Grunebaum, L’islamismo dalla caduta di Costantinopoli ai giorni nostri, Storia universale Feltrinelli,
Milano 1972, pag 428
10
non è stata capace di formare nuove élite nazionali stabili.
In questa situazione, le organizzazioni di solidarietà regionali arabo-sunnite, originate
nelle piccole e medie città di provincia, sono diventate le custodi del sistema politico.
Proprio appoggiandosi a queste solidarietà un certo numero di clan locali tenta di
penetrare nel partito Bath.
Il più importante di questi gruppi sono i Takriti. Ed è tra le file di questo clan
proveniente dalla provincia del Tikrit che si forma la figura di Saddam Hussein. Gli
anni della sua ascesa al potere sono contrassegnati da avvenimenti destabilizzanti per
il mondo arabo come la guerra dei sei giorni nel 1967, la morte di Nasser nel 1970 e
l’acuirsi del conflitto arabo-israeliano.
Negli anni’70, in piena crisi petrolifera, il governo iracheno, decide di nazionalizzare
le sue risorse petrolifere. Forma con la Libia e lo Yemen il cosiddetto “Fronte del
rifiuto”contro la proposta sostenuta dall’Egitto di Sadat di una soluzione diplomatica
del conflitto arabo-israeliano. Quindi decide di assumere una politica controcorrente
che la condanna all’isolamento politico e diplomatico. Ma sarà la vittoria di
Khomeini in Iran a determinare una svolta nella politica regionale irachena verso
posizioni più favorevoli alla linea centrale del consenso arabo e a proporsi con
l’attacco all’Iran, come difensore degli interessi arabi e degli equilibri nel Golfo. Per
l’Iraq il conflitto iraniano sarebbe dovuto essere quello che per l’Egitto nasseriano era
stato il conflitto arabo-israeliano, un modo di consolidare la sua leadership nel mondo
arabo
12
.
12
Pier Giovanni Donini, I paesi arabi dall’impero ottomano agli stati attuali, Roma, Editori riuniti, 1989, da pag 175 a
pag 184