3
sua personale preoccupazione si saldava all’impegno di singole personalità che,
nonostante il declassamento cui andarono incontro le locali istituzioni educative a fine
Settecento, si adoperarono perché la formazione artistica che poteva fornire Ferrara
fosse comunque dignitosa. E’ in questo contesto che si colloca l’iniziativa di Giuseppe
Saroli
5
, promotore della scuola di Disegno e Ornato avviata nel 1811, da lui concepita
come una vera accademia grazie anche al trasferimento di cospicue collezioni artistiche
in locali adiacenti a quelli in cui si svolgevano le lezioni. Chiusa a seguito della
Restaurazione e quindi riaperta nel 1819, la scuola potè sempre contare sul sostegno
dello stesso Municipio impegnatosi, sin dall’epoca napoleonica, nell’erogazione di
sussidi che permettevano ai giovani di perfezionarsi nelle accademie di Roma, Venezia
o Firenze. A fianco di tali iniziative istituzionali, per molte delle quali lo stesso Cicognara
venne richiesto di un parere, vi era poi la nascita di un collezionismo e mecenatismo
privato, concretizzatosi nella frequente promozione di imprese decorative all’interno
delle dimore dei nuovi ricchi.
6
L’evidente intento auto - celebrativo che ispirava queste
commissioni aveva il positivo effetto di dare un seguito al filone della pittura decorativa
che a fine Settecento aveva richiamato a Ferrara numerosi frescanti, impegnati nei cicli
pittorici di chiese e palazzi cittadini
7
.
Ma, nonostante il fervore di commissioni profane e religiose, non spettava certo alla
pittura decorativa - modellata sulla grande tradizione del Seicento emiliano - il compito
di risollevare la pittura locale che, accogliendo le richieste della stessa società, decise di
splendere grazie al riflesso ancora emanato dai capolavori artistici del periodo estense.
In linea con la progressiva affermazione di temi tratti dal passato medievale e con la
riscoperta del purismo di Raffaello
8
, la città padana si volse alla florida stagione
quattrocentesca: con scrupolo filologico si studiavano opere alle quali si chiedeva
l’impulso necessario ad avviare una nuova ed altrettanto fiorente tradizione artistica.
Solo recenti studi hanno consentito una più puntuale e corretta messa a fuoco
5
Per notizie sull’artista cfr. SCUTELLARI 1893, pp. 39 – 40; CECCON 1995, pp. 254 – 255;
SCARDINO
(1)
1995, p. 148; idem 2003, p. 36.
6
Per l’inquadramento generale della pittura dell’Ottocento ferrarese cfr. MARTINELLI BRAGLIA 1990,
pp. 263 – 266; VARESE 1991, pp. 89 – 97. Al riguardo sono inoltre di particolare importanza gli interventi
riportati in Un museo in mostra 1994 (s.p.); GENTILI 1995, pp. 253 – 276; SCARDINO 1995, pp. 145 –
237.
7
All’inizio del secolo le stanze del palazzo Nagliati – Braghini venivano decorate da Felice Giani con
scene mitologiche ed episodi tratti dai poemi omerici; l’esempio di questo artista verrà seguito da
Francesco Migliari che alternò la sua prevalente attività di scenografo all’esecuzione degli affreschi di
palazzo Camerini; cfr. MARTINELLI BRAGLIA 1990, pp. 263 - 264.
8
L’Urbinate verrà criticato dallo studioso ferrarese Camillo Laderchi che negli scritti redatti attorno alla
metà del secolo ne sosterrà l’inferiorità rispetto al Garofalo a causa del paganesimo che l’aveva spesso
ispirato: cfr. TOFFANELLO 1994 (s.p.). Al contrario l’ispirazione religiosa delle opere del ferrarese sarà il
motivo dell’accusa di neoguelfismo di cui viene tacciata la locale pittura ottocentesca (MARTINELLI
BRAGLIA 1990, p. 264).
4
dell’Ottocento locale, che riportando alla luce un notevole numero di “minori”, hanno
permesso di liberare questo periodo da un’ accusa di decadenza rivelatasi tanto più
ingiustificata se si pensa che nella riflessione sul proprio passato la città si rivelava
totalmente al passo con le mode artistiche del resto della Penisola. La rivalutazione del
Quattrocento locale aveva preso le mosse dall’acquisto, da parte del Comune, delle
numerose opere confiscate a chiese e conventi in età napoleonica che vennero
organizzate in una galleria per permettere agli aspiranti artisti di studiarle e copiarle. Se
imprescindibile rimaneva il viaggio di studio verso realtà culturalmente più vivaci, i
giovani pittori potevano comunque contare su una formazione di base improntata ad un
recupero dei Primitivi ferraresi che rasentava l’ossessione: decisiva in questo senso fu
la scoperta degli affreschi di Schifanoia compiuta dal già citato Giuseppe Saroli
all’inizio del secolo. Ticinese di nascita, l’artista si trasferì a Ferrara per dirigere la Civica
scuola di Disegno e Ornato: Girolamo Scutellari lo ricorda come «precettore di numerosi
giovani fra i quali molti divennero artisti di merito», aggiungendo che «Possedeva vaste
cognizioni di storia, di lettere, di archeologia; e la sua raccolta di quadri antichi prova
come fosse fornito di cognizioni sulle varie maniere delle scuole.»
9
Saroli riuscì infatti a
raccogliere una vasta collezione di opere di Primitivi che probabilmente sottoponeva ai
suoi alunni perché copiandole potessero apprendere i primi rudimenti dell’arte. Questo
tipo di esercitazione, piuttosto comune nel curriculum di ogni formazione accademica
10
,
oltre ad avere evidenti connotazioni municipalistiche, si basava sull’esaltazione di
Benvenuto Tisi da Garofalo, considerato genio della pittura locale venerato per tutto il
secolo. La sua arte era considerata perfetta poiché riassumeva disegno romano,
colorito veneto e chiaroscuro emiliano
11
: inevitabile quindi che i giovani pittori ferraresi
venissero educati sulle sue opere. La scuola di Saroli divenne dunque il fondamentale
(ed unico) trampolino di lancio di quegli aspiranti artisti che poi, volendo proseguire
nella carriera intrapresa, erano costretti ad un “esilio volontario” per completare e
perfezionare i propri studi. Questa circostanza venne certamente incentivata dalla
nomina di Leopoldo Cicognara a Presidente dell’Accademia veneziana avvenuta l’11
aprile 1808. Dal momento in cui prese le redini dell’istituzione lagunare, il ferrarese si
adoperò per un suo rapido ammodernamento: «Molti vantaggi e progressi ottenne
quell’istituto dall’intelligenza, e dalle cure del Cicognara. Ne ampliò i locali, provvide
materiali d’istruzione, scelse molti professori; istituì premi, acquistò preziosi dipinti, onde
9
Cfr. SCUTELLARI 1893, p. 40.
10
VARESE citato in TOFFANELLO
(1)
1994 (s. p.).
11
Cfr. TOFFANELLO
(1)
1994, (s. p.).
5
fu chiamato padre e fondatore dell’accademia di Belle Arti di quella città.»
12
Come
evidenzia Scutellari, una delle principali preoccupazioni del conte ferrarese, oltre ad
essere la tutela del patrimonio artistico lagunare, fu quella di mettere a disposizione
degli allievi una scelta selezionata di opere cui ispirarsi: «La frequenza dei motivi di
emulazione, la libertà di studiare scegliendo il modello da una serie di perfezioni di vario
genere, fra quelli che debbono riunirsi nella galleria dei quadri ed in quella dei modelli,
svilupperebbero maggiormente il talento della gioventù. Le accademie sono più fatte
per verificare la forza degli ingegni, che per creare artisti. E la cura di chi dirige lo
stabilimento deve essere principalmente per la preziosità dei modelli, e per evitare che
mai gl’imitatori diano agli alunni in esempio le proprie produzioni.»
13
Era la prima di una
serie di “ricette” proposte per l’aggiornamento della formazione accademica e, più in
generale, del gusto artistico dominante nella città lagunare. Rimanendo ancorata ai fasti
del recente passato Settecentesco, Venezia non si presentava certo come una delle
capitali artistiche del nuovo secolo: lo testimoniano la “fuga” di Francesco Hayez nella
più aggiornata Milano, il successo ancora incontestabile della pittura decorativa di
stampo tiepolesco, il favore (e le commissioni) di cui ancora godevano i soggetti
mitologici.
14
Il richiamo che quindi la città lagunare esercitava sugli aspiranti artisti si
riduceva alla necessità - che all’occorrenza poteva loro presentarsi - di esibire un
curriculum di studi istituzionali, a quei tempi unica garanzia di professionalità e
preparazione.
15
In questo contesto di arretratezza l’operosità di Cicognara fu dunque un
bene sia per l’Accademica sia, inevitabilmente, per Ferrara che oltre al vanto di aver
dato i natali a un così illustre personaggio, poteva ora vedere incentivata la formazione
artistica dei giovani più promettenti. Nel secondo decennio dell’Ottocento prese infatti il
via una vera e propria “diaspora” inaugurata dai pittori Giovanni Antonio Baruffaldi,
Ferdinando Dalla Valle e dall’incisore Ignazio Dolcetti.
16
Le paterne cure del Conte
ferrarese - che non mancò di raccomandare i primi due alla supervisione di Canova
durante il periodo del loro pensionato romano – non furono però sufficienti a garantire la
buona riuscita delle loro carriere, stroncate da una morte precoce. Baruffaldi e Dalla
Valle erano usciti dalla scuola di Saroli dove si erano formati anche artisti come Antonio
12
SCUTELLARI 1893, p. 34.
13
CICOGNARA, Lettere inedite ad Antonio Canova, 1839 in MAZZOCCA
(1)
1998, p. 233.
14
Per la ricostruzione dell’ambiente veneziano dell’Ottocento cfr. PAVANELLO 1990, pp. 169 – 176;
PAVANELLO 2002, pp. 13 – 94.
15
La mancata esibizione di un documento che certificasse gli studi compiuti impedì all’artista, una volta
giunto a Trieste, di dedicarsi all’insegnamento del disegno; viceversa un certificato dell’Accademia di
Venezia rientrava fra i documenti esibiti per ottenere il posto vacante di professore di Nudo e Anatomia
nel Civico Ateneo di Ferrara; cfr. capitolo settimo, p. 89 e appendice documentaria.
16
Per brevi cenni biografici sui tre artisti cfr. SCUTELLARI 1893, pp. 30, 32; TOMMASI 1999, pp. 313 –
315.
6
Boldini
17
(padre del più celebre Giovanni) e lo stesso Pagliarini che, dopo un primo
apprendistato presso il ticinese, ebbe come maestro Gregorio Boari,
18
a sua volta ex
allievo di Saroli. Nella formazione di questo secondo maestro fondamentali erano stati
gli studi compiuti a Roma presso l’Accademia di San Luca, dove aveva avuto come
insegnanti Gaspare Landi e Pietro Palmaroli da cui apprese le tecniche di restauro.
Rientrato in patria negli anni Venti, Boari alternò la sua attività di pittore con quella di
abile copista e restauratore, avendo sempre come punto di riferimento Raffaello al
punto che Scutellari lo definì «accademico nel disegno, e grossolano nelle forme, ed
assai urbano nel tratto.»
E’ dunque in questo clima che si svolge la prima educazione artistica di Giovanni
Pagliarini, pittore su cui pesa un “alone di mistero” esteso persino alle sue generalità e
in cui forse ha avuto una parte importante il carattere del pittore, più volte indicato come
solitario e taciturno, scostante, dedito all’ arte in un modo tanto spasmodico da
rasentare l’ossessione, persino maldicente.
19
Fortunatamente i più recenti interventi
critici sull’artista
20
hanno permesso di fissare alcuni punti fermi tanto nella sua biografia
quanto nel catalogo delle opere, ancora lontano da una sistemazione definitiva per i
continui rinvenimenti e le incessanti rettifiche attributive che, nel diminuire il “corpus” di
autori a lui stilisticamente affini, proseguono nel legittimo accrescimento di quello del
ferrarese. Fino a pochi anni fa i dubbi riguardavano anche il luogo di nascita dell’artista
probabilmente a causa dei prolungati periodi di lavoro trascorsi fuori patria e durante i
quali Pagliarini riuscì sempre a farsi apprezzare da alcuni committenti e da parte della
critica.
21
A dissipare inconfutabilmente ogni incertezza al riguardo è il passaporto che
l’artista richiese al Comune di Ferrara nel 1862 «per recarsi a Firenze colla propria
moglie per motivi della sua professione».
22
Assieme alla fede di nascita presentata nel
1871
23
, il documento risulta quindi la principale e più valida fonte di notizie personali
17
Cfr. SCUTELLARI 1893, pp. 51 – 52; SAVONUZZI 1971, p. 69.
18
Per notizie biografiche su Boari cfr. SCUTELLARI 1893, pp. 42 – 43; SAVONUZZI 1971, p. 68;
SCARDINO
(1)
1995, p. 147; idem 2003, p. 36.
19
Del carattere irascibile dell’artista parlano CAPRIN 1891, pp. 118 – 120; DEL PUPPO 1914, pp. 10 –
11, ripreso da SOMEDA DE MARCO 1965, p. 93; SAVONUZZI 1971, p. 74.
20
SCARDINO 1995, pp. 115 – 120; idem 2003, pp. 33 – 84.
21
Il periodo più foriero di dubbi è quello che l’artista ha trascorso in Istria: «Piranese» viene definito in
MARTINELLI BRAGLIA
(1)
1990, p. 943 (probabilmente a causa della lunghezza del soggiorno nella città
istriana); «di Pirano», come fosse nativo della città, viene invece detto in BERGAMINI – BUORA 1990, p.
94, evidentemente riprendendo il dubbio espresso da DEL PUPPO 1914, p. 10. Nei Cataloghi delle
esposizioni della società triestina di Belle Arti l’artista è invece menzionato come Pagliarini Giovanni di
Trieste (cfr. Catalogo delle opere esposte…, Trieste 1840, pp. 10, 12, 14): probabilmente in questi casi si
prendeva in considerazione il luogo di residenza al momento della partecipazione alle mostre.
22
Ferrara, Archivio Storico Comunale, Popolazione sec. XIX, b. 151 n. 1862/1592 (d’ora in poi ASCFe),
documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p. 120.
23
La dichiarazione viene allegata ai documenti esibiti dall’artista nel 1871 per concorrere al posto di
professore di pittura del Civico Ateneo; cfr. ASCFe, Pubblica Istruzione. Pinacoteca Belle Arti. Insegnanti,
7
sull’artista, in grado di sgombrare il campo dalle erronee notizie divulgate persino da
studiosi ferraresi suoi contemporanei
24
. Giovanni Pagliarini nasce quindi nel novembre
del 1809 a Ferrara da Francesco ed Eleonora Azzolini
25
. Lo sbocciare della precoce
inclinazione artistica dovette subito fare i conti con una grave forma di paralisi che, fin
dalla nascita, rendeva difettosa tutta la parte sinistra del suo corpo.
26
L’handicap fisico
non impedì tuttavia al giovane di applicarsi agli studi pittorici nei quali l’ ostinazione
andò sempre di pari passo con l’ inventiva dimostrata negli espedienti escogitati per
poter lavorare con sufficiente comodità.
27
Oltre alla paralisi di cui era affetto, la
caparbietà dell’aspirante artista dovette scontrarsi sin dai suoi esordi con le non floride
possibilità economiche della famiglia. Con una lettera del 1826
28
, quando l’artista aveva
solo quindici anni, si apre infatti la lunga serie di suppliche alle autorità e ai nobili
ferraresi per permettere ad un studente volenteroso ma sfortunato di progredire «nella
difficil carriera della Pittura.» Il giovane, ammesso già da circa un anno alla Scuola
d’Ornato di Ferrara «sotto la direzione del S.r professore Saroli, non solo, ma eziandio
particolarmente sotto quella del professore S. r Boari» chiede al Gonfaloniere la sua
protezione e un «debole compatimento» alla luce del talento che ha già avuto modo di
dimostrare con la scelta di alcune sue opere per l’esposizione allestita nella Sala dei
Premi della Scuola. Anche in seguito gli insegnamenti dei suoi primi maestri
continuarono a dimostrarsi proficui: nell’ottobre del 1829 grazie ad un «lavoro a colorito
dipinto ad oglio»
29
Pagliarini vinse il primo premio nel concorso interno alla Scuola
d’Ornato consistente in una pensione che gli permetteva di proseguire gli studi
all’Imperial Regia Accademia di Venezia. Della Commissione esaminatrice faceva parte
anche Leopoldo Cicognara
30
che nonostante si fosse ormai dimesso dalla carica di
b. 11, f. 17 n. 2842, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p. 120; cfr. appendice
documentaria.
24
Cfr. FEI 1875, p. 39; SCUTELLARI 1893, p. 54.
25
Il nome della madre viene citato nel testamento olografo del pittore: ASCFe, Pubblica Istruzione.
Pinacoteca Belle Arti, b. 1, f. 48, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p. 120. Pagliarini
aveva anche un fratello più giovane, Luigi al quale era legato da una comune passione per l’arte che lo
portò a intraprendere la carriera di doratore; cfr. ibidem, pp. 118, 120.
26
ASCFe, Popolazione Sec. XIX, b. 1, f. 48, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p. 120.
Prima del rinvenimento di questo documento alcuni studiosi ritenevano che l’artista fosse affetto da
paralisi al braccio destro e per questo costretto a dipingere con la mano sinistra. Cfr. COMANDUCCI
1935, p. 490 e idem 1962, p. 1334. Inoltre cfr. Mostra di pittori emiliani dell’Ottocento 1955, p. 30;
SCARDINO 1987, p. 3.
27
CAPRIN 1891, p. 118, parla di una cinghia con cui il pittore legava al corpo la mano difettosa mentre
secondo DEL PUPPO 1914, p. 10 e SOMEDA DE MARCO 1965, p. 93, la paralisi al braccio sinistro lo
costringeva a servirsi di uno sgabello dove appoggiare la tavolozza.
28
ASCFe, Popolazione Sec. XIX, b. 151, n. 272, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p.
120.
29
Per questa circostanza e per l’ammissione all’accademia di Venezia cfr. ASCFe, Popolazione Sec. XIX,
b. 151, n. 731, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p. 120; cfr. appendice documentaria.
30
Cfr. CECCON 1995, pp. 255, 264.
8
Presidente dell’istituzione lagunare, cercò comunque di aiutare il giovane e promettente
artista. A lui si rivolse infatti il Municipio di Ferrara per sapere se l’abilità di Pagliarini
fosse tale da giustificare la concessione del sussidio da lui richiesto nel maggio del
1830 per sostenere le crescenti spese cui doveva far fronte
31
. Del positivo giudizio
espresso da Cicognara si trova traccia in un documento datato alla primavera del 1831
nel quale si fa riferimento ai saggi prodotti dal giovane artista per l’esposizione ferrarese
dell’anno precedente tenutasi nell’ex chiesa di Santa Margherita.
32
Fra le opere
presentate spiccava la Fede, copia del quadro di Tiziano conservato nel Palazzo
Ducale che il giovane aveva già avuto modo di esporre nella città lagunare. Il dipinto fu
la prova tangibile dei progressi di Pagliarini, lodato per «diligenza di disegno, buon
impasto nel colorito, ed attenzione nella esecuzione», qualità che comunque non erano
in grado di mascherare l’irregolarità di contorni e proporzioni. I difetti riscontrati,
attribuibili essenzialmente all’altezza del modello, non impedirono al volenteroso
studente di ottenere nuovi sussidi da parte di notabili ferraresi spesso rimasti
nell’anonimato: è questo il caso dell’«Illustrissimo Signore» cui l’aspirante artista si
rivolge con una lettera inviata da Venezia il 20 dicembre 1830.
33
Nella missiva
Pagliarini fa riferimento alla colletta che dovrebbe permettergli di «mantenersi ed
istruirsi nella difficil’arte della Pittura per anni cinque» ma che, non avendo ancora
raggiunto l’intera somma prestabilita, lo costringe a chiedere un’ulteriore sovvenzione.
Come garanzia dei suoi buoni propositi, oltre alla particolare raccomandazione di Boari
e al ricordo della positiva accoglienza ricevuta dalla copia della Fede di Tiziano, l’artista
si impegnava ad eseguire un quadro che sarebbe stato estratto a sorte annualmente fra
i suoi benefattori.
34
Oltre ad essere una sicura prova delle doti e della serietà d’impegno costantemente
garantita da Pagliarini ai suoi concittadini, questa testimonianza rivela anche come
anche una volta entrato nell’Accademia veneziana, l’artista venisse educato alla copia
dei maestri del Rinascimento. A questo tipo di formazione gli studenti della città
lagunare vennero avviati dall’intelligente preveggenza di Teodoro Matteini, chiamato da
31
ASCFe, Popolazione Sec. XIX, b. 151, n. 790, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p.
120.; inoltre, cfr. E. CECCON, ibidem.
32
ASCFe, Popolazione Sec. XIX, b. 151, n. 780,documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p.
120.
33
La lettera, appartenente all’archivio privato del rag. Virgilio Ferrari, mi è stata gentilmente messa a
disposizione dal dott. Scardino; cfr. appendice documentaria. Lo studioso ferrarese avanza l’ipotesi che lo
sconosciuto benefattore sia da identificarsi con il conte Cosimo Masi. Cfr. SCARDINO 1982, pp. 83 - 84.
34
Il mancato reperimento del catalogo dell’esposizione del 1832 impedisce di confermare questa notizia.
Stando invece all’ Elenco delle opere d’arte esposte nell’I. R. Accademia delle Belle Arti risalirebbe al
1832 Pagliarini l’esposizione della «Copia all’olio dell’Assunta di Tiziano». (1832, p. 12)
9
Cicognara a ricoprire la cattedra di Pittura dal 1807 fino alla morte, avvenuta nel 1831.
35
Il suo insegnamento si inseriva nel programma di rinnovamento pensato dal conte
ferrarese, ovviamente favorevole allo studio del nudo, dei calchi in gesso delle statue
antiche e dei gessi canoviani proposto dal pistoiese ai suoi allievi, cui sottoponeva
anche la conoscenza dei Quattrocentisti toscani e di Mantegna perché «si educassero
nella purità dell’arte e si accostumassero a filosoficamente comporre ed esprimere le
passioni nel che si distinsero li predetti con tanta meravigliosa naturalezza».
36
Il primo
frutto di questo interesse per la tradizione pittorica italiana fu il dipinto Pietro Rossi e
l’inviato dei veneziani (Milano, Pinacoteca di Brera) realizzato da Francesco Hayez nel
1820. L’incomprensione cui la tela andò incontro nella città lagunare veniva bilanciata
dalla più favorevole accoglienza nell’ambiente milanese dove il dibattito fra istanze
classiche e romantiche era in corso già da tempo
37
. La prova più palese di quanto il
gusto di Venezia necessitasse di un aggiornamento risiedeva proprio nello
“sconvolgimento” creato dal tema
38
e dallo stile dell’opera di Hayez. Ma ormai anche la
città lagunare era stata avviata alla riscoperta e al culto dei Primitivi locali. L’approccio a
Bellini, Carpaccio e Cima da Conegliano avrebbe permesso agli studenti di associare la
neoclassica abilità nel disegno all’eccellenza nell’uso di colori e chiaroscuro,
secolarmente riconosciuti come i cardini della Scuola veneziana consacrati dalle opere
di Tiziano. L’artista fu oggetto di una vera e propria venerazione concretizzatasi nelle
numerose copie tratte dalle sue opere
39
e nell’Elogio a lui dedicato da Cicognara.
40
Il
maestro del Cinquecento veneto costituiva un modello, oltre che per il serrato confronto
con la natura, soprattutto per la composizione delle sue tele: « … trattò i più difficili
argomenti con una costante semplicità. Mai farragginoso ne’ suoi gruppi, né manierato
35
PAVANELLO 1990, pp. 169 - 183; PAVANELLO 2002, pp. 13 – 94.
36
Le parole di Matteini sono contenute in una lettera da lui indirizzata a Canova; cfr. PAVANELLO 1990,
p. 20.
37
Per l’aggiornamento della pittura storica sui temi medievali (con riferimenti al relativo dibattito critico) si
rimanda al capitolo successivo.
38
Nel 1818 Andrea Maier si esprimeva contro il favore ancora riservato ai soggetti mitologici nei
programmi delle Accademie in quanto ormai non erano più in grado di comunicare nulla ai
contemporanei: MAIER, Della imitazione pittorica. Della eccellenza delle opere di Tiziano, 1818 riportato
in BAROCCHI 1998, pp. 240 – 247. Venezia conoscerà un vero rinnovamento nella pittura storica solo
attorno agli anni Trenta: PAVANELLO 1990, p. 35 e sgg.
39
Nel catalogo di tutti gli artisti educati all’Accademia di Venezia compare almeno una copia da Tiziano:
fra gli altri si possono ricordare Placido Fabris (SAGRAMORA RIVOLTA 2002, pp. 114 - 128 ), Natale
Schiavoni (definito «il più devoto cultore dell’arte tizianesca»: PAVANELLO 2002, p. 42). Ancora nel 1854
Michelangelo Grigoletti si ispirò all’Assunta di Tiziano nella pala per la basilica ungherese di Esztergom;
cfr. GRANSINIGH 2002, pp. 742 – 743. A sostenere questo culto erano anche alcuni collezionisti che,
non avendo le disponibilità necessarie per l’acquisto di originali, spesso commissionavano copie degli
esemplari del maestro: è il caso dell’abate Meneghelli che radunò attorno a sé un prolifico circolo di
artisti. Fra essi erano anche Marianna Angeli Pascoli ed Elisa Benato Beltrami a cui il mecenate
padovano richiese numerose riproduzioni da Bellini, Tiziano e Veronese. Cfr. BANZATO 1999, p. 15.
40
CICOGNARA, Elogio di Tiziano Vecellio del Sig. Cavaliere Leopoldo Cicognara, Presidente della Regia
Accademia, 1809 riportato in MAZZOCCA
(1)
1998, pp. 871 – 877.
10
nella contrapposizion degli oggetti, con sobrietà ed economia distribuì le figure con bella
ordinanza, senza esagerare quell’artifizio di cui fecero abuso quasi tutti quelli che gli
successero».
41
Oltre ai meriti che gli venivano tradizionalmente riconosciuti per l’uso
sapiente dei colori
42
, Tiziano viene ricordato dal conte ferrarese anche per le sue
notevoli capacità ritrattistiche, aprendo in questo modo la strada alla rivalutazione di un
filone pittorico declassato in sede accademica.
43
Frequentando l’Accademia a partire dal 1829, Pagliarini dovette senz’altro avere come
primo maestro di pittura lo stesso Matteini, insegnante che non ha lasciato un segno
profondo nel giovane allievo se in seguito ricorderà come maestro il solo Odorico
Politi.
44
Già allievo di Teodoro Mattini, del quale in seguito ereditò la cattedra, Politi
indirizzò il ferrarese verso la purezza di disegno appresa durante il soggiorno romano
compiuto al fianco di Francesco Hayez e Giovanni Demin e svolto all’insegna del culto
per Canova.
45
Lo stesso scultore apprezzava lo stile corretto e puro cui tendeva
l’udinese, capace di unire questa classicità - esemplare nella Modella (Udine, Musei
Civici) - allo studio del Rinascimento veneto evidente riferimento per la Madonna con il
Bambino (Udine, Musei Civici). Questi preziosi insegnamenti, cui Pagliarini rimarrà
fedele per tutto il corso della sua carriera, vennero completati dall’osservazione della
41
MAZZOCCA
(1)
1998, p. 871.
42
«Fra le imitazioni della natura una delle più importanti nell’arte della pittura, e la più dilettevole, e la più
difficile è certamente il colorito … Quando il pittore ha ben disposti sulla sua tavolozza tutti i colori e ne ha
già incominciato quel turbinoso miscuglio che non può intendersi da altri, un secondo ancora ne forma
sulla tela coll’impasto a fusione delle tinte, ed un terzo ne compone del pari colla sovrapposizione di
nuovi colori più trasparenti, con cui il primo strato resta velato da un secondo, e da un terzo. Ecco quello
che non è soggetto a precedenti, ecco il linguaggio della Divinità che anima lo spirito del pittore, che gli
guida la mano, e il pennello, che lo ruota, lo striscia, e lo fa vibrare arditamente dei colpi che hanno
apparenza d’esser fortuiti, o lo fa amorosamente lambire i molli e affettuosi contorni; ed ecco la
morbidezza, il trasparente, il sanguigno, l’incarnato, la verità, la natura; ecco in una parola Tiziano …»
MAZZOCCA
(1)
1998, p. 876.
43
Cicognara ricorda la consuetudine che aveva l’artista di inserire ritratti di suoi contemporanei nei propri
dipinti: una pratica, questa, che adotterà anche Pagliarini nella Predica del Battista per la chiesa di San
Cristoforo di Udine (cfr. capitolo sesto, p. 78 e scheda relativa). Nell’Elogio viene inoltre rievocata
l’incredibile verosimiglianza del Ritratto di Carlo V a cavallo «il quale tanta meraviglia cagionò in tutti gli
astanti, quando fu appeso nel fondo della loggia, che fin da quel tempo si richiamarono gl’inganni di
Parrasio e di Zeusi alla memoria, per dir quanto fosse meravigliosa l’illusione che questo quadro
produsse: e le riverenze e gli inchini de’ cortigiani avanti la muta immagine non furono tanto un tributo
d’omaggio alla regia persona rappresentata, quanto un segno della profonda ammirazione che destava
nei loro animi la sorprendente emulazion della natura …» MAZZOCCA
(1)
1998, p. 872. La completa
rivalutazione del ritratto verrà pronunciata nella celebre Prolusione pronunciata dal presidente
dell’Accademia nel 1823: questa sarà la base dell’articolo Il pittore ritrattista redatto da Antonio Neu Mayr
nel 1833; cfr. capitolo terzo, pp. 32 - 34.
44
ASCFe, Lettera indirizzata al Gonfaloniere di Ferrara Antonio Avogli Trotti, Popolazione Sec. XIX, b.
151, n. 3381, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p. 120.
45
Per la biografia di Politi cfr. GRANSINIGH 2002, p. 794. Secondo MAZZOCCA (1989, p. 62) l’artista
udinese non riuscì a liberarsi dal neoclassicismo appreso durante il pensionato romano: questa tesi è
contraddetta da PAVANELLO (2002, p. 33) secondo il quale «La carità di san Martino di Odorico Politi,
destinata alla parrocchiale di Bertiolo … rappresentava un segnale di apertura in direzione romantica»
Sull’Apparizione di San Giorgio cfr. scheda relativa e capitolo quinto, pp. 57 – 59. Assieme a Tiziano, altri
punti di riferimenti per gli studenti dell’Accademia erano Canova, di cui venivano copiati i calchi, e
Palladio.
11
capacità ritrattistica del maestro: l’infinita pazienza dimostrata da Politi nello studio di chi
gli sta di fronte – si tratti del Canova o di se stesso – sarà all’origine dell’estenuante
cura prodigata da Pagliarini nella resa dei protagonisti di tutti i suoi dipinti. Nel periodo
della sua permanenza a Venezia, durata fino al 1833, il giovane studente ebbe
probabilmente come compagni di studi alcuni autori che, come lui, seppero alternare
l’attività di ritrattisti a quella di pittori di storia
46
. Tra questi spiccano l’austriaco Karl
Blaas
47
, giunto a Venezia nel 1832 e attivo anche a Trieste nella seconda metà del
secolo; Paolo Fabris
48
, fratello del più celebre Placido, che si dedicò prevalentemente
alla copia di opere tizianesche e all’attività di restauratore; Filippo Giuseppini
49
, che il
ferrarese ritroverà poi a Udine; e Antonio Zona,
50
autore di imponenti opere storiche e
presente anche sul mercato triestino negli anni ’40. Negli anni trascorsi a Venezia
Pagliarini si dedicò al tradizionale cursus del pittore storico, comprendente i corsi di
Ornato, Elementi di figura, Architettura, Prospettiva, Statuaria.
51
I successi nei suoi studi
sono testimoniati dalla lettera indirizzata nel 1833 al Gonfaloniere di Ferrara Antonio
Avogli per informarlo della recente vittoria del primo premio per il nudo in dipinto,
riportata anche nei Discorsi letti nell’I. R. Accademia di Belle Arti di quell’ anno.
52
La
felice circostanza, unita al matrimonio con la di poco più giovane Antonia Tagliapietra,
53
metteva il pittore nella crescente necessità di ricevere degli aiuti economici da parte dei
concittadini. Nelle sue lettere, ai ringraziamenti per le sovvenzioni ottenute, Pagliarini
faceva sempre seguire nuove richieste di denaro accompagnate dalle rassicurazioni sui
successi ottenuti cui seguiva la dichiarazione dei progetti per il futuro.
46
Scorrendo i Discorsi letti nella I. R. Accademia di Belle Arti in Venezia degli anni 1828 – 1834 troviamo
fra gli studenti premiati Francesco Antonibon, Karl Blaas, Paolo e Domenico Fabris, Leonardo Gavagnin,
Filippo Giuseppini (uno dei più premiati), Pietro Nordio e Antonio Zona. A questi vanno aggiunti artisti
triestini come Gaetano Merlato, Nicolò Pertsch, Vincenzo Poiret che forse, stringendo amicizia con
Pagliarini, lo informarono delle prospettive artistiche che si stavano aprendo a Trieste. Forse l’artista
ferrarese si ricordò di queste notizie quando fu costretto ad abbandonare Vienna. (cfr. infra).
47
PREGNOLATO 2002, pp. 652 – 653.
48
DE GRASSI
(1)
2002, pp. 718 - 719.
49
GRANSINIGH 2002, p. 740.
50
LUGATO 2002, pp. 853 – 854. Compagni di Pagliarini furono probabilmente anche Francesco
Antonibon (BROTTO PASTEGA 2002, pp. 633 – 634), Giovanni Andrea Darif (GRANSINIGH 2002, pp.
707 – 708), Francesco Facci Negrati, (BROTTO PASTEGA 2002, pp. 719 – 720), Leonardo Gavagnin
(PREGNOLATO 2002, pp. 733 –734) e Pietro Nordio (DE GRASSI
(1)
2002, pp. 778 – 779).
51
ASCFe, Stato dimostrante i documenti degli aspiranti alla cattedra di Pittura e Nudo nel Civico Ateneo
di Ferrara, Pubblica istituzione. Pinacoteca Belle Arti b. 11, f. 17 documento rinvenuto sulla base di
SCARDINO 1995, p. 120.
52
ASCFe, Popolazione sec. XIX, b. 151 n. 478, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p.
120; Discorsi letti nell’I. R. Accademia di Belle Arti in Venezia 1833, p. 72. Nella stessa classe di
concorso Vincenzo Poiret ottenne il primo accessit; la conoscenza fra i due artisti sarà significativa per la
litografia del Ballo di Mandriani; cfr. scheda relativa.
53
ASCFe, Popolazione sec. XIX, b. 151 n. 1862/1592, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO
1995, p. 120. Antonia Tagliapietra era forse imparentata con il pittore veneziano Tranquillo con cui
Pagliarini avrà modo di esporre una volta rientrato a Ferrara nel 1872 e nel 1875 ; cfr. SCARDINO 2003,
p. 40.
12
Al termine del percorso accademico, infatti, l’artista si rivolse nuovamente al
Gonfaloniere Avogli con una lettera datata 24 settembre 1833
54
alla quale allegava «la
Medaglia col relativo Diploma dell’ottenuto premio dell’Imp. R. Accademia di Venezia,
nonché d’una Lettera del Sig. Proffessore di pittura presso detta Accademia Odorico
Politi». Pagliarini si augurava che il magistrato informasse i Consiglieri Comunali di tali
attestazioni della sua capacità in modo da convincerli a “girare” a suo favore la
sovvenzione del concittadino Ferrari, studente di scultura a Roma giunto ormai al
termine della propria formazione. La richiesta venne accolta e permise all’artista, grazie
anche «alle raccomandazioni di un prete e di un paio di nobildonne»
55
di accedere
all’Accademia di Belle Arti di Firenze diretta da Pietro Benvenuti.
56
Nella città toscana,
dove già si trovava per motivi di studio il ferrarese Girolamo Domenichini, Pagliarini si
fermò per un anno al termine del quale (nell’ottobre 1834) espose un dipinto raffigurante
una Donna con un libro in mano, sicuramente uno dei suoi primi ritratti (purtroppo non
più rintracciato).
57
Il soggiorno fiorentino ebbe forse la forma di un pensionato annuale
vinto a seguito di un concorso indetto dall’Accademia di Venezia, dato che nei
documenti successivi l’artista viene comunque citato come studente dell’istituzione
lagunare. Figura dominante del capoluogo toscano, Pietro Benvenuti aveva compiuto la
propria formazione a Roma, dove aveva avuto modo di entrare in contatto con i
maggiori pittori del momento. Nonostante l’interesse sempre nutrito per il Seicento
emiliano l’artista divenne uno dei principali esponenti del neoclassicismo italiano: nel
1809 il suo studio venne visitato da Francesco Hayez e Odorico Politi che, nonostante
l’iniziale soggezione, rimasero meravigliati dalla parsimonia di colore e dalla mancanza
di naturalezza rivelate dal pittore.
58
Come ebbero modo di notare i due studenti,
54
ASCFe, Popolazione sec. XIX, b. 151 n. 2418, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p.
120.
55
SCARDINO 2003, p. 37.
56
BASSIGNANA 1990, pp. 687 – 688; SPALLETTI 1990, pp. 292 – 296.
57
SCARDINO 2003, pp. 37 – 38. Notizie sulla frequenza dell’Accademia del Benvenuti si trovano
nell’archivio storico dell’Accademia di Belle Arti di Firenze sul cui spoglio cfr. ibidem, p. 46, nota 20.
58
«Visitammo pure lo studio del cav. Pietro Benvenuti, che tanto era decantato come esimio pittore, il che
mi dava una certa soggezione. Egli ci accolse con cortesia, udendo essere noi venuti a visitarlo a nome
del conte Cicognara: egli stava con la tavolozza in mano, dipingendo una gran tela, rappresentante la
Morte di Priamo; smontò dall’alto sedile sul quale stava lavorando e, … Politti ed io ci mettemmo ad
osservare la gran tela, meravigliando di vederla tutta preparata a chiaro oscuro, e poche teste solamente
colorite: avvezzi com’ eravamo al colore della scuola veneta, trovavamo ben strano quel modo di
dipingere. … Egli seguiva lo stile della scuola di David (il rigeneratore della pittura in Francia): il suo
colore piuttosto opaco e pesante non ci soddisfaceva, pur sempre trovando che era d’uopo di molto
ingegno per arrivare a tanto.» HAYEZ, Le mie memorie, 1890 in BAROCCHI 1998, pp. 229 – 230.
Analoghe perplessità sul modo di operare dell’artista vennero espresse da Pietro Selvatico: «Altri nemici
del purismo veniano innanzi colla lancia in resta contro i seguaci suoi, imputando loro d’aver in odio gli
artificii dell’ombreggiare, e tutto ciò che si comprende sotto nome di massa e di chiaroscuro. Ed era vero,
se per massa doveano intendersi quelle larghe macchie di chiaro e di ombre con cui e il Benvenuti e il
Camuccini, e tant’altri minori, preparavano nei dipinti loro il partito luminoso ed oscuro, senza curarsi di
13
l’opacità e la pesantezza delle tinte erano dovute all’influenza di David, conosciuto a
Parigi nello stesso 1809.
59
Le composizioni dell’artista francese divennero il modello per
i dipinti che Benvenuti realizzò come pittore di corte, incarico ottenuto per l’intervento
della reggente Elisa Baciocchi. Nominato presidente dell’Accademia di Belle Arti di
Firenze nel 1803, l’artista si dedicò prevalentemente alla pittura storica e religiosa, nella
quale sperimentò il recupero del classicismo secentesco di Annibale Carracci e Guido
Reni. Durante la sua permanenza a Firenze, Pagliarini entrò probabilmente in contatto
con Giuseppe Bezzuoli, uno dei più brillanti allievi del Benvenuti.
60
Seguendo gli
interessi del suo maestro, l’artista si dedicò con pari interesse allo studio di Raffaello e a
quello del Seicento emiliano. Celebre soprattutto come pittore storico
61
, Bezzuoli
realizzò di quello che si può considerare il primo dipinto romantico eseguito in
Toscana, il Battesimo di Clodoveo (1823) commissionatogli per la chiesa di S. Remigio
a Firenze. La consacrazione dell’artista giunse pochi anni dopo con l’ Entrata di Carlo
VIII a Firenze (Firenze, Galleria d’Arte moderna di Palazzo Pitti) quadro compiuto nel
1829 su richiesta dal Granduca Leopoldo II e grazie al quale l’autore venne nominato
professore accademico.
Evidentemente questo clima rafforzò in Pagliarini la convinzione della superiorità della
pittura storica, sostenuta anche dall’attardata condanna del Romanticismo portata
avanti dalla critica accademica.
62
Conclusa l’ esperienza toscana l’artista rivolse nuove
richieste di sostegno economico ai suoi concittadini per potersi trasferire a Roma:
ricavare dal vero gli effetti, e piacendosi anzi di falseggiarli con certi modi briosi che allettassero il
riguardante.» SELVATICO, Del Purismo nella pittura 1851, riportato in BAROCCHI 1998, p. 538.
59
Il manifesto dello stile davidiano del Benvenuti è il Giuramento dei generali Sassoni a Napoleone dopo
la battaglia di Jena (Firenze, Galleria d’Arte moderna di Palazzo Pitti) compiuto nel 1812 ed esposto a
Parigi fino al 1815.
60
BASSIGNANA 1990, pp. 694 – 695; SPALLETTI 1990, pp. 304 – 312.
61
I soggetti dei dipinti storici di Bezzuoli spaziavano dagli episodi della Gerusalemme Liberata alle
Imprese di Cesare (commissionate dal Granduca per Palazzo Pitti e realizzate fra il 1833 e il ’36).
L’artista dedicò un quadro anche al tema degli uomini illustri raffigurante Giotto che lascia la casa
paterna, «quadretto … che stimiamo cosa assai mediocre, per non essere in quel quadro né avanti né
indietro, per vedersi trascurata la verità del costume, insignificanti le figure, e per trovarsi finalmente a
comodo degli amatori di memorie patrie la prova irrefragabile che ai tempi di Cimabue vi erano cavalli
inglesi puro sangue…». SUBBI, L’esposizione delle Belle Arti nel settembre 1847, 1847 in BAROCCHI
1998, p. 371. L’artista si dedicò anche alla ritrattistica secondo modelli desunti da Inghilterra e Francia.
62
MIGLIARINI, Del Romanticismo nella pittura, discorso detto in occasione della solenne distribuzione
dei premi triennali dell’I. R. Accademia di Belle Arti in Firenze l’anno 1834, riportato in BAROCCHI 1998,
pp. 281 – 284. Nel suo intervento il critico si rivolge contro la scelta di soggetti leggeri (da cui la condanna
della pittura di genere) e il fatto che alcuni, senza aver compiuto un regolare corso di studi accademici,
potessero ritenersi veri artisti e dedicarsi alla rappresentazione dell’uomo. Migliarini appare dunque
preoccupato sia per la corruzione del gusto sia per quello che lui ritiene il deterioramento dell’arte: «è da
temersi che tutti si diano ad imitare senza giudizio e scelta tutto quel ch’è nella natura,a far tesoro di
meschini obietti, ponendo mente soltanto al diletto degli occhi; sicchè ogni merito verrà a consistere
nell’artificio della mano, in una meccanica e grossolana esecuzione.» Ibidem, pp. 282 – 283.
14
l’artista indirizzò una missiva al Gonfaloniere di Ferrara Rinaldo Cicognara,
63
magistrato
che viene interpellato con una supplica anche dal padre del pittore.
64
Nonostante gli
aiuti economici Pagliarini non giunse mai nell’Urbe
65
: dopo aver già predisposto ogni
cosa per il trasferimento, l’artista decise infatti di non inoltrarsi verso il sud della
Penisola a causa dello scoppio di una violenta epidemia di colera che colpì Livorno nel
1835. Determinato comunque a proseguire gli studi, il pittore pensò di recarsi a Vienna
non solo perché la capitale asburgica «da vario tempo era dal fatal morbo liberata», ma
soprattutto perché «in quella Capitale avvi grande Accademia oltre le varie
principesche, ed Imperiale Galleria, nelle quali si trovano molti quadri d’insigni Autori
italiani.» A guidarlo in questa scelta era anche l’imminente e contemporanea
cessazione tanto del sussidio mensile erogato dal Comune ferrarese quanto della
colletta dei suoi benefattori, circostanza che lo costringeva a ricercare dei profitti
attraverso la sua arte «per non trovarsi del tutto esposto al bisogno ed all’indigenza.»
La fortuna sembrò finalmente arridere al pittore che potè contare sulla favorevole
accoglienza che gli riservarono alcuni notabili viennesi ma soprattutto su alcune
commissioni. Tuttavia appena pensò di poter finalmente godere di una certa tranquillità,
Pagliarini fu nuovamente colpito dall’avversità del destino: il colera tornò infatti ad
abbattersi su Vienna provocando la repentina fuga dei personaggi più facoltosi sui quali
«le speranze degli artisti sono riposte.» Il decesso della servente che fungeva anche da
sua interprete convinse lo sfortunato artista a rifare le valige e intraprendere, questa
volta, un più breve viaggio che lo porterà a Trieste.
63
ASCFe, Pubblica istruzione. Pinacoteca Belle Arti, b. 11, f. 17 n. 3381, documento rinvenuto sulla base
di SCARDINO 1995, p. 120.
64
ASCFe, Popolazione sec. XIX, b. 151 n. 191, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p.
120.
65
ASCFe, Popolazione sec. XIX, b. 151 n. 184, documento rinvenuto sulla base di SCARDINO 1995, p.
120.