Introduzione
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La bassa produttività conseguenza anche di diversi fattori ambientali,
deprime la domanda di lavoro e la capacità d’impiego, per dati salari,
delle imprese meridionali. Lo scarso legame esistente tra produttività
aziendale e condizioni del mercato locale del lavoro, da un lato, e
retribuzioni, dall’altro, si traduce quindi in più bassi livelli
occupazionali.
La combinazione tra azioni di contesto atte ad innescare processi di
allargamento della base produttiva e di innalzamento della
produttività, introduzione di flessibilità nel mercato del lavoro e
fuoriuscita dal sommerso, appare come una strategia interconnessa,
capace di innescare sviluppo economico e crescita dell’occupazione
regolare.
Nel primo capitolo viene di conseguenza chiarito che un livello di
intervento nel mercato del lavoro particolarmente appropriato è quello
locale.
Infatti data l’enorme eterogeneità dei territori in cui operano le varie
comunità di individui, non è pensabile effettuare interventi che
potremmo definire “massicci”, cioè senza l’applicazione di alcun
criterio discriminante, in quanto questi risulterebbero totalmente, o
quasi, inefficaci.
Occorre dare una qualche definizione di un mercato locale del lavoro
e, successivamente, cercare i suoi canali di sviluppo (condizione
fondamentale per un consistente aumento dell’occupazione). A tale
proposito viene, nel secondo capitolo, illustrato il ruolo esercitato dai
distretti industriali i quali (e i dati empirici lo dimostrano) consentono
una vita più lunga alle imprese che ne fanno parte grazie allo
Introduzione
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3
sfruttamento delle economie create dal distretto ed al clima di
cooperazione regnante al suo interno. Il distretto inoltre, meglio di
qualsiasi politica attiva del lavoro (analizzate in seguito), svolge
un’importantissima funzione formativa fornendo una consistente e
significativa esperienza lavorativa (elemento essenziale per chi è alla
ricerca di un impiego) soprattutto a categorie svantaggiate come le
donne e i giovani.
Successivamente viene affrontato anche il tema della mobilità
territoriale (capitolo 3) elemento che dovrebbe garantire equilibrio tra
domanda e offerta di lavoro grazie allo spostamento della forza lavoro
da zone con eccesso di offerta di lavoro a zone con eccesso di
domanda di lavoro.
La realtà, purtroppo, mostra una situazione che non presenta
un’elasticità ed una flessibilità come sopra descritto, e ciò rende il
raggiungimento dell’equilibrio, tra domanda ed offerta di lavoro
attraverso la mobilità territoriale, possibile solo in modelli economici
che poggiano su ipotesi necessariamente semplicistiche e restrittive,
ma non certo nel mondo reale.
I dati empirici mostrano che la mobilità é estremamente bassa e nel
terzo capitolo, dopo un breve excursus storico in cui ne viene illustrata
l’evoluzione, vengono citati e analizzati i fattori che incidono
negativamente sulla mobilità alcuni dei quali assolutamente
incontrollabili come quelli di natura psicologica o culturale.
Tutto ciò porta a gravi discrasie tra domanda e offerta di lavoro di
difficile soluzione.
Introduzione
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Sempre nell’ottica dello sviluppo e dell’occupazione, nel quarto
capitolo viene messo in risalto il fondamentale ruolo della
concertazione tra Governo, Sindacati e Imprenditori che trova la sua
massima espressione nel Patto per il Lavoro siglato nel 1997 e nel
Patto Sociale per lo sviluppo e l’occupazione siglato nel 1998. Benchè
non si possa attribuire nemmeno alla concertazione un ruolo
risolutore, questa ha senz’altro contribuito in modo decisivo alla
definizione delle linee guida e del percorso da seguire per porre
rimedio alla disoccupazione e accrescere lo sviluppo del territorio.
Nel quinto e nel sesto capitolo invece si iniziano ad analizzare gli
effetti di questa maggiore consapevolezza dell’intervento a livello
locale con il decentramento delle politiche del lavoro, avvenuta
attraverso svariati provvedimenti legislativi (il decreto legislativo
469/97 e la Bassanini, cioé la legge 59 del 1997 che costituiscono,
probabilmente i provvedimenti più imprtanti in materia), e la
creazione e il successivo sviluppo e ammodernamento dei servizi
pubblici per l’impiego che dovrebbero sostituire il vecchio
collocamento per seguire più da vicino l’utente (con enfasi si parla
anche di servizio “personalizzato” al lavoratore); al di là delle belle
parole spendibili sui servizi per l’impiego, l’unica cosa certa é che
questi dovranno essere ulteriormente sviluppati per essere pienamente
considerati efficaci.
In seguito, attraverso un modello di tipo macroeconomico, viene
illustrato, tramite ipotesi necessariamente restrittive e semplicistiche,
il modo in cui funziona un mercato locale (ciò grazie soprattutto
all’ipotesi di economia chiusa che ne consente la definizione e
Introduzione
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5
delimitazione) e, successivamente, usando la stessa impostazione,
vengono illustrati gli effetti (positivi e negativi) delle politiche attive
del lavoro, precisando tuttavia che l’effetto netto delle politiche attive
rimane incerto in quanto vincolato alle ipotesi che vengono poste alla
base del modello, oltre, ovviamente, al tipo di mercato in cui sono
poste in essere.
Sempre nell’ambito delle politiche attive, nell'ottavo capitolo ne viene
fatta una descrizione, sommaria e a grandi linee, citandone le
caratteristiche principali e la loro evoluzione avvenuta attraverso
svariati provvedimenti legislativi.
Viene fatta una distinzione tra politiche attive e passive (quelle cioé
che operano in modo automatico o semiautomatico verso una certa
categoria di individui).
Nell’ambito delle politiche passive viene analizzato il problema dei
sussidi i quali se superiori ad un certo livello, potrebbero avere effetto
disincentivante nella ricerca di un lavoro.
In seguito, grazie alla descrizione e illustrazione dei contenuti degli
strumenti di programmazione negoziata (patti territoriali, contratti
d'area e accordi di programma i più imprtanti) viene dato ulteriore
risalto allo sviluppo del territorio e dell’occupazione grazie a questi
finanziamenti erogati dall’Unione Europea.
Tornando alle politiche attive, è, successivamente, affrontato il tema
dell’inserimento dei soggetti svantaggiati (immigrati, ex
tossicodipendenti ed ex carcerati), seguito dai Lavori socialmente utili
e dai Lavori di pubblica utilità, posti in essere proprio per garantire
una qualche agevolazione nell’inserimento di detti soggetti.
Introduzione
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Un discorso a parte merita, sempre nell’ambito dell’inserimento dei
soggetti svantaggiati, il problema del difficile rapporto tra giovani e
mercato del lavoro.
Tra le misure ideate per porre un rimedio, sia pur parziale, a questo
problema si possono citare la creazione di strumenti quali le borse
lavoro, i tirocini, gli incentivi all’imprenditorialità giovanile, il
prestito d'onore e i piani di inserimento professionale.
Prima di affrontare il tema del monitoraggio delle politiche del lavoro,
necessario per verificarne l’efficacia, viene affrontato, in termini
descrittivi, il tema della flessibilità del mercato del lavoro e le misure
che riescono ad aumentarne il grado come lo sviluppo e la regolazione
del lavoro interinale, il contratto del lavoro part-time, il lavoro
ripartito, il contratto di formazione lavoro, l’apprendistato e il
telelavoro.
Infine viene fatta una breve analisi della situazione del mercato del
lavoro in Umbria.
Attraverso lo studio del Piano per il lavoro, posto in essere nel 2000,
vengono sommariamente riviste le politiche del lavoro e le misure
ideate per migliorare la situazione occupazionale umbra.
Vengono visti i progetti quadro del Piano, con particolare attenzione
alla riforma dei servizi per l’impiego attorno ai quali ruotano le altre
politiche
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CAPITOLO PRIMO
Perché studiare il mercato del lavoro a livello locale
1.1 La situazione italiana
La crescita dell’occupazione
1
, già avviata negli ultimi anni ’90, ha
registrato in Italia nel 2000 un risultato molto positivo anche grazie ad
un aumento del pil vicino al 3%.
L’elevata intensità occupazionale della crescita è anche il risultato
delle riforme che hanno interessato il mercato del lavoro nel corso
degli ultimi anni: part-time, lavoro temporaneo, nuovo apprendistato,
incentivi fiscali, riduzione degli oneri indiretti sul costo del lavoro.
Oltre ai rilevanti aspetti quantitativi, meritano di essere segnalati per il
loro significato qualitativo, l’elevato aumento dell’occupazione
femminile e la crescita proporzionalmente più forte registrata nel
Mezzogiorno, con chiari segnali di emersione del lavoro sommerso.
Questi positivi risultati hanno comportato una riduzione del tasso di
disoccupazione.
Dal punto di vista della strategia europea per l’occupazione, meritano
di essere segnalate le riforme, per molti aspetti radicali, relative al
funzionamento delle pubbliche amministrazioni e quelle nel campo
1
Cfr: “Piano nazionale d’azione per l’occupazione 2001”; pp. 1 e ss.
Capitolo 1
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8
dell’istruzione e della formazione. Questi interventi hanno avuto
riflessi positivi sui pilastri dell’occupabilità e dell’imprenditorialità e
hanno creato un ambiente più favorevole per l’inserimento lavorativo
dei soggetti con maggiori problemi occupazionali (donne, giovani,
disoccupati di lunga durata). Con riferimento ai lavoratori anziani,
sono state adottate misure legislative (cumulabilità tra pensione e
redditi da lavoro, riduzione degli oneri contributivi), tendenti a
prolungare la vita attiva. A ciò vanno aggiunti gli effetti positivi delle
riforme del sistema pensionistico, che stanno gradualmente
innalzando l’età media di uscita dal mercato del lavoro. Per aumentare
i livelli di partecipazione delle donne, sono stati rafforzati gli
strumenti per conciliare l’attività di lavoro e le esigenze familiari.
Il dialogo sociale, che costituisce un punto qualificante della strategia
europea ha continuato a svilupparsi sia a livello nazionale, nel quadro
della concertazione e della politica dei redditi, sia a livello decentrato.
Mentre la contrattazione del salario a livello nazionale è diretta a
garantire il mantenimento del potere d’acquisto in rapporto
all’inflazione, la contrattazione aziendale ha contribuito a determinare
i livelli salariali, tenendo conto delle differenze di produttività, delle
condizioni del mercato del lavoro e delle innovazioni nel campo
tecnologico e organizzativo. Il dialogo sociale continua anche ad
essere uno strumento essenziale per l’adattabilità delle imprese e delle
persone, in un giusto rapporto tra esigenze di flessibilità e garanzie di
sicurezza per i lavoratori.
Perche studiare il mercato del lavoro a livello locale
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Il confronto fra i risultati conseguiti nel 2000 e gli obiettivi strategici
definiti nel Consiglio europeo di Lisbona nel campo dell’occupazione
esige due considerazioni. La prima è che la svolta realizzatasi negli
ultimi anni, e segnatamente nel 2000, indica la concreta possibilità per
l’Italia di muovere in direzione degli obiettivi di piena occupazione
(definita dal punto situato nella curva di Beveridge
2
, in cui i
disoccupati sono uguali ai posti vacanti, cioè tutti i disoccupati hanno
la possibilità di essere occupati, per cui la disoccupazione o è
frizionale o dipende da cause strutturali
3
) che Lisbona ha posto al
centro della strategia economica e sociale dell’Unione europea. La
seconda considerazione è che l’Italia parte da condizioni di forte
diversificazione con un mercato del lavoro profondamente diviso fra
le regioni del Centro-nord e il Mezzogiorno. Le riforme “strutturali”
nel campo del lavoro sviluppate nella seconda parte degli anni ’90,
associate al cambiamento dello scenario macroeconomico che hanno
consentito l’ingresso nell’area della moneta unica, hanno dato un forte
impulso alla creazione di occupazione, cresciuta di quasi un milione e
mezzo nel quinquennio. Tuttavia, mentre questi risultati si riflettono in
una disoccupazione media delle regioni del Centro-nord inferiore alla
media europea, con alcune realtà territoriali in cui si manifestano
fenomeni di scarsità di mano d’opera, nel Mezzogiorno, nonostante i
significativi miglioramenti registrati, la disoccupazione continua a
collocarsi a un livello più che doppio rispetto all’UE.
2
La curva di Beveridge mette in relazione (inversa) disoccupati e posti resi vacanti dalle imprese,
cioè disoccupazione e eccesso di domanda di lavoro. Cfr: Beniamino Quintieri e Furio Camillo
Rosati: “Mercato del lavoro disoccupazione e politiche di intervento”; Editore Angeli, 1991;
p.105.
3
Da Economia & Lavoro: “La Disoccupazione strutturale: un’ analisi della letteratura”; di Floro
E. Caroleo, n. 1, Gen-Mar 1993.
Capitolo 1
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Questa situazione, che a volte non appare quando si fa riferimento
alle medie statistiche su scala nazionale, mette in evidenza l’esigenza
di poter articolare le politiche e differenziare gli strumenti di
intervento per fronteggiare le situazioni segnate da forti disparità di
carattere strutturale. La realizzazione degli obiettivi di Lisbona –
consistente aumento dell’occupazione entro la fine del decennio e il
conseguimento dei primi risultati intermedi entro il 2005 – è
strettamente connessa alla possibilità di sviluppare strategie mirate,
specificamente rivolte alle problematiche regionali della
disoccupazione. Ciò implica, oltre all’impegno costante degli Stati
membri nei quali il problema delle disparità regionale si pone con
maggiore asprezza, anche un’approfondita riflessione per nuove
iniziative a livello comunitario.
Ecco che quindi si pone il problema di individuare, dopo aver definito
l’oggetto di studio (i mercati locali del lavoro) le tappe e i vari
strumenti posti in essere, attraverso cui il territorio ha tentato di
risolvere le problematiche del mercato del lavoro.
Perche studiare il mercato del lavoro a livello locale
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1.2 Definizione del mercato del lavoro locale
Il mercato del lavoro è stato definito locale
4
quando nel
corrispondente territorio vi è una spiccata concentrazione dei flussi di
domanda e di offerta di lavoro. Secondo un’altra definizione, quando
rappresenta un’insieme di relazioni sistematiche tra la popolazione
economicamente residente in un dato territorio ed il sistema
produttivo esistente in esso. Infine un’ulteriore ipotesi è che sia parte
integrante di un sistema locale di rapporti tra imprese o istituzioni
produttive e realtà sociale del territorio in cui esse sono localizzate.
Si tratta di tre definizioni del mercato del lavoro locale che rispondono
a tre logiche di analisi dei mercati del lavoro, in parte notevole
riconducibili a diversi schemi di analisi economica, con conseguenze
importanti in termini di strategie di politica del lavoro e
dell’occupazione che ne possono scaturire.
Un tentativo di applicazione del sistema di ipotesi che stanno alla base
della prima definizione, allo studio della realtà italiana può essere
considerato quello effettuato a metà anni ’80 da un gruppo di lavoro
Istat-Irpet (composto da: A. Cortese, A. Gillard, M. Masselli,
S.Openshaw, F. Sforzi, C. Wymer) che ha cercato di identificare la
struttura spaziale dei mercati del lavoro locali in cui si articolava il
territorio italiano in base ai dati del censimento del 1981 partendo da
una definizione “operativa” di mercato del lavoro locale come
“….un’area contraddistinta da una certa concentrazione di posti di
lavoro, dove la maggior parte della popolazione residente può trovare
4
Cfr: L. Frey; quaderni di economia del lavoro n. 63, tratto da: “Mercati del lavoro locali e
politiche dell’ occupazione e del lavoro”, Franco Angeli 1998; pp. 7 e ss.
Capitolo 1
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lavoro (e i lavoratori residenti possono cambiare lavoro) senza
cambiare il proprio luogo di residenza…” e quindi, in altri termini, la
principale caratteristica del mercato del lavoro locale sarebe quella
relativa al fatto che la gran parte della popolazione residente lavora
all’interno di esso, e che i datori di lavoro reclutano la maggior parte
della forza-lavoro dalle località che lo costituiscono, in modo tale che
sia i datori di lavoro che i lavoratori possiedano una nozione
abbastanza precisa dei confini del mercato locale del lavoro.
L’identificazione della struttura spaziale dei mercati del lavoro locali
in Italia è stata pertanto fatta sulla base della configurazione spaziale
che assumono gli spostamenti giornalieri per motivi di lavoro in una
tipica giornata lavorativa. Questa viene interpretata attraverso
un’appropriata funzione di autocontenimento, definita sia dal lato
della domanda che da quello dell’offerta di lavoro, (definita dalla
proporzione di popolazione residente occupata che lavora entro l’area
rispetto alla popolazione occupata che risiede entro l’area ma che
svolge altrove la propria attività lavorativa).
Un “livello di autocontenimento” del 75% condurrebbe a riconoscere
l’evidente esistenza di un mercato del lavoro locale, cosa
estremamente difficile in caso di valore inferiore al 50%.
Tali due livelli sono utilizzati per identificare i mercati del lavoro in
Italia attraverso una metodologia a cinque fasi.
Nella prima, una volta calcolata per ciascun comune una funzione di
autocontenimento dal lato dell’offerta (occupati che risiedono e
lavorano nel comune in rapporto agli occupati che risiedono nel
comune e non lavorano in esso), si è provveduto a scegliere il primo
Perche studiare il mercato del lavoro a livello locale
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venti per cento dei comuni ordinati secondo il livello dei due rapporti,
definendoli località “potenziali” di concentrazione di posti di lavoro.
Nella seconda fase, si è proceduto a verificare se nei comuni scelti si
fosse raggiunto un “livello di autocontenimento” di 0.50, non soltanto
dal lato dell’offerta ma anche dal lato della domanda (cioè in termini
di rapporto tra occupati che risiedono e lavorano nel comune e
occupati che lavorano in esso); per i comuni che presentavano almeno
tale livello da entrambi i punti di vista, è stata considerata validata la
scelta; per gli altri comuni, si è cercato (in base a criteri che fissano
l’attenzione sui flussi di lavoratori) se esistessero altri comuni con cui
potessero essere unificati.
Nella terza fase si sono considerati i comuni non scelti come “località
potenziale di concentrazione di posti di lavoro” e si sono raggruppati
in “proto-aree funzionali”, assegnandoli a località che risultavano
concentrare posti di lavoro sulla base del raggiungimento di “livelli di
autocontenimento” non inferiori a 0.75 da entrambi i lati del mercato
del lavoro.
Nella quarta fase, i comuni non assegnati sono stati inclusi nelle
“proto-aree funzionali” nei cui confronti i flussi di lavoratori
risultavano tali da massimizzare una funzione che considera i legami
reciproci intercomunali.
Nella quinta ed ultima fase le “aree funzionali” individuate sono state
sottoposte ad un procedimento di “calibratura fine”, in cui si è cercato
di mettere in luce come eventuali esigenze di inclusione (per motivi
connessi all’adozione di politiche del lavoro) di specifici comuni in
Capitolo 1
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“aree funzionali” diverse da quelle individuate nelle fasi precedenti
potessero influire sulle caratteristiche delle aree coinvolte.
Tale metodologia ha condotto alla individuazione di 955 mercati
locali del lavoro che sono stati considerati “unità elementari” delle
informazioni sul lavoro a livello locale e sono stati raggruppati in 177
“regioni funzionali del lavoro”.
La seconda definizione del mercato del lavoro locale, sopra citata,
pone l’accento sui rapporti tra strutture produttive e lavoro localmente
disponibile grazie alla presenza di popolazione in età lavorativa
disposta ad essere inserita in attività produttive, alle condizioni
monetarie e non monetarie di lavoro accessibili. Tale definizione in
sostanza mette in risalto come i mutamenti delle strutture produttive
influiscono sull’andamento della domanda di lavoro.
Quindi in sostanza l’ipotesi di fondo è che la crescita della domanda di
lavoro, in un dato territorio e nel lungo periodo, dipende
dall’evoluzione strutturale del sistema produttivo localizzato in tale
territorio, mentre l’offerta di lavoro dipende dalle caratteristiche
quantitative e qualitative della popolazione presente nel territorio.
Tale ipotesi dal lato della domanda di lavoro, assumerebbe l’esistenza
di una diversa dinamica della produttività del lavoro nei diversi rami
in cui è articolato il sistema produttivo, nonché di una diversa risposta
della domanda alla crescita della produzione dei diversi beni e servizi.
Per esprimere sinteticamente il significato della diversa dinamica
settoriale della produttività del lavoro si è fatto spesso ricorso al
concetto di elasticità dell’occupazione rispetto al prodotto: viene
quindi ipotizzato che la crescita della domanda di lavoro nel
Perche studiare il mercato del lavoro a livello locale
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medio/lungo periodo sia tanto maggiore quanto più la crescita
produttiva interessi i settori a maggiore elasticità dell’occupazione
rispetto al prodotto, ovvero quanto maggiore è, data la crescita del
valore aggiunto aggregato, l’elasticità media ponderata
dell’occupazione rispetto al prodotto. Un’elevata elasticità
dell’occupazione rispetto al prodotto non basta però, se la crescita del
prodotto, a livello settoriale è frenata dall’inadeguata espansione della
domanda dello specifico prodotto. E’ per questo che viene attribuita
importanza rimarchevole alla risposta della domanda alla crescita del
prodotto, a livello settoriale e aggregato nell’ambito della specifica
area, assumendo che, o l’eventuale specializzazione produttiva
settoriale in tale area sia accompagnata da adeguata capacità di
collocare la crescente produzione su mercati esterni, o il sistema
produttivo locale sia strutturato in modo tale da presentare una rete di
interconnessioni settoriali che rendano possibile l’assorbimento delle
produzioni locali in crescita sia nell’ambito dell’area che all’esterno di
essa.
La possibilità di aree con una spiccata specializzazione settoriale e in
deciso sviluppo è stata messa in luce dalle ricerche sui distretti
industriali di cui ci apprestiamo a parlare nel prossimo paragrafo
cercando di darne una definizione, citandone le caratteristiche, il ruolo
che hanno giocato e giocano tutt’ora nello sviluppo del territorio ed
infine cercare di inquadrare i rapporti che li legano al mercato del
lavoro.