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Introduzione
Questo lavoro si concentra su uno dei temi più dibattuti degli ultimi anni, sul quale i vari
governi che si sono succeduti sono maggiormente intervenuti e per il quale si sono verificate le
più importanti tensioni sociali. Il mercato del lavoro è in effetti da tutti considerato (insieme alla
politica fiscale) lo specchio di una società e, nello stesso tempo, l’istituzione più rappresentativa
di un’economia.
In particolare, negli ultimi due decenni, al centro dello scontro politico sul lavoro in Italia è
stato il tema della flessibilità, nel senso della necessità di una maggiore deregolamentazione del
sistema lavoristico italiano, sostenuto con forza da imprenditori e forze politiche liberali, vista
con sospetto, se non proprio osteggiata, dai sindacati e dai partiti di sinistra. Come spiegherò più
esaurientemente nel prosieguo del lavoro, per i primi il nostro mercato del lavoro era (e continua
ad essere per alcuni) non dinamico, poco elastico rispetto alle esigenze del mercato e
caratterizzato da un’eccessiva protezione a favore dei lavoratori, trovando in queste cause la
spiegazione sia dell’insoddisfacente sviluppo economico, sia della presenza di una elevata e
costante disoccupazione. Per i secondi, al contrario, l’introduzione della flessibilità veniva ad
assumere l’aspetto di un semplice espediente per poter permettere ai datori di lavoro di assumere
del personale a basso costo, sottraendosi agli obblighi derivanti dall’instaurazione di un contratto
standard, minando nel contempo la sicurezza economica dei lavoratori.
In questo lavoro cercheremo di capire quale sia invero la realtà delle cose, partendo dalle
motivazioni che spinsero i governi ad attuare riforme del lavoro improntate alla flessibilità, per
giungere infine ad una lettura, e successiva analisi, dei dati sulla situazione occupazionale degli
ultimi anni, in particolar modo per quella fascia di lavoratori direttamente interessati: i lavoratori
flessibili o atipici.
La volontà di confrontarsi con tale progetto d’analisi ha origine dal grande interesse per il
sistema lavoristico italiano, capace di rispecchiare, secondo il parere di chi scrive, il livello di
democrazia e di aggregazione sociale presente nel nostro Paese (e così anche negli altri); ma
anche per l’esigenza di monitorare lo stato delle cose a dieci anni di distanza dalla controversa e
dibattuta riforma del mercato del lavoro approvata nel 2003, la cosiddetta Legge Biagi. Seppur
non sia la prima né l’unica promulgata nel passato recente dell’Italia, questa riforma è tutt’ora
considerata la più importante mai adottata, sia per l’onnicomprensività dei temi trattati, sia per la
radicalità delle idee di cui si faceva portatrice, scatenando uno scontro politico-sociale, ma anche
economico e normativo, di rado raggiunto in Italia.
Questa ricerca sarà strutturata in più parti. Nella prima, sarà riportato un excursus teorico nel
quale saranno presentati i principali modelli economico-concettuali che nell’ultimo secolo hanno
cercato di descrivere il mercato del lavoro e i rapporti che intercorrono tra il salario e i livelli di
disoccupazione e d’inflazione: partendo dai neoclassici, e passando per le teorie keynesiane, di
Friedman e della nuova macroeconomia classica, giungeremo ad esporre i modelli più recenti,
nei quali il mercato non risulta essere in un regime di libera concorrenza, bensì influenzato da
vari fattori istituzionali, in particolar modo i sindacati.
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Nella seconda parte entreremo nel merito della situazione italiana, presentando tutte le
innovazioni legislative introdotte nel codice lavoristico degli ultimi anni, prestando
maggiormente attenzione alle nuove istituzioni contrattuali che hanno permesso la nascita dei
cosiddetti lavori atipici e sottolineando eventuali anomalie.
In seguito, procedendo nella parte terza, concentreremo l’attenzione sulle rilevazioni
statistiche riguardanti l’andamento della disoccupazione, e in generale l’intero mercato del
lavoro, degli ultimi anni, per verificare se le politiche incentrate sulla flessibilità abbiamo
realmente ottenuto i risultati sperati di una maggiore occupazione e in generale di un
miglioramento della nostra economia. Per far ciò sarà necessario soffermarci sulla quantità di
lavoratori atipici presenti in Italia e analizzarne la situazione economica e sociale.
Infine, nella quarta e ultima parte, cercheremo di capire quali conseguenze sono avvenute, o
potrebbero ancora avvenire, nella società in cui viviamo, in seguito al processo di
deregolamentazione che ha subito il sistema lavoristico italiano, citando i vari contributi che la
letteratura sociologica ha fino ad oggi prodotto.
Ma prima di tutto, cercheremo di fare chiarezza sul concetto di flessibilità. Che cosa vogliamo
intendere con essa? Quanti tipi ne esistono? Cercheremo ora di dare una risposta a queste
domande.
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Premessa
Quale flessibilità?
Propedeutico al confronto con la ricerca che stiamo per svolgere risulta essere un
approfondimento sull’idea di flessibilità. Che cosa intendono gli economisti, i politici, i
giornalisti quando dibattono su tale concetto?
In generale, viene richiamata come linea guida base di tutti quei provvedimenti che sono stati
adottati negli ultimi decenni, miranti ad una crescente deregolamentazione normativa del
mercato del lavoro di un Paese. Può esistere una flessibilità rispetto all’orario di lavoro; oppure
una flessibilità incentrata sui livelli salariali, ossia la possibilità per i datori di lavoro di
rapportare il salario a seconda della produttività e della fascia di lavoratori interessati o in
relazione alle condizioni economiche della zona geografica in cui opera; o ancora una flessibilità
cosiddetta numerica (su cui gli analisti soffermano di più la loro attenzione), ossia una maggiore
libertà di licenziamento e la possibilità per i datori di assumere con contratti a termine a seconda
delle esigenze produttive.
Secondo Paci (2007), un utilizzo razionale, equo e bilanciato di questi meccanismi di
deregolamentazione favorirebbe un miglioramento della situazione occupazionale, sia dal lato
dell’impresa che dei lavoratori; al contrario, un uso eccessivo e generalizzato di tali misure
sarebbe del tutto inconveniente, se non del tutto deleterio, per l’intero sistema economico. A tal
proposito, egli identifica due tipi di flessibilità del lavoro: una che porta ad una via bassa alla
competitività, caratterizzata da bassi salari, scarsa qualificazione professionale e produzione
scadente, nella quale preponderante è la flessibilità numerica, ed una che porta invece ad una via
alta, basata su alti salari e alta qualificazione, nella quale prevale una concezione funzionale
della flessibilità, data dalla formazione continua e la possibilità di mobilità e di carriera sia
all’interno che all’esterno di un’azienda.
Per la Capparucci (2004), esistono alcuni indicatori capaci di descrivere il grado di flessibilità
di un determinato mercato del lavoro, nonché le differenze strutturali che intercorrono tra un
Paese e l’altro. Tali parametri sono:
a) la quota percentuale di lavoro autonomo (tra i quali consideriamo anche i collaboratori)
sul totale degli occupati;
b) il peso dei contributi sociali che gravano sul costo del lavoro;
c) i costi di turnover (tra i quali l’indennità di licenziamento e i costi legati alla ricerca e alla
formazione di nuovo personale);
d) la gestione del tempo di lavoro (orari, straordinari, banca delle ore);
e) la varietà di tipologie contrattuali esistenti, ossia la possibilità di stipulare contratti atipici
(a tempo determinato, part-time, job-sharing, ecc);
f) le forme di protezione sociale (il grado di copertura ed eventuali disparità di trattamento
tra diverse classi di lavoratori);
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g) la variabilità del salario nel tempo (in relazione ai cicli economici che si avvicendano) e
nello spazio ( differenziali territoriali e settoriali).
Utilizzando tali parametri è possibile stimare il grado di flessibilità del mercato del lavoro di
un dato Paese, individuando eventuali deficit, i quali potranno essere colmati con mirati
interventi legislativi.
Ma qual è la motivazione di fondo che spinge i governanti dei vari paesi ad adottare misure
incentrate sulla flessibilità? La risposta arriva naturalmente dall’Europa, soprattutto da quella
Strategia di Lisbona approvata dagli Stati membri nel 2000, tra i cui obiettivi dichiarati
emergono quelli volti all’ammodernamento del sistema sociale europeo e alla creazione di posti
di lavoro più numerosi e migliori. Questo obiettivo è raggiungibile per l’UE tramite
l’inserimento di nuove forme di flessibilità e di sicurezza, una strategia nota come flexicurity.
La flexicurity nella visione della Commissione europea
Come già detto in precedenza, la flexicurity può essere definita come una strategia integrata
mirante ad una maggiore flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro.
Per quanto riguarda al flessibilità, essa non si riferisce semplicemente alla possibilità per le
imprese di licenziare liberamente, né determina il decadimento dell’istituto del contratto a tempo
indeterminato. Essa significa, invece, la facoltà di assicurare ai lavoratori posti di lavoro più
consoni alle proprie capacità, la mobilità ascendente dovuta al miglioramento delle competenze
professionali ed una migliore conciliazione tra lavoro e vita privata, senza dimenticare una più
efficiente elasticità delle organizzazioni del lavoro capace di rispondere alle diverse esigenze
della produzione. Per quanto riguarda la sicurezza, essa non indica esclusivamente la sicurezza
del posto di lavoro e le indennità di disoccupazione, bensì include meccanismi che permettano di
dotare le persone delle capacità di progredire nella loro carriera professionale, anche attraverso
percorsi di formazione continua, e di trovare nuovi posti di lavoro ogniqualvolta ne abbiano
bisogno.
Secondo la Commissione europea (2007), sono quattro le componenti politiche attraverso le
quali è possibile attuare la strategia della flexicurity, sulle quali si è venuta a formare una
convergenza di consensi degli Stati membri. Queste componenti sono:
forme contrattuali flessibili ed affidabili sia nell’ottica del datore di lavoro che dei
lavoratori, tramite un ammodernamento della normativa del lavoro, della contrattazione
collettiva e dell’organizzazione del lavoro;
strategie integrate d’apprendimento lungo tutto l’arco della vita che permetta una
continua adattabilità e occupabilità dei lavoratori, soprattutto di quelli più vulnerabili;
efficaci politiche attive del mercato del lavoro che velocizzino i tempi di transizione,
riducendo i periodi di disoccupazione e facilitando il passaggio verso nuovi posti di
lavoro;
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sistemi moderni di sicurezza sociale che, senza scoraggiare la ricerca di un nuovo posto
di lavoro, forniscano un adeguato supporto al reddito e aiutino la conciliazione tra tempo
privato e tempo di lavoro.
Un giusto equilibrio tra queste quattro componenti, e quindi tra flessibilità e sicurezza,
provocherebbe secondo la visione della Commissione europea una sensibile riduzione della
disoccupazione, transizioni da un lavoro all’altro più numerose ma più sicure e occupazioni
qualitativamente migliori.
Nel prosieguo del lavoro cercheremo di capire quanto l’Italia abbia recepito i consigli della
Commissione e quali cambiamenti siano avvenuti nella legislazione lavoristica italiana in seguito
all’adozione della strategia della flexicurity.