5Homo Homini Humanus
Società immunitaria, società comunitaria. La differenza decisiva consiste nell’organiz-
zarsi della prima intorno ad un patto, che comporta per chi lo stringa il non poter più es-
sere completamente se stesso.
Non si tratta semplicemente di passare dallo stato di natura a quello di cultura: c’è uno
scarto netto che impone ad ogni novello cittadino di essere diverso da quel che è. Non
basta frenare la propria istintività, la rinuncia è molto più ampia e comporta un totale ab-
bandono della personale potenza e libertà, almeno fino a quando sia salvaguardata la si-
curezza individuale.
Hobbes vs Spinoza.
Per questo confronto mi riferisco al fondamentale scritto di Emilia Giancotti Boscheri-
ni
1
, nel quale l’autrice paragona il pensiero dei due autori, mettendo in luce cinque im-
portanti differenze.
Quella fondamentale è che Hobbes costruisce un sistema sull’alienazione del diritto na-
turale, Spinoza su di un suo esercizio razionale.
Punto due: a differenza di Hobbes, Spinoza non delinea chiaramente il momento del
contratto, a mio avviso perché nel suo pensiero non c’è rinuncia alla propria personale
potenza e libertà.
Questo perché (punto tre) sono entrambe le parti ad assumere obblighi e a dover rispetta-
re il patto, moltitudine e detentore di potere, mentre il Leviatano è una perfetta macchina
dell’obbedienza, cui i sudditi possono ribellarsi solo se la loro vita è in pericolo.
Di conseguenza (punto quattro) Spinoza insiste particolarmente sulla libertà di pensiero
e di parola, veicolo di ogni possibile critica, mentre Hobbes non solo non le prevede, ma
legittima la censura di dottrine perniciose, che siano di pericolo per la sicurezza dello
Stato.
1
Emilia Giancotti Boscherini, Individuo e stato nelle prime teorizzazioni dello stato moderno. Hobbes e Spinoza a confron-
to, Urbino, Quattroventi 1992. In questa interpretazione ritrovo le parole di Negri: “in Hobbes la libertà si piega al potere, in
Spinoza il potere alla libertà”. Vedi Antonio Negri, Spinoza, Roma, Derive Approdi 1998, p. 47.
6Infine (punto cinque) differente è la modalità dell’obbedienza: in Hobbes è assoluta ed è
direttamente proporzionale alla sicurezza garantita, in Spinoza è esercitata secondo ra-
gione e vuole in cambio anche libertà; questo perché lo stesso potere spinoziano si eser-
cita razionalmente, mentre in Hobbes si fonda sulla forza.
In sostanza, entrambi parlano di una multitudo che si organizza e diventa una: ma “lo
stato hobbesiano governa sulla multitudo, da cui si esige totale obbedienza, lo stato (de-
mocratico) spinoziano governa con la multitudo poiché con essa si identifica
2
”.
Immunitas vs Communitas.
Mi riferisco al senso attribuito da Roberto Esposito a questi due termini
3
.
Prendo Hobbes come prototipo immunitario e Spinoza come prototipo comunitario,
perché se “la comunità è ciò che appartiene a un collettivo e ciò cui questo appartiene
come al proprio genere sostanziale: communitas entis
4
”, forse non è una forzatura ecces-
siva pensare al munus come dio spinoziano.
Si tratta di intendere il munus non come una mancanza, ma in positivo senza però ren-
derlo un proprium.
In altri termini: nel prototipo immunitario, il corpo è una proprietà, un avere e non un es-
sere. In quanto tale va preservato, è in pericolo come ogni nostra proprietà, va difeso dai
nemici esterni e addirittura da quelli interni.
Ma isolarsi, difendersi dall’esterno, fortificarsi, arroccarsi è esattamente la via migliore
per essere espugnati. Oltretutto l’esperienza mostra che il nostro peggior nemico è inter-
no. Con noi stessi dobbiamo fare i conti, difendersi dall’esterno manifesta un’insicurez-
za che alimenta se stessa.
Se il corpo deve difendersi dall’esterno, non può donarsi ad esso; così muore. Il corpo si
dimentica di sé se non può donarsi.
Viceversa, quello che dividiamo nel prototipo comunitario è il corpo, e mi riferisco a
Spinoza perché nella sua analisi afferma che si può pensare ad una Sostanza nella sua
molteplicità (manifestantesi nella multitudo), e che la mente non è che idea del corpo.
“Corpo” sarebbe, nella terminologia spinoziana, “modo dell’attributo dell’Estensione”
(estensione, che è una delle infinite caratteristiche della Sostanza): questo pensiero ri-
manda al “genere sostanziale del collettivo”. La Sostanza in nient’altro consiste che nel
dinamismo dei suoi modi.
Effettivamente, senza confronto le persone non possono conoscere neanche se stesse.
2
Ivi, p. 24. “se il potere che è stato costruito dal processo formativo della multitudo è assoluto, questo non significa (contro
le teorie della fondazione trascendentale e del trasferimento contrattuale della sovranità) che esso non sia pur sempre su-
bordinato alla vicenda della comunità”, p. 304; “La multitudo, considerata dal punto di vista della ragione è (...) fondamento
di tolleranza e di libertà universali”, p. 329. Vedi anche A. Negri, Spinoza, cit.
3
Roberto Esposito, Communitas, Torino, Einaudi 1998.
4
Ivi, p. XIX.
7Conoscersi o meglio trovarsi. Ma se si è da soli non si può partire, e la condizione di so-
litudine non è fisica ma pensata, è di chi attua comportamenti immunizzanti sempre, an-
che nelle azioni quotidiane più banali.
Chi è immunitario non è neanche se stesso, perché da sempre nelle società immunitarie
viene richiesto alle persone di essere diverse da ciò che sono. Di essere altro.
Diciamo che da un certo punto di vista “società immunitaria” è una contraddizione in
termini, perché quello da cui bisogna difendersi è esattamente il legame sociale. La so-
cietà non esiste, è più appropriato parlare di un agglomerato di individui soli, uniti da un
contratto. Il proprium in comune è quello.
Il sistema immunitario (interno-esterno) ha il compito di difendere il corpo ed ogni altro
tipo di proprietà. Paradossalmente, però, quel che sfugge in questa prospettiva è proprio
l’identità del nemico. Chi è il pericolo? Dove? Da chi dobbiamo difenderci?
Per esempio, il vaccino è il virus in forma leggera, iniettata, che stimola le difese immu-
nitarie. Ottima idea.
Ma cosa succede quando il corpo non riconosce più se stesso?
In altri termini, il problema sorge quando l’immunità prende il sopravvento, quando ven-
gono attaccati nemici che nemici non sono. Abituato ad interpretare ruoli, a fingere di
essere, ad apparire, il corpo non si riconosce più. Dunque il sistema immunitario (inter-
no-esterno) finisce per distruggere la vita che aveva il dovere di proteggere.
Probabilmente l’attribuzione di pericolo ad un’alterità, uno straniero, va da un lato fram-
mentandosi nei multiformi stili di vita, nelle specializzazioni prese in senso lato, che for-
mano società nelle società e indeboliscono stereotipi generalmente condivisi; dall’altro
moltiplicandosi a livelli esponenziali, come effetto della globalizzazione
5
.
È impossibile una definizione univoca del nemico, non tanto perché non ne esista uno
per tutti, quanto perché se quel che va difeso è qualcosa di esterno (anche il corpo, in
quanto ruolo indossato) tutto è potenzialmente nemico. La xenofobia e l’igienismo na-
scono chiaramente dalla stessa mentalità.
È quindi impossibile non arrivare a due dolorose disfunzioni (interne-esterne): il non cu-
rare pericoli effettivi; l’attaccare le difese stesse (se un corpo recita, come può ricono-
scere il buono e il cattivo in sé?).
Ma prima che si arrivi a questo, si tenta di migliorare le proprie capacità immunitarie;
palestre, pasticche, persino vacanze, il corpo va fortificato esattamente come aggiungia-
mo un altro sistema d’allarme a portoni già blindati, come lasciamo scorazzare per il
giardino delle macchine da guerra addomesticate (saperle lì è già un valido motivo per
non star tranquilli). Folle debolezza lucidissima.
5
Ciò che diventa obsoleto è il concetto di nazione e di classe sociale. Da un lato abbiamo la regione e lo stile di vita, dall’al-
tro il mondo e il globalizzato.
8Poi si accende la tv e da lì ci arriva una società selezionata, formidabile scuola di pensie-
ro (quasi sempre, immunitario). A quel punto, con il telecomando in mano, è bello la-
sciarsi andare al sentimento e condividere le tristi storie che vengono raccontate, im-
precare contro l’insensibilità umana per tanto dolore e magari ripromettersi di compilare
un bollettino postale per i più bisognosi. Anche i sistemi immunitari hanno previsto il
dono, sotto controllo organizzato: si chiama anche regolatore di coscienza.
Fino a quando si spegne la tv. E prima di dormire si controlla un’ultima volta il sistema
di allarme. Questo spazio è mio.
Questa è la società nella quale stiamo (soprav)vivendo, neo-liberalismo di “individui”;
immunità contro comunità esprimentesi soprattutto e principalmente nelle aspettative so-
ciali che impongono urgentemente l’acquisizione di ruoli, maschere da indossare, parti
da recitare. La vita è un palcoscenico? Basta non essere come siamo (sfido che poi non
ci si riconosca, soprattutto che si perda il senso di buono e cattivo).
Come se veramente fosse possibile. Come se potessimo scegliere di non essere, cioè di
esistere in un altro modo. Quello che sfugge è a che condizione, in quale modo e quando
mai una persona potrebbe semplicemente apparire. Senza essere.
Caso mai, è sempre esattamente il contrario.
Non solo non ho bisogno di pensare per sapere che sono, ma l’esistenza è anche l’unica
condizione (nel)la quale posso conoscere. La condizione esistenziale è immodificabile,
imprescindibile e inalterabile. Siamo. Sempre. Non possiamo mai semplicemente appari-
re perché mai possiamo non essere.
E se il mondo è un palcoscenico allora siamo apparenti, o anche appariamo l’essere
6
(espressione speculare e complementare alla prima), almeno quanto è possibile che una
maschera sia rappresentazione ed immedesimazione di sé, come il retro è il fronte di un
foglio. In fondo non si può recitare, il nostro esistere ci lega alla nostra essenza, sempre
quella manifestiamo.
Tutt’al più possiamo diventare maschere
7
.
Qui sta lo scarto, la Communitas è strettamente legata al nostro esistere; viceversa, senza
gli altri non c’è nessuno, se io non potessi crescere-con, non crescerei affatto, le persone
sono proprio la mia essenza. Senza di esse non potrei neanche conoscermi. Ovvero,
“qualcuno mi guarda” è un altro modo per dire “anche così io mi vedo”.
6
Mi riferisco qui ancora al concetto spinoziano di Corpo come modo dell’attributo dell’Estensione della Sostanza.
7
Se il munus è il nostro impegnarci, nel senso di darci-in-pegno, allora noi siamo negli altri, a tutti gli effetti. Quindi non si
può più parlare di ruoli.
9Poiché lo sguardo (mio-altrui) serve a conoscer-si con-negli altri, l’atto del vedere è ve-
dere in, che nell’esperienza della frammentazione (interna-esterna) potrebbe assomiglia-
re al vedere con (dato che in te trovi altri)
8
, perché apparenza è sempre manifestazione.
È per questo che l’unico mezzo di conoscenza è il corpo (se proprio vogliamo mantenere
la distinzione mente-corpo, possiamo al massimo definire la mente idea del corpo
9
), pa-
lestrarlo, impasticcarlo significa dimenticare se stessi come doni. L’unico modo per
forti-ficarsi è il contatto, l’incontro, il confronto e nel caso lo scontro. Chiudersi nelle
case blindate significa essere già morti.
All’interno della communitas c’è un rischio: che le persone perdano il senso di sé, non si
riconoscano più se divise dagli altri. Cioè, che non riescano a tenere in sé la divisione
dagli/degli altri. È questo il nodo tra essere e potere, capirsi. Darsi un senso significa
darlo alle proprie azioni, significarsi.
L’esperienza della communitas è quella della divisione, nel senso della multiformità
dell’essere, che ciascuno accoglie in sé come un valore, come un dono.
Ricevere in dono la multitudo e farla nelle azioni, diventare dividui; o meglio ricono-
scersi come tali.
L’insegnamento della communitas non può vincolare a sé.
Communitas insomma, non comunitarismo, non comunità a tutti i costi. Se restasse sem-
pre l’unico valore che conosciamo, non potremmo neanche apprezzarlo. Anzi, prima di
poter capire che è un valore, dobbiamo esperire altre situazioni, provare anche la solitu-
dine ed amarla.
Bisogna saper partire, mettersi in gioco.
Divenire ciò che si è.
Spesso la solitudine realizzata denota una situazione comunitaria.
La divisione come esperienza della communitas, anzi l’impossibilità di poter anche solo
pensarsi senza nessun altro, nasce dal fatto che in fondo non c’è differenza tra capire e
con-tenere. Non c’è nulla da prendere, da con-prendere. C’è qualcosa da portare e da te-
nere insieme
10
.
8
Quando Hannah Arendt dice che “Per avvicinarsi nel pensiero a una cosa o anche a una persona, essi devono essere lonta-
ni dalla percezione immediata” (Hannah Arendt -Martin Heidegger, Lettere 1925-1975 e altre testimonianze, Torino,
Edizioni di Comunità 2001, p. 145), secondo me non afferma che la lontananza deve essere fisica. Penso che si possano
allontanare anche quando sono presenti.
9
Con questa definizione di mente a mio avviso Spinoza supera il dualismo corpo-mente. Parlare di parallelismo non rende
l’idea, perché si trascurerebbe il loro essere modi diversi di attributi della stessa sostanza. Al massimo si può parlare di sim-
metria.
10
In tutto questo lavoro cercherò di usare sempre capire e tenere-con come sinonimi.
10
Quello che noi capiamo è il con-tenuto. Ha il significato che gli daremo.
Partiamo sempre dall’essere-con.
Se non fosse che una convenzione ritenere l’interno scisso dall’esterno, me autonomo
dagli altri, direi che partiamo sempre dall’essere-esterni, dall’essere-altri.
La possibilità di creare una differenza interno-esterno viene dal poter costruirsi come
tenuto-con significato che formerà con-tenuto.
Come nome, aggettivo e verbo, il contenuto in senso lato cambia solo nell’arbitrarietà
del significato che gli si attribuisce. Arbitrarietà molto poco volontaria, nessuno può pre-
scindere dai propri contenuti.
In altre parole, il contenuto di un testo non è che il con-tenuto del lettore, e il tenuto-con
dello scrittore, ovvero come esperienza personale di un percorso che nel senso del parti-
cipio passato è sinonimo di testo, nel senso del nome equivale a persona
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; non si può
pensare di scrivere altro, né di leggere altro. Così come il con-tenuto di un libro è qual-
cosa che lo scrittore per primo ha avuto la volontà di capire.
Come contenuto, in queste righe ci sono proprio io (per quello che questo pronome
“personale” ancora può significare). Lo “scrittore” è colui che sta essendo negli occhi di
chi sta leggendo.
Attraverso questo significato si pensa all’umano non come capiente (capiens, participio
presente di capere, capire) ma come contenuto.
Chi ti capisce ti tiene-con, anche quando partirai. Così non ti lascia solo; anzi, potrai par-
tire perché avrà saputo tenerti. Solo in questo caso possiamo tenerci-con, cioè così pos-
siamo capirci.
Chiunque resta in chi sceglie di con-tenerlo, in chi sprona a prendere la strada; così ti
ama. Ti dà un punto fermo. Ti tiene-con, qui. Ti tiene-con sé; tenere-con qui e tenere-
con sé è la stessa cosa. Ti capisce.
Tu vai pure.
Soprattutto capirsi è un tenere-con, è un essere stati contenuti
12
.
Autocoscienza, forse, è capire di essere stati capiti, come possibilità di capir-si.
Chi non è stato tenuto-con non ha nulla da cui partire, perché non sa se stesso.
È nel tenere-con che possiamo capire gli altri, e questo atto, per quello che comporta, ha
sempre un ritorno, un risultato sui nostri significati. Questa azione si risolve in una mag-
giore presa di coscienza dei propri contenuti, nel senso della crescita, dell’autocoscienza.
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In entrambi i sensi, forse non si può essere solo lettori del percorso che si sta facendo (essendo?) e che si è fatto (stati?).
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Esiste un nesso tra il non capirsi e il non essere stati con-tenuti, o almeno il credere di non esserlo stati.