In questo caso, infatti, sebbene la nozione di lotta al terrorismo non si esaurisca in
quella tradizionale di guerra (in quanto il terrorismo viene concepito in genere come
un reato che si sconfigge prevalentemente con operazioni di polizia e intelligence e
che si condanna nei tribunali), il quadro complessivo che emerge, come si
dimostrerà nel corso della tesi, unifica le diverse nozioni, riducendo il loro grado
reciproco di diversità e sottolineandone invece le analogie. Il messaggio che emerge
da quello che potremmo chiamare War Frame, è allora che il Paese è in guerra
(contro i terroristi, i talebani e il regime di Saddam Hussein); l’effetto conseguente è
la mobilitazione di consenso intorno al Capo dello Stato che diventa adesso anche
commander-in-chief.
Lo scopo di questa tesi è dunque quello di ricostruire i principali frames presenti nel
discorso presidenziale di G. W. Bush dal 2000 al 2006, analizzare il modo con cui
le diverse cornici sono state costruite (ed in particolare su quali conoscenze
condivise, prodotte dalla storia e dalla cultura dalla nazione americana, i frames
presidenziali si basino) e capire la scelta di usare, modificare o abbandonare certi
frames in relazione al mutamento dei contesti.
Abbiamo suddiviso l’arco temporale preso in esame in tre periodi selezionando per
ciascuno di essi un corpus di discorsi particolarmente significativi: per il primo
periodo, che va dalla candidatura ufficiale di Bush per la corsa presidenziale del
2000 all’inizio del suo primo mandato, abbiamo analizzato l’Acceptance Speech e il
discorso di insediamento; per il secondo, che va dagli attentati dell’11 settembre alla
rielezione di Bush nel 2004, abbiamo analizzato il discorso presidenziale del 20
settembre 2001, il secondo Acceptance Speech di Bush e il suo secondo discorso di
insediamento; per l’ultimo periodo abbiamo preso in esame il discorso sullo Stato
dell’Unione 2006, il discorso alla nazione tenuto dal Presidente lo scorso 6
settembre con cui si ridefinisce la strategia di lotta al terrorismo e, per concludere,
il discorso di commemorazione per il quinto anniversario degli attacchi alle Twin
Towers.
4
I
Le elezioni presidenziali del 2000
Con le elezioni presidenziali del 2000 si chiudeva negli Stati Uniti il ciclo politico
iniziato nel 1992 con l’elezione alla Casa Bianca del democratico William (Bill)
Clinton i cui due mandati erano stati segnati dalla più grande crescita economica del
paese dopo la seconda guerra mondiale
1
.
Il candidato a successore di Clinton per il partito democratico era Albert Gore, già
vicepresidente, al quale si opponeva il repubblicano George W. Bush, già
governatore del Texas e figlio dell’ex presidente George W. H. Bush.
Accusato da più parti di non essere adeguato a ricoprire la carica presidenziale per la
sua scarsa preparazione in materia di politica estera e per la sua non brillante oratoria
(che gli fece meritare l’appellativo di ‘mangler of the English language’) oltre che
per i trascorsi da alcolista prima della conversione alla Chiesa Metodista intorno alla
metà degli anni Ottanta, Bush era generalmente considerato uno spoilt young man
senza troppe possibilità di riuscire a sfondare nella politica nazionale
2
.
Il bisogno di autolegittimazione come potenziale Presidente fu dunque per Bush
un’esigenza primaria durante la campagna del 2000. La campagna elettorale, la cui
organizzazione venne affidata a Karl Rove, si giocò essenzialmente su due temi: le
finanze (con la promessa di Bush di realizzare, se eletto, un taglio fiscale di 1,6
miliardi di dollari) e la riforma del sistema scolastico.
Diversi osservatori hanno però messo in luce la centralità di un'altra grande tematica,
quella religiosa:
1
Si veda Mammarella, G., Liberal e conservatori. L’America da Nixon a Bush, Editori Laterza,
Roma – Bari 2004, p. 96.
2
Daalder, I.H. – Lindsay, J.M., America Unbound: the Bush Revolution in Foreign Policy, The
Brookings Institution, Washington DC 2003, trad. it. America senza freni. La rivoluzione di Bush,
Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 27.
5
La religione ebbe un ruolo fondamentale nelle elezioni presidenziali del 2000; un ruolo, se
possibile, ancora più importante di quello che aveva avuto in tutte le altre elezioni della storia
americana […] Il boom economico degli anni Novanta e l’assenza di serie minacce esterne diedero
spazio alla moralità come elemento centrale delle battaglie politiche che avrebbero portato alle
elezioni […] Nel 2000 il 14% dell’elettorato identificava nell’aborto il problema numero uno; poi
venivano la preghiera nelle scuole, l’appoggio del governo alle organizzazioni benefiche di
ispirazione religiosa, e i diritti dei gay. Come disse un osservatore, diversamente da quanto era
accaduto alle presidenziali del 1992, lo slogan avrebbe potuto essere: “Non è più l’economia,
stupido”
3
.
Nell’analisi del politologo di Harvard S. Huntington, proveniente da ambienti vicini
alla Destra, i candidati del 2000 si spinsero ben oltre semplici affermazioni
generiche di religiosità ma rivendicarono, di fronte ad un elettorato che secondo i
sondaggi la pensava in gran parte come loro, un’identità cristiana
4
.
Secondo l’interpretazione di Huntington la religione cristiana e i valori morali che da
essa scaturiscono tornavano ad essere, nel discorso politico, elemento costitutivo di
un’identità nazionale messa in crisi dal confronto con le nuove culture che gli
intensificati flussi d’immigrazione stavano portando negli States
5
.
I politici avrebbero dunque sfruttato queste tendenze dell’opinione pubblica per
costruire il proprio messaggio elettorale e, ancor prima, la loro identità politica e la
loro leadership.
3
Huntington, S. P., Who Are We? The Challenges to America’s National Identity, Free Press,
New York 2004, trad. it. La nuova America, Garzanti, Milano 2005, p. 415. “It’s the economy,
stupid!” era stato lo slogan della campagna di Clinton contro George W. H. Bush nel 1992.
4
A riguardo, è nota la risposta di Bush alla domanda che gli venne rivolta durante la campagna
elettorale in un programma televisivo su chi fosse il suo filosofo preferito alla quale il candidato
repubblicano rispose “Gesù”. L’episodio è riportato in Huntington, S. P., La nuova America, op.
cit., pag. 421.
5
Ibidem, pag. 351.
6
1.1. Politica, religione e morale nella tradizione statunitense
1.1.1. Un breve excursus
La religione e la morale, che da essa ha origine, hanno sempre avuto uno stretto
legame con la politica in ambito statunitense. Il fenomeno era già stato osservato
nell’Ottocento da Tocqueville secondo il quale la religione in America era
considerata fondamentale per la conservazione delle istituzioni repubblicane
6
. Per
cogliere le radici profonde dell’intreccio che si è venuto a creare negli Stati Uniti tra
l’ambito morale-religioso e quello politico occorre tuttavia fare riferimento
all’immigrazione puritana nel New England nel XVII secolo quando gruppi di
“dissenzienti” lasciarono l’Inghilterra, in cui erano perseguitati a causa del loro
credo
7
, alla volta del Nuovo Mondo, animati dall’idea di dover compiere una
missione che era al tempo stesso religiosa e politica: la creazione di una nuova
società in cui la verità in cui essi credevano avrebbe trionfato nonostante le
sofferenze che erano state loro imposte
8
.
Tale società sarebbe stata fondata sul Covenant, patto tra i membri della nuova
comunità che doveva essere libera da ogni gerarchia sul piano religioso e su quello
politico: il bond of love con Cristo che legava tra loro i “rigenerati” sarebbe stato
anche la base della comunità politica che essi avrebbero creato.
Nel discorso che tenne sulla nave Arbella mentre stava giungendo sulle coste
dell’attuale Massachuttes il predicatore puritano e futuro governatore della colonia
John Wintrop disse:
6
Tocqueville, A. de, De la démocratie en Amerique, Les Editions Gallimard, Paris 1992, trad. it.
La democrazia in America, BUR, Milano 1999, cap. 2.
7
Con l’Act of Uniformity del 1559 si stabilì che coloro che non si fossero uniformati alla Chiesa
anglicana sarebbero stati perseguiti per legge. Già con l’anglicanesimo si era creata in Inghilterra
una stretta unione tra religione e politica.
8
Dragosei, F., Lo squalo e il grattacielo. Miti e fantasmi dell’immaginario americano, il Mulino,
Bologna 2002, pp. 15-17.
7
We shall be as a city upon a hill, the eyes of all people are upon us
9
.
La metafora della città sulla collina richiama la profezia biblica della città celeste
della fine dei tempi risplendente per il bene operato dai suoi cittadini e per la
benedizione divina.
I puritani sono così il popolo eletto, pre-destinato alla salvezza che essi troveranno
nel Nuovo Mondo, il continente su cui gli europei avevano proiettato, già a partire da
Colombo, l’immagine utopica del nuovo Eden
10
. Tale concezione entrò da allora
nella mentalità statunitense: lo stato è garante dell’ordine politico e di quello morale
per quanto non vi sia una religione di stato ma una pluralità di culti.
La Dichiarazione di Indipendenza, documento fondante della nazione americana, ha
sancito questo principio con il richiamo ai diritti alla vita, alla libertà, alla ricerca
della felicità che sono principi di origine divina e allo stesso tempo i valori alla base
della nuova comunità politica.
La dottrina del Destino Manifesto, nata come giustificazione per la politica di
espansione che gli Stati Uniti adottarono a partire dai primi decenni dell’Ottocento,
sostiene che l’America ha un destino ineluttabile, perché affidatole da Dio: far sì che
nel mondo trionfi la libertà. Gli Stati Uniti sono inoltre la nazione del futuro perché
sono la prima nazione che ha la propria ragion d’essere nell’uguaglianza tra gli
uomini contro le ingiustizie e disuguaglianze della vecchia Europa, destinata a
decadere.
Nell’ipotesi della frontiera, formulata dallo storico Frederick Jackson Turner
all’inizio del Novecento, religione e politica si intrecciano ancora. Turner sostiene
che la storia americana sia stata determinata dall’incontro/scontro tra la forza della
civilization e quella della wilderness. L’incontro tra le due forze, avvenuto sulla
9
La citazione è riportata in Boorstin, D. J., The Americans. The Colonial Experience, Vintage
Books, New York 1958, cit. in Dragosei, F., Miti e fantasmi dell’immaginario americano, op. cit,
p. 17.
10
Boitani, P., L’ombra di Ulisse, il Mulino, Bologna 1992
8
frontiera, ha portato alla nascita del vero uomo americano: il pioniere, l’uomo che
combatte per la propria realizzazione ma che è al tempo stesso solidale con i membri
della propria comunità:
Il pioniere è un uomo “rinato”, un uomo nuovo, che, abbandonati gli inutili formalismi e
intellettualismi della cultura europea da cui è fuggito, riconquista una speciale capacità di fare, di
agire innovativamente sull’ambiente, di conquistarlo e reiniziare una civiltà. Contro l’ormai
sclerotizzata civiltà europea, dalle foreste americane è nata una civiltà nuova, operativa,
pragmatica, fondata sulla capacità naturale del singolo di decidere e di agire. Una civiltà, per di
più, non solo individualista, ma veramente sociale. In America, infatti, gli individui non sono
costretti a associarsi secondo gli innaturali schemi gerarchici dell’Europa, perché si uniscono
guidati dai bisogni concreti della sopravvivenza e, quindi, lo fanno spontaneamente e come uguali.
La necessaria conseguenza è la democrazia […]
11
.
Sottesa all’idea della rinascita sociale e politica c’è quella della rinascita spirituale:
Immergendosi nella natura vergine l’emigrante torna a uno stadio di purezza assoluta, subisce un
rinnovamento che è come un battesimo o, meglio, una rigenerazione – nel senso forte della
teologia protestante -. L’artificialità, la complessità, l’eredità di peccato dell’Europa vengono
bruciate; una umanità perdonata, pienamente in accordo con la propria natura, al pari del cristiano
che ha ricevuto lo Spirito ed è rinato in Cristo, è pronta a riprendere il cammino
12
.
Alla compenetrazione tra sfera politica e sfera religiosa-morale hanno fatto
riferimento anche diversi presidenti; nella sola seconda metà del Novecento
Kennedy, Reagan e Clinton che propose nella sua campagna elettorale del 1992 la
creazione di un nuovo Covenant.
11
Bonazzi, T., “Politica, religione e storia nella tradizione americana”, in Bollettieri Bosinelli, R.
M., U.S. Presidential Election 1984: an Interdisciplinary Approach to the Analysis of Political
Discourse, Pitagora Editrice, Bologna 1986, p. 32.
12
Ibidem.
9
1.1.2. I valori come frame
L’ambito morale e religioso costituisce un elemento centrale anche del progetto
politico di Bush, ispirato al cosiddetto compassionate conservatism così definito dal
futuro Presidente:
It is to put conservative values and conservative ideas into the thick of the fight for justice and
opportunity
13
.
L’elemento etico ispirato, come Bush stesso avrà modo di dire nei suoi discorsi, dal
credo evangelico, è una componente fondamentale di questa dottrina politica e ad
esso verranno ricondotte tutte le proposte politiche da lui lanciate durante la
campagna elettorale.
Sia che parli di finanze, politica estera, lavoro, istruzione o ricerca scientifica la
‘giustificazione’ di queste proposte viene sempre trovata da Bush nella morale e nei
suoi valori.
Non solo le singole proposte, ma l’intero progetto politico fino alla stessa
candidatura di Bush a Presidente degli Stati Uniti troveranno la loro legittimazione
nel cristianesimo, come emergerà nel corso dell’analisi.
La morale è infatti il frame centrale del discorso politico di Bush oltre che il suo
grande punto di vantaggio rispetto al rivale Gore che pure i sondaggi pre-elettorali
davano approssimativamente al suo livello: parlare attraverso frame (reiterando il
messaggio come appunto si fa in una campagna elettorale) permette infatti di
semplificare la realtà ‘inquadrandone’ diversi aspetti in una unica cornice e rendere
dunque il messaggio più immediatamente comprensibile
14
.
13
Bush, G. W., Acceptance Speech, Philadelphia, Pennsylvania, 3 agosto 2000 (il testo è
disponibile su http://www.4president.org/speeches/bushcheney2000convention.htm).
14
Per un approfondimento sul framing si veda lo studio di Lakoff pubblicato su
http://www.rockridgeinstitute.org/projects/strategic/simple_framing/view.
10
1.2. L’Acceptance Speech
1.2.1. La grande famiglia americana
Le strategie discorsive usate da Bush durante la campagna del 2000 sono
essenzialmente mirate a porre in primo piano l’unità della nazione americana e ad
esaltare quelli che sono i valori storicamente condivisi da essa.
Negli Stati Uniti descritti da Bush non ci sono profonde fratture o motivi di scontro;
gli elementi di crisi e di rottura della stabilità sono presenti ma sono, come vedremo,
estranei all’America, all’americano e alla sua identità.
Il principale strumento di cui il candidato repubblicano si serve per esprimere l’unità
dell’America nel suo Acceptance Speech
15
è la metafora LA NAZIONE è UNA
FAMIGLIA, una delle più usate nel linguaggio politico
16
.
Espressioni come padre della nazione, padri fondatori, terra madre e madrepatria,
fratelli e sorelle, i figli di una nazione, la famiglia delle nazioni, i nostri vicini, paesi
amici sono state così utilizzate nel corso dei secoli (anche nel linguaggio comune)
che diventa perfino difficile riconoscerle come metafore.
La metafora della nazione come famiglia è stata variamente elaborata nel corso del
tempo ma sono fondamentalmente due le figure ad essa riconducibili che hanno
avuto maggior successo: quella della famiglia/nazione sottomessa all’autorità del
15
L’Acceptance Speech è il discorso con cui, nella tradizione politica statunitense, il candidato
uscito vincitore dalle primarie accetta la nomination del suo partito a correre per la carica
presidenziale. Da ora in avanti si userà l’abbreviazione A.S.
16
Bollettieri Bosinelli, nel suo studio sul discorso politico americano in occasione delle elezioni
presidenziali del 1984, sottolinea la rilevanza della nozione di famiglia nel contesto politico
statunitense ed in particolare della sua valenza metaforica: “It is this metaphoric use that is most
interesting in that it allows an assessment of a clear political ideology, based on the traditional
values of American society”. Si veda Bollettieri Bosinelli, R. M., “Aspects of the Grammar of
Political Discourse”, in Bollettieri Bosinelli, R. M., U.S. Presidential Election 1984: an
Interdisciplinary Approach to the Analysis of Political Discourse, op. cit., p. 125.
11
pater familias ovvero il sovrano, e quella, diffusasi dopo la rivoluzione francese,
della famiglia come comunità di fratelli in cui il valore principale che lega tra sé i
membri non è più l’obbedienza/sottomissione ma l’uguaglianza
17
.
Considerando la nazione nei termini di una famiglia si sottolinea la natura armoniosa
e a-conflittuale delle relazioni tra i suoi componenti: la famiglia è infatti
tradizionalmente vista come un gruppo unito all’interno del quale ognuno si sente
protetto e a proprio agio.
I pericoli non vengono dagli altri membri della famiglia (a meno che non sia il caso
di un tradimento dei propri familiari, considerato non a caso il più grave tra i
tradimenti) ma dall’esterno: una volta varcata la soglia domestica ed entrati nella
propria casa (la casa dove abita la propria famiglia) ci si sente al sicuro
18
.
Gli elementi principali della famiglia/nazione a cui Bush fa riferimento, come
vedremo più avanti, sono:
- l’autorità paterna/materna
- l’uguaglianza tra i fratelli/sorelle
- la centralità dell’istituzione matrimoniale per la sopravvivenza della famiglia.
1.2.1.1. Genitori e figli
Nella famiglia/nazione di Bush i genitori sono gli americani delle passate
generazioni che hanno contribuito alla formazione della potenza americana mentre i
figli e le figlie sono gli americani di oggi. I genitori hanno lasciato un’eredità ai
propri figli, una nazione grande e forte che i figli hanno il dovere di migliorare.
In questo senso l’eredità ricevuta dai padri non è tanto un dono di cui godere, quanto
un compito da portare avanti mediante il lavoro delle proprie mani (ovvero un
impegno diretto, in prima persona).
17
Rigotti, F., Il potere e le sue metafore, Feltrinelli, Milano 1992, p. 85.
18
Sulla rilevanza della casa nell’immaginario statunitense si veda il paragrafo 3.1 di questa tesi.
12