2
rivelarsi un disincentivo alla quotazione è parso subito necessario un intervento
legislativo per “addolcire” il c.d. “scalino normativo” tra quotate e non quotate.
La prima parte del presente lavoro sarà dunque dedicata ad affrontare in
generale le prospettive di riforma che hanno ispirato il legislatore con particolare
riferimento alla tutela delle minoranze.
La ragione per cui il nostro ordinamento ha per un lungo periodo
sottovalutato la tutela delle minoranze risiede nelle peculiarità dello sviluppo
economico e politico del nostro paese che, a partire dal dopoguerra, ha assistito alla
diffusione di società a carattere familiare, caratterizzate da un’immedesimazione tra
amministrazione della società ed azionisti o, meglio, famiglia di riferimento. La
protezione, quindi, di questa corrispondenza soggettiva o, comunque, del rapporto
fiduciario tra socio dominante e manager è sempre stata un’esigenza economica e
politica che ha finito per prevalere sulla tutela dei piccoli azionisti e che è stata
direttamente trasposta nella disciplina della struttura corporativa delle società per
azioni. Sotto questo profilo, la ratio della riforma deve essere probabilmente
rinvenuta nel successivo sviluppo economico del nostro paese e nell’evoluzione del
mercato azionario e dei mezzi di finanziamento delle imprese: infatti, l’attribuzione
di poteri alle minoranze azionarie è diventata un’esigenza ineludibile nel momento
in cui la grande impresa ha cominciato a fare ricorso al mercato dei capitali per
finanziarsi, con una crescente necessità di controllo da parte delle minoranze sul
management.
Nell’analizzare questi processi ed i singoli istituti in cui si è tradotta la tutela
delle minoranze si cercherà anche di esaminare quali siano le minoranze che
risultano più favorite della nuova disciplina, se i singoli azionisti (i c.d. soci
3
minimi) o piuttosto, come pare di poter concludere, le c.d. minoranze qualificate,
cioè l’azionista o gli azionisti titolare/i di una certa partecipazione sociale.
La seconda parte del presente lavoro sarà poi dedicata ad approfondire,
specificatamente, lo studio dell’azione sociale di responsabilità delle minoranze,
introdotta per le società quotate dall’art. 129 del T.U.F. e successivamente estesa
alle società non quotate dall’art. 2393 bis c.c., nel nuovo testo delineato dal D. Lgs.
n. 6 del 2003.
4
SEZIONE I - Principi generali in tema di tutela delle minoranze
Capitolo 1 - La tutela delle minoranze azionarie nel T.U.F.
1.1 Alcuni cenni sull’evoluzione storica degli orientamenti in tema di
tutela delle minoranze azionarie
Nel dibattito italiano, il tema della tutela delle minoranze vive un ciclo
storico oscillante.
Nel 1956 Ascarelli, nel commentare il progetto di riforma delle società per
azioni, redatto insieme agli Amici del Mondo nel 1955, tradotto poi in disegni di
legge (rimasti tuttavia privi di attuazione), individua nella tutela delle minoranze
uno dei problemi fondamentali del diritto societario, precisando che “la tutela delle
minoranze diviene, nelle grandi società con azioni diffuse nel pubblico, la tutela
della maggioranza”
1
.
Nel progetto Ascarelli, oltre alle innovative proposte in materia di azioni
proprie, bilancio, assemblee straordinarie, relazione degli amministratori in parte
recepite molti anni dopo dal legislatore (l.n. 216/1974; d. P.R. n. 30/1986),
spiccano, perché anticipano di quasi mezzo secolo, rispetto alla riforma del T.U.F.,
le proposte in tema di diminuzione delle quote rilevanti per la denuncia al collegio
sindacale, ex art. 2408 c.c., e di denuncia al Tribunale ex. art. 2409 nonché, con
1
MONTALENTI, Corporate governance: la tutela delle minoranze nella riforma delle società
quotate, in Giur. Comm., 1998, I, 167 ss.
5
particolare riferimento al tema del presente lavoro, la previsione dell’azione sociale
di responsabilità su iniziativa di una minoranza.
Di sicuro interesse, anche se non recepita dalla legislazione successiva, è
l’idea di un criterio regressivo di individuazione delle quote minoritarie e
qualificate, inversamente proporzionale rispetto alle dimensioni della società.
Il progetto De Gregori del 1966 “raccoglie” il messaggio ascarelliano e
contiene alcuni ulteriori affinamenti degli strumenti di protezione delle minoranze,
quali la riduzione dei quorum per la convocazione dell’assemblea su richiesta della
minoranza (art. 7), la nomina del presidente del Collegio sindacale da parte
dell’organo di vigilanza nelle quotate (artt. 23 ultimo comma e 38 primo comma),
anticipazione per così dire in chiave pubblicistica della soluzione relativa
all’introduzione, effettuata dal T.U.F., del sindaco di minoranza; l’introduzione
delle azioni di risparmio con privilegio del 5% e l’integrazione dell’ordine del
giorno su richiesta della minoranza (art. 7 terzo comma). Si intravede già una
correzione di rotta in quanto fulcro del progetto è la previsione dell’organo di
vigilanza (art. 33 ss.). Molte delle relazioni tenute al Convegno di Venezia del
1966
2
sono una precisa conferma dell’affiorare di una prospettiva teorica che
troverà pieno riconoscimento nella riforma del 1974: l’abbandono delle cosiddette
illusioni della democrazia societaria e dell’autotutela per perseguire l’obiettivo della
tutela indiretta, sul duplice piano della vigilanza pubblicistica e della trasparenza
dell’informazione.
In effetti, ripercorrendo il dibattito che precedette e seguì la riforma del
1974, emerge con chiarezza che l’idea di un rafforzamento degli strumenti di
2
MIGNOLI, I dieci anni della “Rivista delle società”; la riforma nel pensiero di Tullio Ascarelli;
gli scopi del convegno, e di VISENTINI, Evoluzione e problemi della società per azione e
lineamenti generali della riforma, a cura di FENGHI, SANTA-MARIA 1966, 6 ss.e 19 ss.
6
autotutela degli azionisti investitori è sostanzialmente accantonato “sul presupposto
dell’antistoricità del riavvicinamento dell’azionista alla vita societaria, per lasciare
il posto ad una tutela indiretta, realizzata attraverso la disciplina del mercato,
l’istituzione della Consob, l’introduzione delle azioni di risparmio che
emblematicamente “monetizzano” l’esclusione dal potere”
3
.
La riforma Draghi sembra segnare un’inversione di tendenza dal momento
che, come vedremo, numerosi sono gli strumenti di tutela, anche diretta, attribuiti
alle minoranze. E’ da tempo diffuso, infatti, il convincimento che lo strumento
della eterotutela pubblicistica non sia sufficiente a garantire l’efficienza e la
neutralità del mercato. Si ritiene, di conseguenza, che la previsione di strumenti di
autotutela diretta, anche individuale, sia funzionale alla creazione di un mercato
trasparente ed efficiente e rappresenti uno stimolo per una gestione più corretta ed
efficace delle imprese.
4
La scelta operata dalla commissione Draghi si è orientata su questa
direttrice: se da un lato si è garantita la stabilità della gestione (per esempio,
respingendo l’idea di istituzionalizzare come obbligatoria la nomina di
amministratori delle minoranze), si è, dall’altro, ritenuto di non assicurare agli
investitori soltanto la possibilità di un exit tempestivo ed informato (la c.d. Wall
Street o Feet Rule), ma anche di attribuire loro consistenti diritti di intervento, i c.d.
diritti di voice, (dal sindaco di minoranza, al sistema del c.d. blocco della
minoranza, alla sollecitazione e raccolta delle deleghe, all’azione sociale di
responsabilità esercitata dalla minoranza). Si tratta di strumenti da tempo presenti in
altri ordinamenti, ad esempio in Francia, in Inghilterra, in Germania e in Spagna. In
3
MONTALENTI, Corporate governance: la tutela delle minoranze nella riforma delle società
quotate, op. cit., 329 ss.
4
ANGELICI, La tutela delle minoranze, in Le Società, 1999, 7, 786 ss.
7
conclusione, secondo Montalenti, “la legge Draghi si colloca nel quadro
dell’evoluzione del diritto societario negli ordinamenti avanzati, e non deve quindi
essere considerata come mero collage di strumenti operativi tratti da progetti
precedenti”
5
.
1.2 Quale tipo di tutela per le minoranze azionarie?
La tutela delle minoranze azionarie, pur senza ovviamente identificarvisi in
ogni aspetto, si colloca in larga misura all’interno della più vasta area della tutela
del risparmio.
L’azione di società è sempre stata anche uno strumento di investimento e di
risparmio ed oggi lo è più che mai, a seguito dell’evoluzione dei mercati finanziari e
della loro sempre maggiore apertura al risparmio diffuso. Sotto questo profilo,
quindi, può ben dirsi che il tema della tutela delle minoranze azionarie partecipa
della valenza e del rango costituzionali che l’art. 47 Cost. riconosce, appunto, alla
tutela del risparmio
6
.
Prima di analizzare il tipo di tutela delle “minoranze” prevista
dall’ordinamento è fondamentale soffermarsi sulla doppia interpretazione che la
legge delega n.52/1996 offre del termine “minoranza”
7
. Da un lato, infatti, il
legislatore si occupa dei “poteri” delle minoranze, qualificate dal possesso di certe
quote di capitale. Dall’altro, disciplina la “tutela” dei piccoli risparmiatori, gli
5
MONTALENTI, Persona giuridica, gruppi di società, corporate governance, Padova, 2002, 166 ss.
6
MAZZONI, Gli azionisti di minoranza nella riforma delle società quotate, in Giur. Comm., 1998,
4, 485 ss.
7
ANGELICI, Le minoranze nel T.U.F.: tutela e poteri, in Riv. Dir. Comm., 1998, I, 207.
8
azionisti “apatici”, che sono disinteressati alla vita societaria, ovvero che, anche se
interessati, trovano antieconomico l’esercizio personale dei diritti di voice.
Chi sono, dunque, gli “azionisti di minoranza”?
Sulla scorta della comune esperienza, sono state individuate diverse figure:
“L’azionista minimo”, mero investitore solitario, totalmente disinteressato alla vita
sociale; “l’azionista presenzialista”, pur sempre detentore di un numero esiguo di
azioni, che partecipa all’assemblea per curiosità, affezione, o astio personale e
finalità aggressive, con l’intento, a volte, di trarre solo un profitto extrasociale dalle
difficoltà del management; “l’azionista imprenditore”, detentore di un pacchetto di
minoranza qualificata, in grado di incidere sugli equilibri interni; ed, infine,
“l’investitore istituzionale”
8
.
Analizzando la disciplina, come meglio si vedrà, si evince che il legislatore
ha un occhio fortemente di riguardo per le due ultime categorie, specie per gli
investitori professionali per fare affidare loro le sorti della democrazia societaria.
Molte disposizioni del T.U.F infatti hanno come destinatario ideale gli investitori
istituzionali, sia per le percentuali indicate, sia per le capacità e la professionalità
richieste nel valutare le informazioni, sia ancora per la tempestività e la rapidità
necessarie a comprendere la convenienza economica di alcune operazioni (ad
esempio l’esercizio del diritto di opzione).
Gli strumenti attraverso i quali la tutela delle minoranze può esplicarsi sono
assai vari. In via preliminare, ed in estrema sintesi, si distingue tra strumenti di
autotutela e strumenti di eterotutela delle minoranze azionarie, intendendo con
8
RORDORF, Le minoranze azionarie tra autotutela ed eterotutela, in Le Società, 2002, 3, 286 ss.
9
questa espressione gli azionisti comunque esterni al nucleo di coloro da cui la
società è direttamente o indirettamente controllata
9
.
L’autotutela implica l’applicazione di poteri che consentono agli azionisti di
minoranza di agire essi stessi in modo da condizionare il maggior potere
dell’azionista o degli azionisti dominanti. L’eterotutela, invece, presuppone una
qualche cronica incapacità del socio di tutelarsi da sé e perciò sottintende la
necessità di disciplinare comportamenti altrui e si collega ad esigenze più generali;
quali quelle dei creditori o, più in generale, quelle del mercato. Perciò si traduce in
obblighi ed in controlli inerenti al comportamento degli azionisti di maggioranza e
di chi, per mandato di costoro, gestisce la società. Gli uni e gli altri strumenti
possono essere diversamente collegati o coordinati, ma non si pongono in reciproca
alternativa: un efficace sistema di tutela delle minoranze comporta, anzi, la
necessaria compresenza e la giusta compenetrazione di autotutela ed eterotutela
10
.
Tra gli strumenti di autotutela sembrano in via di progressiva affermazione
quelli cui si è ormai soliti riferirsi con il termine di exit e che si possono riassumere
nella cosiddetta Wall Street rule: quella regola per cui il socio insoddisfatto ambisce
ad un più redditizio investimento del proprio patrimonio e, dunque, preferisce
cedere e liquidare la propria partecipazione. Pare fondato considerare anche questi
come strumenti di tutela delle minoranze, le quali debbono appunto essere poste in
condizione di difendersi da eventuali eccessi di potere della maggioranza, anche
optando per il disinvestimento del capitale prima conferito in società, purchè tale
disinvestimento possa essere realizzato a condizioni eque.
9
ANGELICI, Le minoranze nel T.U.F.: tutela e poteri, op. cit, 1998, I, 211.
10
DE ACUTIS, La tutela degli azionisti di minoranza nelle società quotate e non quotate, in La
Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2002, 5, 488 ss.
10
E’ innegabile, però, che siffatti strumenti si configurino prima di tutto come
mezzi di tutela individuale del singolo azionista che talora si inseriscono
nell’ambito di istituti tradizionali più opportunamente riformati, quali il recesso,
talaltra si collegano più recenti normative speciali, come nel caso delle offerte
pubbliche di acquisto, consentendo appunto all’azionista di minoranza di sottrarsi al
vincolo societario, senza compromettere la consistenza del patrimonio investito. A
seconda delle circostanze, essi possono risultare, come naturale, più o meno idonei
allo scopo. Si tratta comunque di rimedi in qualche modo estremi, giacché nel
momento stesso in cui li utilizza, l’azionista decide di uscire dalla compagine
sociale. Il possibile ricorso all’exit è dunque una forma di tutela della minoranza
azionaria, ma deve essere concepito come extrema ratio atteso, che comporta lo
scioglimento unilaterale del rapporto sociale.
Sotto altro profilo, l’autotutela non si esprime solo nella possibilità per il
socio di uscire dalla società, bensì anche in strumenti che consentono alla
minoranza di avere una qualche voce in capitolo negli organi societari, i cd. diritti
di voice, e che come si diceva assumono importanza ancora maggiore, nelle società
non quotate che in quelle quotate. In queste ultime infatti, se il mercato finanziario è
efficiente (ossia connotato da un alto livello informativo e di trasparenza) appare
del tutto fisiologico che gli investitori acquistino e cedano azioni a seconda della
convenienza finanziaria del momento e trovino in ciò la piena soddisfazione delle
esigenze che li hanno indotti ad acquisire, per poi eventualmente dismettere, una
determinata partecipazione societaria.
Nelle società non quotate, e segnatamente in quelle che si possono definire
società chiuse (prevalentemente finanziate dalle banche o dagli stessi soci, con
11
scarsa propensione a ricorrere al mercato dei capitali), le possibilità di exit
(anteriormente alla Riforma Vietti che, come meglio si vedrà, ha notevolmente
ampliato l’ambito e l’applicazione del recesso) erano assai minori, o comunque
risultavano molto penalizzanti; sicché è proprio in questo tipo di società che forse
più drammaticamente si pone l’esigenza di assicurare alle minoranze adeguati
poteri di voice
11
.
In generale, comunque, si può affermare che la volontà del legislatore del
D.Lgs. n. 58/1998 è stata quella di accompagnare a strumenti di autotutela nel
segno dell’exit anche strumenti di voice. Resta però fermo in tutti i casi, che gli
strumenti di voice, per definizione e a differenza di quelli di exit, mal si attagliano al
singolo azionista e sono invece particolarmente adatti per minoranze coalizzate,
che abbiano la forza e la capacità di organizzarsi per fare sentire appunto la loro
voce negli organi societari, soprattutto quindi per gli investitori istituzionali.
Tuttavia affinché un siffatto sistema di autotutela funzioni davvero
occorrono almeno due condizioni fondamentali: l’una afferente al mondo del
mercato, l’altra a quello delle istituzioni.
La prima è l’esistenza di investitori istituzionali sufficientemente
“attrezzati” a questo scopo, e non in base alla caratura professionale, ma alla
necessità che essi siano del tutto indipendenti dai gruppi di potere che dominano la
società e ne incarnano la maggioranza. Non di rado, infatti, la possibilità per
l’investitore istituzionale di esercitare efficacemente i poteri di contrasto di cui
disporrebbe nei confronti della maggioranza è limitata da situazioni di conflitto di
interessi, nelle quali lo stesso azionista versa in virtù di rapporti partecipativi diversi
11
ANGELICI, La tutela delle minoranze,op. cit., 786 ss.
12
o di rapporti d’affari che altrimenti lo legano ai soggetti da cui la società è
controllata.
La seconda condizione è costituita da un adeguato sistema giudiziario che
sia capace di fornire risposte rapide e certe a chi vi si rivolge; perché i poteri di
voice, in ultima analisi, devono poter contare su un’efficace rete di protezione
giudiziaria, tale per cui il loro esercizio possa, al bisogno, tradursi in ricorso al
giudice per imporsi, anche con la forza di legge, a chi infondatamente lo ostacoli o
lo contesti (per fare i due esempi più ovvi, l’azione sociale di responsabilità delle
minoranze e la denuncia di gravi irregolarità di gestione che le stesse minoranze
possono inoltrare al tribunale ai sensi dell’art. 2409 c.c.)
12
Accanto agli strumenti di autotutela è perciò da sempre avvertita la necessità
di strumenti di eterotutela, ossia di obblighi e controlli che, indipendentemente dai
poteri di reazione assicurati agli azionisti di minoranza, siano posti direttamente a
carico di chi gestisce la società.
E’ opinione sempre più diffusa che siffatti strumenti di eterotutela non
debbano necessariamente trarre la loro forza da norme imperative poste
nell’ordinamento generale, ma possano anche essere espressione di poteri di
autoregolamentazione ed ancorarsi a forme di maggiore autonomia statutaria, ma si
ritiene comunque necessario, perché un sistema societario di corporate governance
funzioni adeguatamente, che vi sia un nucleo di legislazione imperativa, senza il
quale l’ordinamento resterebbe privo di un livello minimo ed indispensabile di
coerenza sistematica e di riconoscibilità generale. Ora è ovvio che in virtù del grado
12
COSTI, Il governo delle società quotate: tra ordinamento dei mercati e diritto delle società, in
Diritto Comm. Internazionale, 1998, 1, 65 ss.
13
di reale indipendenza degli amministratori che l’autoregolamentazione può
determinare si gioca, l’effettività della tutela delle minoranze
13
.
L’autoregolamentazione
14
, però, anche se prevista dal T.U.F., assume un
ruolo limitatissimo. Già una parte della dottrina
15
, nel 1997, aveva manifestato un
forte scetticismo nei confronti del “carattere salvifico” di tale tecnica difensiva.
Emerge facilmente, in numerose norme, il rinvio all’autonomia statutaria per
l’introduzione volontaria di regole di maggiore protezione per le minoranze, in
particolare in termini di “minore percentuale” o “quota più elevata”.
La Riforma Draghi, pare rivolta a stimolare l’autonomia privata per la
realizzazione di soluzioni ottimali di democrazia societaria, nella convinzione di
fondo che, in un mercato efficiente e concorrenziale, sull’esempio del sistema
angloamericano, possano essere selezionate le regole più favorevoli ed opportune
per i risparmiatori
16
. Nel T.U.F. vi sono diverse norme che rimettono all’atto
costitutivo la possibilità di apportare modifiche alla legge prevedendo ad esempio le
potestà derogatorie rispetto ai quorum stabiliti per la regolarità di costituzione delle
assemblee e la validità delle deliberazioni assembleari e rispetto alle aliquote del
capitale sociale necessario per esperire azioni giudiziarie e, ancora, potestà
dispositive relative, come quelle indicate negli articoli 127, 137 o 145 del T.U.F.
Queste ultime, talora subordinano l’autonomia statutaria ai controlli ed ai limiti
disposti dalla Consob (è il caso del voto per corrispondenza, art. 127 T.U.F.), tal
altra lascia un completo spazio alla regolamentazione statutaria (ne è un esempio,
13
SALANITRO, La tutela delle minoranze nelle assemblee delle società quotate, in Banca, Borsa e
Titoli di Credito, 1999, I, 681 ss.
14
MARCHETTI, L’autonomia statutaria nelle società per azioni, in Le Società., 2000, I, 562.
15
ROSSI, Concorrenza, mercati finanziari e diritto societario, in Le Società., 1999, II, 1305.
16
GAMBINO, Tutela delle minoranze, in La riforma delle società quotate. Atti del convegno di
Santa Margherita Ligure, Giuffrè., 1999, 135.
14
l’articolo 145 del T.U.F., riguardante le azioni di risparmio). In verità, se si osserva
bene, lo spazio lasciato alla normazione convenzionale è marginale, spesso limitato
alla semplice variazione di qualche punto percentuale dei quorum o all’ideazione di
clausole organizzative ed elettive, ma non all’introduzione di una sostanziale
modifica di istituti e discipline. Forse, anche per questo, poco utilizzato dalle
società; oltre per il fatto che, in un mercato assai dinamico, è assai difficile
comprendere quale modifica sia più opportuna, ma occorre un certo lasso di tempo,
non sempre a disposizione. Per di più, una continua revisione statutaria potrebbe
anche avere l’effetto di disorientare e quindi di disincentivare gli investitori.
La conclusione che si può trarre è che il tema del rapporto tra tutela delle
minoranze e corporate governance ha molte “facce” e pertanto richiede di essere
affrontato in modo equilibrato e complessivo, tenendo conto di una gamma molto
vasta di strumenti e di interessi in gioco.
Occorre sapere coniugare autotutela ed eterotutela, norme imperative,
autoregolamentazione ed autonomia statutaria. Bisogna riuscire a cogliere il nesso
tra interessi della minoranza, pur sempre in qualche misura riconducibili al gioco
dei rapporti interni alla compagine sociale, ed interessi di ordine generale, che in
altre epoche storiche venivano considerati interessi dell’impresa in sé (se non
addirittura dell’economia nazionale) e che in contesti più moderni e vicini a noi
sono stati identificati negli interessi dei cosiddetti stakeholders (i creditori, i
dipendenti, l’ambiente, la competitività del mercato nel suo complesso, e così via),
solo formalmente estranei alla compagine azionaria strettamente considerata. Le
norme che permettono e garantiscono la contendibilità e la concorrenza, le
disposizioni che ampliano la trasparenza e l’informazione ed infine, la disciplina
15
che impone la correttezza e la professionalità nell’operare sul mercato sono
sicuramente le vere e più generali forme di tutela e salvaguardia per tutti, tanto per
gli “azionisti risparmiatori” quanto per i “soci investitori”, perché creano realmente
o quanto meno paiono dirette a creare un mercato improntato sull’efficienza e sulla
democrazia paritaria
17
.
17
RORDORF, Le minoranze azionarie tra autotutela ed eterotutela, op. cit., 286 ss.