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Capitolo 1: Introduzione all’argomento.
1.1 Il rapporto di lavoro subordinato: caratteristiche, fonti, potere
direttivo e disciplinare del datore di lavoro e limiti a questi.
Il rapporto di lavoro subordinato nasce dalla stipula di un contratto tra
due soggetti, lavoratore da una parte e datore di lavoro dall’altra,
titolari di interessi radicalmente contrapposti; se infatti in capo al
primo vi è l’esigenza di lavorare per dare a sé e alla sua famiglia un
sostentamento economico dignitoso, per il secondo, il quale detiene i
mezzi di produzione, l’impiego di soggetti terzi nella propria attività è
fondamentale ai fini del funzionamento della stessa. Pertanto, il
“contratto di lavoro subordinato” è un contratto a prestazioni
corrispettive (“sinallagmatico”) nel senso che per entrambi i contraenti
scaturiscono degli obblighi: a carico del lavoratore quello di prestare
la propria attività lavorativa in uno stato di soggezione, a fronte della
quale spetterà allo stesso una retribuzione, che rappresenta appunto la
controprestazione che il datore di lavoro si obbliga a corrispondere al
momento della stipula del contratto.
Il nostro codice civile del 1942 definisce il prestatore di lavoro
subordinato come colui che “si obbliga, mediante retribuzione a
collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o
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manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore” (art.
2094 c.c.). Dalla norma si evincono le due peculiarità del rapporto di
lavoro subordinato, ossia l’esistenza di un potere direttivo, che
consiste nell’assoggettamento del lavoratore alle istruzioni che il
datore di lavoro gli da nell’esecuzione dell’attività lavorativa e la
dipendenza o subordinazione giuridica e socio-economica del primo
nei confronti del secondo; dunque si deduce che il lavoratore si trova
in una posizione di debolezza rispetto al datore di lavoro, e in questa
considerazione si può ravvisare la terza caratteristica del rapporto di
lavoro subordinato; questa debolezza è ancora più visibile se si
considera l’inseparabilità della prestazione dalla persona del
lavoratore, il quale si “sottomette” alle esigenze dell’impresa in modo
esclusivo, cioè da questa ricava il suo unico mezzo di sostentamento
1
.
Per tutti questi motivi la tutela del lavoratore diventa soddisfazione di
un interesse sociale, divenendo il diritto del lavoro strumento volto a
stabilire una simmetria tra la posizione di coloro che detengono i
mezzi di produzione, e quindi ricercano il proprio soddisfacimento
economico in modo indipendente, da un lato, e coloro i quali, invece,
svolgono attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione altrui,
1
F. Santoro Passarelli, “ Spirito del diritto del lavoro”, in Id. “Saggio di diritto civile”, II volume,
Napoli, 1961, pag 1075.
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dall’altro. Tale simmetria è stata realizzata attraverso la
predisposizione di una disciplina in grado di tutelare i soggetti da
discriminazioni e ingiustizie varie, dispiegata all’interno
dell’ordinamento giuridico italiano e europeo, a partire dalle fonti
Comunitarie e dalla Costituzione, passando per varie leggi e decreti
legge, che trovano il loro punto focale nella legge n.300 del 1970,
meglio conosciuta come “Statuto dei lavoratori”, e finendo con la
contrattazione collettiva.
Il problema della tutela del lavoratore in quanto soggetto debole è
divenuto sempre più pregnante negli anni, a partire dalla fine del
diciannovesimo secolo, in seguito alla rivoluzione industriale, la quale
ha segnato la nascita dell’industria manifatturiera e delle grandi
imprese; è a quel periodo che si riconducono le origini del diritto del
lavoro e il motivo è presto detto: ampliamento notevole del numero di
soggetti che intraprendevano l’attività imprenditoriale, incoraggiati
dalle istituzioni, e conseguente aumento del numero di soggetti che
prestavano attività lavorativa alle dipendenze altrui. Più di recente è
intervenuta la cd. “privatizzazione del pubblico impiego”, con il d.lgs.
n. 165 del 2001, con cui il legislatore ha voluto modernizzare, ma
soprattutto ottimizzare, sotto il profilo dell’efficienza, dell’efficacia e
della qualità, il rapporto di lavoro che intercorre tra i dipendenti
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pubblici e gli enti amministrativi presso i quali essi svolgono attività
lavorativa, adeguando, per quanto possibile e nei limiti della
compatibilità, la disciplina a questi applicabile a quella prevista per i
dipendenti di datori di lavoro privati. Ci si rende subito conto del fatto
che una simile riforma abbia fatto sì che molti più soggetti ricadessero
all’interno dell’ ampia categoria di lavoratori subordinati, così
aumentando di gran lunga la necessità di tutela.
Il diritto del lavoro deve comunque contemperare delle esigenze
contrapposte, riuscendo a trovare il giusto bilanciamento tra
l’interesse dei soggetti che svolgono attività lavorativa presso terzi
(imprenditori) ad avere un’adeguata tutela e l’incoraggiamento dell’
iniziativa economica privata (art . 41 Cost.), accompagnato
dall’interesse all’ efficienza e produttività delle imprese.
Anche la Comunità sovranazionale ha avvertito l’esigenza di tutelare
i valori essenziali dell’uomo che lavora, garantendogli la necessaria
attenzione; in particolar modo, l’Unione Europea mira all’obiettivo di
uniformare in questo ambito le discipline dei vari Stati attraverso una
politica di coordinamento. Ben più incisivo risulta, però, il dettato
costituzionale: nei primi articoli della nostra Carta Fondamentale il
lavoro è considerato valore fondante e principio ispiratore della nostra
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Repubblica democratica; per l’art. 4 il lavoro è sì diritto di tutti gli
uomini e pertanto deve esserne garantita l’effettività, ma è anche
dovere degli stessi, in quanto attraverso questo ogni uomo partecipa
attivamente alla crescita produttiva e economica dello Stato. Da un
punto di vista giuridico, un illustre esponente della dottrina
2
, parla di
“mora debendi” e, insieme, “mora credendi” della Repubblica verso il
cittadino, in ordine al diritto e al dovere di lavorare, al fine di ottenere
i mezzi di sostentamento. Papa Giovanni Paolo II, sempre molto
attento alle problematiche secolari del suo tempo, nell’enciclica
“Laborem Exercens” considera il lavoro come un qualcosa che
nobilita l’uomo, affermando che “il lavoro è per l’uomo”
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e non
“l’uomo per il lavoro”, evidenziando l’aspetto spirituale di questo
4
.
2
Dell’Olio, Diritto del lavoro e garanzie costituzionali, in Lanfranchi ( a cura di), “Garanzie
costituzionali e diritti fondamentali”, Roma, 1997, pag 350, secondo cui “deve dirsi che una
garanzia, quasi nell’originario senso privatistico, e quindi sostitutivo o risarcitorio, la Repubblica
assume con l’impegno, a sua volta non insuscettibile di valutazioni di congruità e perfino di
intereventi additivi della Corte Costituzionale, a prevedere e assicurare, pur con organi e istituti
non soltanto promossi ma anche solo integrati dallo Stato, mezzi adeguati alle esigenze di vita, tra
l’altro, in caso di disoccupazione involontaria. Questa, infatti, per quanto ora accennato, segna una
sorta di mora credendi e insieme debendi della Repubblica verso il cittadino, in ordine al diritto e
al dovere di lavoro, e quindi alla possibilità di trarre da questo tali mezzi”
3
Giovanni paolo II, Enciclica Laborem exercens, 1981
4
Olivelli, Il valore del lavoro, relazione al Convegno di Macerata del 10 dicembre 1998 su “Cento
anni di lavoro”. Ricognizione multidisciplinare sulle trasformazioni del lavoro nel corso del XX
secolo, ora in Atti, Milano, 2001, pag 2. L’Autore ricorda l’importanza della dottrina sociale della
Chiesa e delle encicliche papali per l’affermazione del “valore del lavoro come fattore di sviluppo
della persona umana e quindi come necessità di promozione oltre che di protezione”. Già
nell’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII del 1981 si legge che “se dai padroni venga oppressa
con ingiusti pesi o avvilita con patti contrari alla dignità e personalità umana la classe lavoratrice;
se con lavoro soverchio o non conveniente al sesso e all’età, si rechi noncumeno alla sanità dei
lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro debiti confini, la forza e l’autorità delle leggi.”
Giovanni Paolo II, nell’enciclica Centesimus annus del 1991, scrive che “ la chiave di lettura del
testo leonino è la dignità del lavoratore in quanto tale e, per ciò stesso, la dignità del lavoro, che
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Di fondamentale importanza è anche l’art. 32 Cost., il quale parla di
limiti inviolabili “imposti dal rispetto della persona umana”. La
Costituzione passa poi a dettare taluni principi fondamentali che
riguardano la retribuzione (art. 36 comma 1: la retribuzione deve
essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso
sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza
libera e dignitosa), l’orario di lavoro (per la cui durata massima è
stabilita una riserva di legge: art. 36 comma 2), i riposi settimanali e le
ferie (art. 36 comma 3), la tutela delle donne lavoratrici (art. 37) e i
minori (art. 37 comma 2), la tutela in caso di infortuni, malattie,
invalidità, ecc; la libertà sindacale (art. 39), il diritto di sciopero (art.
40). Tali norme rappresentano una garanzia per tutti i lavoratori
subordinati, poiché il legislatore di qualsiasi epoca, dovrà tenerne
conto nell’andare a disciplinare il rapporto datore di lavoro-lavoratore.
Nonostante ciò, sono il codice civile del 1942 e le leggi ordinarie
successive a regolamentare in modo capillare l’ambito del diritto del
lavoro. Ciò è avvenuto in modo diverso nel corso degli anni, man
mano che l’attenzione nei confronti della tutela dei lavoratori
subordinati è aumentata. Particolare rilievo ha certamente la legge
viene definito come l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, (…), l’uomo si
esprime e si realizza nella sua attività di lavoro”.
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n.300 del 1970, denominata “Statuto dei lavoratori”, la quale detta
norme riguardanti la tutela della libertà e della dignità dei lavoratori,
la libertà sindacale, con particolare riguardo ai luoghi di lavoro, e il
collocamento; di tale legge bisogna ricordare anzitutto l’art. 1, che
sancisce la libertà di opinione nei luoghi dove viene prestata la propria
opera; gli artt. 2, 3 e 4 che limitano il potere di controllo del datore di
lavoro invasivo della dignità dei lavoratori, esercitato attraverso
l’utilizzo di guardie giurate, personale di vigilanza e strumenti
audiovisivi; l’art. 5 che vieta al datore di lavoro di effettuare, se non
nei modi consentiti dalla legge, accertamenti sanitari sull’ idoneità e
sull’ infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente;
l’art. 6, il quale limita le visite personali di controllo sui lavoratori,
tranne in casi specifici e previsti tassativamente; l’art. 7, che disciplina
l’ambito delle sanzioni disciplinari, prevedendo una disciplina
analitica alla quale il datore di lavoro deve attenersi per non prestare il
fianco a eventuali azioni del lavoratore a tutela dei propri diritti; l’art.
8, che vieta al datore di lavoro di effettuare indagini sulle opinioni
politiche, religiose e sindacali del lavoratore prima dell’assunzione
ovvero in costanza di rapporto; l’art. 9 è norma a tutela della salute e
dell’integrità fisica del lavoratori; l’art. 13 si occupa delle mansioni
del lavoratore, andando a sostituire il previgente art. 2103 c.c., così da
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garantire al lavoratore una più effettiva tutela; gli artt. 14, 15, 16 che
assicurano la libertà sindacale nei luoghi di lavoro, vietando
comportamenti discriminatori di qualunque genere in considerazione
dell’appartenenza sindacale dei lavoratori; l’art. 18, che tante
discussioni ha scaturito sia in dottrina sia nell’applicazione
giurisprudenziale, il quale riconosce in capo ai lavoratori licenziati
senza giusta causa o giustificato motivo un diritto alla reintegrazione
sul posto di lavoro o a un’ indennità cd. sostitutiva (tutto ciò se
l’impresa possiede determinate caratteristiche previste dallo stesso art.
18); gli artt. da 19 a 27, che riguardano l’attività sindacale e le
garanzie all’uopo previste; l’art 28, anch’esso assai importante e allo
stesso tempo discusso, il quale prevede la repressione delle condotte
antisindacali poste in essere dal datore di lavoro.
Dopo l’emanazione di tale legge si è assistito progressivamente a un
mutamento di prospettiva, nel senso che si è voluto dare, negli ultimi
anni, molto probabilmente anche a causa di una non più ideale
situazione economico-sociale, maggiore attenzione all’interesse alla
produttività ed efficienza delle imprese, facendo venir meno alcune di
quelle rigidità che si erano imposte a coloro che detengono i mezzi di
produzione, con il fine di favorire un più agevole dispiegamento delle
proprie energie economiche e allo stesso tempo aumentare le
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opportunità lavorative, così combattendo il fenomeno della
disoccupazione. In questo contesto si situa uno strumento che col
passare del tempo ha assunto un’importanza sempre maggiore nella
regolamentazione dei rapporti tra datore di lavoro e lavoratore: ci si
riferisce al contratto collettivo, atto di autonomia privata, espressione
della libertà sindacale, ma col potere di cristallizzare taluni aspetti del
diritto del lavoro, avendo ricevuto dalla legge tale specifico compito.
Attraverso la contrattazione collettiva, la quale è il prodotto di due
interessi contrapposti, da una parte quello dei lavoratori, di cui si
fanno portatori i sindacati maggiormente rappresentativi
5
, dall’altra
quello datoriale, sancito dalle organizzazioni maggiormente
rappresentative dei datori di lavoro, si ha la possibilità di trovare le
soluzioni più adeguate al caso concreto nell’armonia del dialogo tra le
parti in gioco, facendo sì che gli accordi che ne derivano abbiano
effettivamente valore di norma. In tal modo si cerca di risolvere una
questione sociale assai delicata qual è appunto la continua disputa tra
chi detiene i mezzi di produzione e chi presta la propria attività
lavorativa in modo subordinato. Ove vi siano lacune, sia legislative
che nella contrattazione collettiva, si applicheranno gli usi normativi,
5
Persiani, Proia, Diritto del lavoro, Padova, 2008, pag 48, li definisce ”sindacati che, paragonati
agli altri, risultano più rappresentativi secondo gli indici della consistenza numerica, diffusione
territoriale, partecipazione effettiva alla contrattazione collettiva con carattere di continuità e
sistematicità”.
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definiti quali comportamenti reiterati nel tempo nei confronti della
generalità dei consociati, nella convinzione di osservare una regola
giuridicamente vincolante, e l’equità. Tali fonti sono però sotto
ordinate sia alla legge che alla contrattazione collettiva.
Il contratto di lavoro subordinato, con il quale lavoratore e datore di
lavoro si obbligano l’uno nei confronti dell’altro a prestazioni
differenti, prende il nome di contratto individuale, per differenziarsi
dal contratto collettivo di cui sopra. La contrattazione individuale è
limitata, salvo deroghe, dalla legge e dal contratto collettivo. Ciò a
tutela della posizione della parte debole del contratto (il lavoratore), il
quale non può, per queste ragioni, vedersi privato, con la stipula del
contratto col proprio datore di lavoro, di diritti che gli vengono
garantiti da fonti di livello superiore. La natura giuridica del contratto
di lavoro subordinato è assai discussa. Infatti, secondo un
orientamento dottrinale minoritario, si tratta di una locatio hominis,
che però, in un sistema come il nostro basato sull’uguaglianza di tutti i
cittadini, è palesemente da escludere; la tesi più condivisibile e accolta
da accreditata dottrina
6
è invece quella di un rapporto fatto di pesi e
contrappesi, tra un contraente forte e una parte debole, che, in ogni
6
F. Santoro Passarelli, cit., pag 1072.
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caso, è un soggetto di diritto e di conseguenza non potrà mai essere
considerato un oggetto, come erano qualificati i servi nel diritto
romano.
Dalla stipula del contratto di lavoro derivano una serie di obblighi
ulteriori rispetto alle obbligazioni principali già menzionate
(prestazione e retribuzione); si tratta di obblighi peculiari del rapporto
di lavoro subordinato, che per quanto riguarda il lavoratore consistono
nell’obbligo di fedeltà, sancito dall’art. 2105 c.c., il quale vieta al
lavoratore di porre in essere comportamenti che possono pregiudicare
l’attività del datore di lavoro
7
; nel dovere di sottostare al potere
direttivo del datore di lavoro, che l’art. 2086 c.c. considera “capo
dell’impresa”, e che implica un assoggettamento del lavoratore alle
decisioni che vengono prese dall’alto, e ciò in tema di mansioni,
orario di lavoro, luogo in cui adempiere alla prestazione, modalità e
tecniche organizzative; in particolare, al datore di lavoro è consentito
mutare unilateralmente la mansione a cui un suo dipendente è adibito,
all’interno della stessa qualifica o di una qualifica superiore, in
quest’ultimo caso con il conseguente diritto del lavoratore ad avere
riconosciuto l’inquadramento corrispondente alla mansione
affidatagli, tutto ciò al fine di ottemperare a esigenze di produttività e
7
Ad esempio atti di concorrenza sleale e divulgazione di notizie attinenti l’attività di impresa.
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ottimizzazione dell’impresa; possiamo quindi definire il potere
direttivo del datore di lavoro come un “potere giuridico in quanto
specifica l’oggetto dell’obbligazione di lavorare e, quindi, stabilisce i
termini ed i modi in cui questa obbligazione deve essere adempiuta”
8
;
inoltre il lavoratore è tenuto a portare a termine in modo diligente i
compiti che l’imprenditore gli assegna, in considerazione della
complessità e importanza delle mansioni svolte, e dovrà sottostare al
potere disciplinare dello stesso, che consiste in quel particolare mezzo
di cui si serve il datore di lavoro per sanzionare il lavoratore
inadempiente. Tale potere è una conseguenza del potere direttivo e
mira a rendere effettivo quest’ultimo, prevedendone una fase
patologica successiva e eventuale. Il potere disciplinare, in particolare,
trova legittimazione nell’art. 2106, il quale prevede i presupposti per
aversi l’applicazione di una delle pene previste dal codice disciplinare
aziendale. Si tratta di pene di natura privata e conservativa, nel senso
che mirano non alla cessazione del rapporto, ma alla continuazione
dello stesso, contestuale all’ammonimento nei confronti del lavoratore
inadempiente o che comunque abbia violato il codice
comportamentale.
8
Persiani-Proia: cit., pag 224.