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Introduzione
Risultano ancora rilevanti gli studi sulle masse e le dinamiche sociali che spingono ogni
uomo a perdere i suoi tratti più personali nel momento in cui si ritrova partecipe di un
insieme omogeneo di persone che compiono gesti e azioni comuni, che nessuno
individualmente avrebbe mai il coraggio di compiere. Proprio l’attualità dell’argomento
spinge a chiedersi il perché un individuo si trasformi così in modo imprevisto e inaspettato
quando fa parte di una folla. Qual è, cioè, il filo conduttore che lega il suo modo
d’interpretare la realtà con le direttive che gli sono fornite da questa grande “anima
collettiva”, tanto occasionale quanto efficace nel soddisfare gli obiettivi che si prefigge
di raggiungere.
Non sono troppo lontani gli errori storici, compiuti in passato, per la supina accettazione
degli individui alla volontà delle masse. Perché massa vuol dire anche questo:
conformismo passivo a una volontà esterna che non sempre risulta essere razionale; anzi
per lo più si dimostra irrazionale nei violenti atti che la contraddistinguono o
nell’assoggettamento totale ai modelli culturali e sociali che la società le impone di
seguire. È allora evidente come sia necessario cercare di saperne di più su questa
complessa tematica, ricorrendo a una serie di riferimenti multidisciplinari che riguardano
in primo luogo la filosofia, ma non trascurano anche altri ambiti di studio, come quello
psicologico e artistico.
Il primo uso del termine “massa”, per designare un certo gruppo di individui, compare
in un’epoca non troppo lontana; siamo nella prima metà del XIX secolo e Søren
Kierkegaard denuncia pubblicamente la Stampa e la Chiesa Danese, quali centri di
diffusione di una cultura “bassa” e superficiale, adatta solo per un pubblico di individui
mediocri, incapaci di poter conoscere le reali problematiche di una società, sempre più
dominata da un’omologante opinione pubblica, e le verità di fede che costituiscono
autenticamente la religione cristiana. Il suo grido ribelle non passa inosservato, ma si
accompagna a quello espresso, sul finire del secolo, da Friedrich Nietzsche nelle opere
edite del suo ultimo periodo. A differenza di Kierkegaard, che si scagliò direttamente
contro quelli che furono i principali fautori di un pensiero comune e poco veritiero,
Nietzsche preferì ricorrere ad un’unica immagine, valida universalmente, per riferirsi alle
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sottili dinamiche di convivenza di “massa” che si stavano affermando nel suo tempo. Egli
descrive la società del suo tempo, come dominata da un unico grande “gregge” di uomini
identici in ogni aspetto del loro agire e pensare. Ciò che li unisce più di ogni altra cosa è
proprio un comune istinto gregario volto a garantire la massima sicurezza del collettivo
dai pericoli che la natura può riservare, garantendo attraverso il perseguimento dei due
fondamenti principali della società moderna, ovvero la religione e la morale, la
sopravvivenza duratura di generazioni di individui mediocri per un tempo illimitato.
Gli studi sulla crescente importanza del ruolo delle masse all’interno della società
iniziano però a farsi sempre più vasti e svariati, uscendo dal contesto strettamente
filosofico e aprendosi ad altri ambiti di ricerca. Fino a portare, di fatto, alla nascita di una
vera e propria psicologia “collettiva”, la cui origine può essere collocata alla fine del XIX
secolo con i primi studi di Gustave Le Bon. A conclusione del primo capitolo verrà infatti
esaminata la parte di iniziale di una delle sue opere più importanti : Psicologia delle folle,
ancora oggi considerata tra i saggi più attuali di Le Bon, sia per il fatto di aver previsto il
formarsi progressivo dei futuri totalitarismi novecenteschi dal sostegno delle folle, in
passato ignorate ed escluse dalla vita politica, sia nel precisare alcune questioni rimaste
in sospeso sulla nascita della società di massa: come la tematica riguardante l’uniformità
degli atteggiamenti individuali registrata in ogni collettivo effettivo, che non è tanto frutto
della vicinanza fisica o della presenza simultanea di più soggetti nello stesso luogo,
quanto derivata da una sorta di modificazione psicologica esterna dettata da una forza
superiore e autoritaria, in particolare il discorso suggestivo di un capo, che porta al
prevalere nei soggetti di una molteplicità di istinti immediati e incontrollabili rispetto ad
un abituale comportamento razionale.
Nel secondo capitolo si proseguirà con quelli che si possono definire i “successori” di
Le Bon negli studi psicoanalitici sulle folle, ovvero Freud, Reich e Marcuse; i quali
guardano ai risultati scientifici conseguiti da Le Bon, in una prospettiva parzialmente
diversa, influenzata dal progressivo formarsi dei regimi totalitari. Nel saggio Psicologia
delle masse e analisi dell’io (1921), Freud denota come in ogni atteggiamento del singolo
all’interno di una determinata folla, dall’essere suggestionato da un certo ideale comune
o partecipare attivamente in un collettivo, sia evidente la presenza di residui infantili,
legati al rapporto paterno, che portano al sacrificio della propria individualità per lasciarsi
guidare da un entità superiore, come la figura carismatica di un capo, che possa garantire
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una maggiore fonte di sicurezza e forza nelle scelte da compiere per la propria
sopravvivenza all’interno della società. In un certo senso, si cerca sempre in altre figure
esterne, la sublimazione di sé stessi e dei propri impulsi, che risultano poi inevitabilmente
deviati nel loro carattere originario e naturale. La questione riguardante l’intrinseca
sessualità deviata è ripresa dal suo studente Willem Reich che rilancia, nei suoi saggi, un
forte programma di liberalizzazione sessuale aperto a tutti, garante di una più ampia sanità
psichica per le masse, vittime di una moralizzazione sessuofobica dettata dalle principali
istituzioni sociali moderne.
Non basta una semplice diffusione più generale di conoscenze in materie di sessualità,
occorre anche un radicale cambiamento della società, che porti al definitivo
annientamento del substrato politico-culturale capitalistico dominante. A tal proposito,
Reich promuove un primo tentativo filosofico di conciliare due scuole di pensiero diverse:
il marxismo e la teoria psicoanalitica freudiana, uniti in vista di un unico fine comune,
una critica convincente del sistema capitalistico nelle sue forme di potere totalizzanti.
Sulla stessa linea tracciata da Reich, Marcuse non si limita solo a denunciare apertamente
l’attuale società capitalistico-tecnologica con le sue misure sessuali repressive, ma in
Eros e Civiltà (1955) prospetta l’avvento di una nuova civiltà futura, in cui divenga
concretamente possibile, ad un alto livello di cultura e socialità, la possibilità per le masse
di essere finalmente libere da qualsiasi forma di oppressione sociale. Conclusioni che
risultano poi essere abbandonate nel suo successivo saggio, L’Uomo a una dimensione
(1964), per fare spazio alla consapevolezza pessimistica di essere prigionieri della
strumentalizzazione e dalla repressione di una società apparentemente tollerante, ma in
realtà costantemente in grado di manipolare la totalità degli interessi e dei bisogni delle
masse attraverso una serie di meccanismi precostituiti che rispondono ad una logica
unidimensionale.
Un dominio totalizzante che non esclude l’arte e il mondo culturale in generale, come
testimoniano prima Benjamin e poi i maggiori esponenti della Scuola di Francoforte,
Adorno e Horkheimer, i cui saggi saranno analizzati nel terzo capitolo. Se per Benjamin
la costante riproduzione tecnica delle opere d’arte, da un lato promuove una maggiore
diffusione di contenuti culturali nelle masse, dall’altro priva le rappresentazioni artistiche
di quell’unicità e quell’essenzialità auratica fondamentale, rilevabile solo nel momento
contemplativo individuale davanti all’opera artistica originale. Ci si trova di fronte a
7
un’arte profondamente cambiata, non più riconoscibile in quei singoli capolavori che
potevano essere fruiti solo da quei “pochi” che avevano accesso ai luoghi peculiari
destinati a forme di cultura personale, ma visibile soprattutto negli odierni mass media, o
mezzi di comunicazione culturale di massa. Strumenti tecnologici innovativi che,
secondo la prospettiva sociopolitica di Adorno e Horkheimer, non sono tanto riducibili a
semplici mezzi d’informazione, ma si costituiscono come veri e propri veicoli trasmissivi
di valori e principi legati ad un'unica ideologia dominante: quel generale consumismo
capitalistico che stava trasformando progressivamente la società, rendendola sempre
meno differenziata e plurivalente.
Tutto ciò che costituisce l’ampio dominio della cultura generale è prerogativa unica
dell’“industria culturale” di stato, un processo di standardizzazione e razionalizzazione
distributiva di beni e servizi culturali, il cui scopo primario è mantenere in costante
funzionamento l’intero sistema economico industriale, senza mai provocare nel singolo
consumatore la sensazione di non essere effettivamente mai libero nella scelta della
propria personale felicità.
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CAPITOLO 1
SINGOLO E FOLLA. UN RAPPORTO COMPLESSO
Oggetto di studio di questo capitolo è la complessa questione riguardante il rapporto tra
individuo e massa all’interno della società ottocentesca. Tre saranno gli autori presi in
considerazione: i cosiddetti “filosofi del sospetto” Søren Kierkegaard e Friedrich
Nietzsche e lo psicologo francese Gustave Le Bon. Il filo conduttore che lega le opere di
questi pensatori è rappresentato dall’incapacità del singolo di liberarsi dalle sottili maglie
culturali e sociali che lo legano a una massa di individui medi uniformati a una
totalizzante logica, volta alla protezione e sicurezza generale, nonché fondata su un
comune sentire e pensare. Se Kierkegaard e Nietzsche analizzano queste dinamiche da un
punto di vista strettamente filosofico, Le Bon è uno dei primi a spiegare, in termini
scientifici e psicologici, la tendenza ad aggregarsi in una collettività di propri simili, al
prezzo della naturale indipendenza e intrinseca libertà dell’essere umano.
1. S. Kierkegaard
1.1. Un pensatore controverso
«La mia vita è immensamente tesa: mi sento così estraneo, così diverso da ciò che occupa
gli uomini in generale! Nei modi più vari, giorno per giorno, a ogni contatto, m’ accorgo
della mia eterogeneità»
1
.
La vita, il pensiero e la filosofia di Søren Kierkegaard non possono essere inclusi
perfettamente all’interno di quelli che furono i canoni culturali e religiosi che definirono
la società danese del XIX secolo. Sin dall’inizio della sua attività di scrittore, Kierkegaard
entrò in conflitto con quel «dispotismo dell’opinione pubblica»
2
imposto dai più eminenti
1
S. Kierkegaard, Diario, Morcelliana, Brescia 1980-1983, v. XI, A 28.
2
AA.VV., Kierkegaard duecento anni dopo, Il Melangolo, Genova 2014, p. 112.
10
centri di potere in ambito sociale: da un lato la cultura superficiale e poco autentica della
stampa danese, e dall’altro la Chiesa mondanizzata e accomodante del suo tempo. Vittime
“inconsapevoli” di un movimento subdolo che erge la quantità e il numero a criteri garanti
di verità e accettazione, gli uomini moderni, secondo Kierkegaard, si ritrovano inglobati
nell’irrilevanza e nell’anonimato di una categoria generale e spersonalizzante quale
appunto “la folla”. Sia che si tratti del pubblico a cui i giornali danno a noleggio questa o
quella opinione per spacciare qualche vuota chiacchera per un evidente verità in cui
credere, o la comunità di fedeli che intende la sequela di Cristo con un’ordinaria
osservanza e formale ripetizione delle pratiche di culto solo nelle festività o nei
sacramenti; ogni singolo individuo è perennemente inserito all’interno di una particolare
folla
3
.
Per Kierkegaard, la folla, che non a caso «sputò su Cristo»
4
, oltre a costituire la
categoria anticristiana per eccellenza, è propriamente «il male del mondo»
5
moderno:
nella misura in cui spinge ogni uomo a rifugiarsi in essa, in cui non si sa bene cosa ci sia
all’origine di ciò che si pensa e si attribuisce un eccessiva importanza all’opinione dei
«più», tende ad impedirgli di essere sé stesso, privandolo della possibilità di godere di
quella ricchezza interiore proveniente dalla sua originalità individuale. L’umanità che ha
davanti Kierkegaard non è che «quel vuoto deserto […] che è tutti e nessuno»
6
, in cui
dietro la ricerca di vantaggi temporali e mondani, nasconde e reprime qualsiasi tentativo
di fare i conti con quello che è realmente lo scopo supremo a cui deve tendere l’esistenza
umana.
1.2. Il potere influente della stampa
«Ecco la conseguenza dell’aver per secoli combattuto contro Papi e Re e potenti e di aver
considerato la Folla come la cosa sacra. Nessuno sospetta che le categorie della storia
3
Cfr. R. Garaventa - D. Giordano, Il discepolo di seconda mano. Saggi su Søren Kierkegaard, Orthotes,
Napoli 2011, pp. 193-202.
4
S. Kierkegaard, Diario, op. cit., X, A 272.
5
R. Garaventa - D. Giordano, Il discepolo di seconda mano, op. cit., p. 193.
6
AA.VV., Kierkegaard duecento anni dopo, op. cit., p. 115.
11
umana s’invertono, e che la Folla è diventata l’unico tiranno e la perdizione
fondamentale»
7
.
Le parole di Kierkegaard sulla folla sembrano delineare un evento che avrà la sua più
evidente manifestazione nel Ventesimo secolo: l’avvento della Società di Massa. Una
società caratterizzata da un significativo ruolo delle masse nello svolgimento della vita
politica e sociale che nel giro di due secoli sgretolarono con l’impeto dei movimenti
totalitari le fondamenta di una civiltà aristocratica basata sull’esclusione istituzionalizzata
delle classi lavoratrici e su istituzioni liberali che per anni dominarono l’Europa
8
.
Kierkegaard ne intravide le tracce già nella sua epoca, anche perché rimase coinvolto
in una feroce polemica con l’illustre settimanale Il Corsaro. Nel 1845, il critico di fama
Møller scrisse una recensione delle opere di Kierkegaard. Le considerazioni fatte erano
in gran parte positive ma contenevano alcune osservazioni pungenti, che non
riguardavano tanto i contenuti o la forma letteraria adottata ma si traducevano in una sorta
di commento personale alla vita di Kierkegaard. In particolare, si cercò di mettere in luce
l’alta discutibilità di alcune sue scelte personali, come il fallimento del suo impegno
matrimoniale o la preparazione alla carriera religiosa senza però mai ottenere
l’ordinazione a pastore. Indignato per la pubblicazione di tale recensione, Kierkegaard
rivelò la segreta collaborazione tra Møller e Il Corsaro, un settimanale satirico famoso
per le caricature fatte alle persone più note di Copenaghen. La risposta del direttore del
giornale fu immediata e, fino al 1846, furono pubblicate una serie di vignette che
ridicolizzarono l’aspetto fisico del filosofo. Nella satira fu ritratto in diverse caricature
che mettevano in evidenza alcuni suoi problemi fisici, al punto da essere canzonato
quotidianamente dai suoi concittadini per la sua schiena un po’ curva e il suo modo di
camminare strano
9
. Profondamente umiliato da quanto fu pubblicato sul giornale,
denunciò la stampa quale «cassa di risonanza»
10
di un’opinione pubblica, che rende
«schiavi gli uomini nel momento stesso in cui li trasforma in aguzzini del loro prossimo,
dietro il compenso della soddisfazione» temporanea o «della semplice non-reiezione» e
7
S. Kierkegaard, Diario, op. cit., X, p. 240.
8
Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/societa-di-massa_%28Dizionario-di-Storia%29/, alla voce
Società di Massa.
9
Cfr. S. O’Hara - G. Stelli, Kierkegaard alla portata di tutti. Un primo passo per comprendere
Kierkegaard, Armando, Roma 2007, pp. 14-16.
10
R. Garaventa, Kierkegaard, Filosofica, Milano 2017, p. 177.