proposte legislative di modifica ed una particolare attenzione alle istanze
ed alle osservazioni di coloro che quotidianamente applicano tali norme.
La ricerca proseguirà con un’analisi della legislazione vigente, in
materia, nell’ordinamento francese ed in quello tedesco, nei quali è
possibile osservare i primi tentativi di offrire una risposta sanzionatoria
diversa, e maggiormente appropriata, rispetto a quella meramente
detentiva.
Verrà poi esaminato il vigente apparato di misure alternative alla
detenzione, così come delineato, in ultimo, dalla legge 27 maggio 1998,
nr. 165, cercando di individuarne, con l’ausilio dell’esiguo ma
particolarmente significativo materiale giurisprudenziale rinvenuto,
limiti e margini applicativi nelle fattispecie criminose in questione,
anche e soprattutto nell’ottica delle innovazioni allo studio della
Commissione Grosso di riforma del codice penale.
Prima di analizzare nel dettaglio il fenomeno della pedofilia dal
punto di vista giuridico, ritengo opportuno presentare alcuni dati
statistici
1
idonei a fornire un’idea generale della gravità del fenomeno.
In Italia si registrano 21.000 casi di abuso sessuale in danno di
minorenni ogni anno: un caso ogni 400 minori, un caso ogni 4 scuole,
un caso ogni 500 famiglie. Il 90% circa di questi reati viene commesso
all'interno del nucleo familiare. L’elevato numero oscuro, tipico di
queste fattispecie criminose, rende ancora più preoccupante il
fenomeno.
I dati relativi alla diffusione di materiale pedo-pornografico su
Internet sono altrettanto impressionanti: tra il 1996 ed il 2000 gli esperti
di Telefono Arcobaleno hanno denunciato alle autorità internazionali
24.000 siti nei quali era disponibile materiale di questa natura, 7650 dei
1
Stime fornite dal Censis relativamente al periodo compreso tra il 1996 ed il settembre
2000, confermate dai dati forniti dagli Uffici Arcobaleno delle 103 Questure italiane, in
http://www.ciminologia.it/n_casistica/n_casis_pedofilia.htm.
quali nel solo 1999; si stima che su Internet siano attivi, a tutt’oggi, circa
50.000 siti analoghi e che circolino 12.000.000 di fotografie
riproducenti minorenni in atteggiamenti erotizzati; lo scambio
giornaliero di queste immagini si aggirerebbe intorno alle mille unità,
con un giro d’affari stimato in circa 8 mila miliardi di lire.
Il fenomeno ha non solo dimensioni considerevoli, ma altresì
coinvolge, nelle sue molteplici sfaccettature, tutta la popolazione, senza
distinzione di reddito, cultura e condizione sociale. La constatazione dei
danni gravissimi, soprattutto di natura psicologica, cagionati alle vittime
di questi reati, unita alla consapevolezza della riconducibilità di gran
parte di queste manifestazioni criminose a disfunzioni della personalità
o, in taluni casi, a vere e proprie anomalie psichiche, come tali
potenzialmente recuperabili con un’idonea terapia psicologia, rende
particolarmente impellente la necessità di individuare gli strumenti
giuridici idonei a sopperire alle inefficenze dell’attuale sistema
penitenziario.
Legge 15 febbraio 1996, nr.
66
“NORME CONTRO LA
VIOLENZA SESSUALE”
1.1 Il cammino verso la riforma.
Il vigente codice penale Rocco, entrato in vigore il 1° luglio 1931,
pur presentandosi, nella disciplina di parte generale, come prodotto
raffinato dal punto di vista tecnico – giuridico, lascia trasparire, nella
disciplina di parte speciale, i caratteri tipici di un’impostazione
autoritaria e moralista.
Il legislatore, in origine, aveva collocato i reati contro la libertà
sessuale nel libro II, titolo IX, capo I del codice penale, dedicato ai
delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume. Siffatta
impostazione sottintendeva che le fattispecie in questione andassero
punite non in quanto offensive della libertà sessuale degli individui, in
particolare donne e minorenni, bensì in quanto contrari alla pubblica
morale. Il legislatore del 1930, del resto, doveva regolamentare, dal
punto di vista penale, una situazione ben diversa da quella vigente: la
concezione della morale pubblica era lontanissima da quella attuale, le
denunce afferenti alla lesione della libertà sessuale erano, per svariate
ragioni, sensibilmente inferiori, dal punto di vista numerico; taluni
fenomeni criminosi, purtroppo così comuni ai giorni nostri, erano del
tutto sconosciuti (basti pensare alla diffusione di materiale pedo-
pornografico via Internet o, sotto un altro profilo, alla diffusione del
turismo sessuale). Le norme giuridiche, infatti, rispecchiano sempre,
seppur con i propri limiti, il contesto sociale, morale e culturale di
riferimento. La difficoltà concreta è quella di adeguare, in tempo reale,
la regolamentazione giuridica alle mutate esigenze. Tale discrasia era
particolarmente avvertita, per quanto concerne il codice penale Rocco,
nella disciplina dei reati sessuali, che rimase sostanzialmente immutata
per circa sessantacinque anni, a fronte di profondi cambiamenti nel
costume e nella mentalità degli italiani.
A partire dagli anni ’70, segnatamente dalla VII legislatura,
vennero caldeggiate in Parlamento, soprattutto dalla ristretta
componente femminile, numerose proposte di legge volte alla modifica
della normativa in tema di lesione della libertà sessuale, fino a giungere
alla promulgazione, nel corso della XII legislatura, della legge nr. 66,
entrata in vigore il 15 febbraio 1996.
La prima proposta di modifica in materia risale al 1977 e fu
presentata alla Camera dall’On. Angela BOTTARI (PCI) con il titolo
“Nuove norme a tutela della libertà sessuale”. Il disegno di legge,
registrato con il numero 1919, accomunava le fattispecie previste e
punite dagli artt. 519/521 c.p. nell’onnicomprensiva figura degli atti di
libidine compiuti mediante violenza o minaccia. Altre innovazioni
particolarmente significative erano costituite dalla creazione
dell’autonoma fattispecie della violenza sessuale di gruppo,
dall’eliminazione di talune figure di “ratto” oramai anacronistiche e
dall’introduzione del divieto di formulare domande invasive sulla vita
privata e sulle relazioni sentimentali della persona offesa, a meno che
non fossero strettamente necessarie per l’accertamento dei reati.
Quest’ultima previsione risultava particolarmente significativa in quanto
s’inseriva in un contesto sociale e processuale nel quale non di rado si
assisteva ad un’inversione dei ruoli, con la collocazione della persona
offesa sul banco degli imputati. Era consuetudine delle difese, infatti,
impostare la propria strategia processuale in modo tale da presentare la
vittima come una provocatrice, suscitando la “riprovazione” pubblica e
legittimando così un’impostazione “giustificatoria” del comportamento
del reo2. In una società affetta da ipocrita perbenismo borghese,
propensa a giustificare “l’irruenza sessuale” maschile ed a condannare
tout court la donna che non si attenesse ai rigidi canoni di
un’irreprensibilità vittoriana, era agevole “aggredire” processualmente
la persona offesa con domande strettamente personali, anche se esulanti
dalle specifiche circostanze processuali, presentando l’indagato quale
vittima incolpevole della spregiudicatezza femminile. Per la prima volta,
con la proposta di legge nr. 1919/77, si vieta formalmente il ricorso a
questo ignobile stratagemma processuale, rivendicando la libertà
sessuale della donna in quanto tale, a prescindere dalle sue abitudini
sessuali, dal suo abbigliamento e dal suo comportamento. La sussistenza
della violenza o della minaccia nel comportamento dell’indagato
rendeva punibile l’atto sessuale, a prescindere dal contegno della
vittima. Per quanto concerne l’aspetto della procedibilità, il disegno di
legge rimase ancorato alla tradizione, ribadendo la tradizionale
procedibilità a querela irrevocabile già propria dell’art. 542 c.p.
La seconda proposta di legge, in ordine di tempo, fu d’iniziativa
popolare. Nel settembre 1978, nel corso di un convegno femminile sul
tema della violenza, nacque l’idea di formare un comitato che si facesse
promotore di un testo di legge contro la violenza sessuale. Il testo,
corredato da ben trecentomila firme, fu presentato alla Camera il 19
2
Emblematico, al riguardo, lo sconcertante filmato dal titolo “Un processo per stupro”,
trasmesso dalla RAI il 26 aprile 1979, dal quale Einaudi ha tratto un’iniziativa editoriale, Gli
struzzi, 1980
marzo 1980 con il titolo “Norme penali relative ai crimini perpetrati
attraverso la violenza sessuale e fisica contro la persona”, ed ascritto al
numero 1551. La proposta di legge, oltre a riproporre gli spunti propri
del disegno di legge nr. 1919/77, rivendicava il trasferimento delle
fattispecie criminose in oggetto nell’ambito dei delitti contro la persona,
introduceva la possibilità per le associazioni di costituirsi parte civile e,
infine, prefigurava la generalizzazione della procedibilità d’ufficio.
Proprio quest’ultimo profilo fu quello che suscitò maggiori discussioni,
soprattutto tra le correnti femministe3, che lamentarono come il ricorso
generalizzato alla procedibilità d’ufficio sottraesse alle vittime la facoltà
di scegliere se affidarsi o meno alla Giustizia e, soprattutto, alla vicenda
processuale.
Nel corso dell’VIII legislatura tutti i partiti fecero seguito a
quell’iniziativa, dando alla luce numerosi disegni di legge4. Il compito di
unificare le varie proposte in un unico testo fu affidato alla IV
Commissione Giustizia della Camera, che presentò l’elaborato finale
alla Camera il 16 dicembre 1982.
Nella sostanza venivano mantenuti i punti cardine del disegno di
legge nr. 1551, ad eccezione del regime di procedibilità: in luogo di un
generalizzato ricorso alla procedibilità d’ufficio, si proponeva un doppio
regime nel quale la procedibilità d’ufficio veniva sostituita da quella a
querela qualora “tra la persona offesa ed il colpevole intercorresse un
rapporto di coniugio o di convivenza”, fatta eccezione per le ipotesi di
connessione con reati procedibili d’ufficio. Il progetto non fu approvato
3
Fondamentale, al riguardo, l’intervento di Ida Dominijanni, riproposto in I. Dominijanni,
“Via Dogana”, nn. 5 e 6 del 1992, cit. da M. Virgilio ”Commentario delle norme contro la
violenza sessuale”, a cura di A. Cadoppi, pagg. 481/482, 1996
4
In ordine cronologico: il ddl nr. 201 del 26 giugno 1979 (comunisti); il ddl nr. 833 del 30
ottobre 1979 (socialisti); il ddl nr. 1057 del 28 novembre 1979 (democristiani); il ddl nr.
1437 del 26 febbraio 1980 (repubblicani); il ddl. nr. 1457 del 28 febbraio 1980 (liberali); il
ddl. nr. 1495 del 12 marzo 1980 (missini); ddl nr. 1631 del 24 aprile 1980
(socialdemocratici), elencati dal M. Virginio, cit., pag. 483.
a causa delle forti resistenze parlamentari al trasferimento delle
fattispecie in questione nell’ambito del titolo XII.
I disegni di legge presentati nel corso della IX legislatura non
presentarono significative innovazioni rispetto ai precedenti. Il compito
di armonizzarli in un unico testo fu nuovamente attribuito alla
Commissione Giustizia della Camera, che presentò l’elaborato
nell’ottobre 1984. La Camera approvò il testo, seppur con alcune
integrazioni e modifiche. In esso, per la prima volta, si propose la
collocazione delle nuove fattispecie quale sottoclassificazioni dell’art.
609 c.p., anche se queste ultime erano ancora molto diverse da quelle
che poi assurgeranno a legge nel 1996. In particolare erano previste le
seguenti fattispecie: violenza sessuale (art. 609 bis); violenza sessuale
presunta anche tra minori coetanei (art. 609 ter); atti sessuali commessi
con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale (art. 609 quater), violenza
sessuale di gruppo (art. 609 quinques); sequestro di persona a scopo di
violenza sessuale (art. 609 sexies); atti sessuali commessi in presenza di
minori (art. 609 septies). Contestualmente venivano abrogati il capo I
del titolo IX, nonché gli articoli 530, 541, 542, 543 c.p. Per quanto
riguarda la procedibilità si riproponeva il già citato “doppio regime”.
L’approvazione del disegno di legge si arenò al Senato.
Durante la X legislatura vennero presentati quattro nuovi disegni
di legge, che sostanzialmente richiamavano le linee portanti dei
procedenti, senza introdurre innovazioni di rilievo. Anche questi furono
“assemblati” in un testo unico, che ancora una volta non divenne legge a
causa del mai domo dibattito in Senato. Il profilo che diede adito alle
più accese discussioni fu proprio quello della procedibilità. La
proposizione del c.d. “emendamento Bassanini”, caldeggiato da
autorevoli giuristi (tra i quali è opportuno ricordare quantomeno Bricola,
Cotturi, Ferrajoli e Padovani), parve rappresentare, in un primo
momento, la soluzione a tutti i problemi. L’emendamento prevedeva, tra
l’altro, la facoltà della persona offesa di opporsi, entro quindici giorni, al
procedimento d’ufficio, qualora questo fosse stato avviato su denuncia
di terze persone. L’emendamento fu però ritirato in un secondo
momento e la fondamentale questione della procedibilità restò in una
fase di stallo.
L’entrata in vigore, nel 1989, del nuovo codice di procedura
penale fece sorgere ulteriori questioni. Se da un lato pose fine al
dibattito relativo alla presenza, all’interno del processo, di enti ed
associazioni, dall’altro introdusse il tema dell’applicabilità dei
procedimenti speciali alle fattispecie criminose in questione.
Nel corso della XII legislatura vennero presentati cinque disegni
di legge, ma soprattutto venne predisposto dalla Commissione Pagliaro
lo schema di legge delega per l’emanazione del nuovo codice penale. Le
citate proposte legislative non introdussero novità di rilievo, ad
eccezione della scelta d’impostare il regime di procedibilità sulla
querela, peraltro irrevocabile, prevedendo espressamente il ricorso alla
procedibilità d’ufficio nei soli casi di violenza sessuale perpetrata nei
confronti di un malato di mente, ovvero da soggetto che abusi della
propria qualifica di pubblico agente o, ancora, nei casi in cui il reato di
violenza sessuale sia commesso unitamente ad un reato procedibile
d’ufficio. Per la fattispecie della violenza sessuale di gruppo era sempre
prevista la procedibilità d’ufficio.
La XIII legislatura fu, senza dubbio alcuno, la più prolifica in
quanto a disegni di legge sull’argomento (complessivamente diciotto, tra
Camera e Senato). I tempi erano maturi per una svolta in tal senso.
L’opinione pubblica era particolarmente sensibile al problema, a causa
dell’escalation di gravissimi episodi di pedofilia che sconvolse l’Italia
ed il mondo intero in quel periodo.
Non a caso, un’importante proposta venne dall’Associazione
volontarie del telefono Rosa: il testo di riforma era imperniato
sull’inasprimento sanzionatorio, giustificato con l’esigenza di evitare
che il ricorso ai procedimenti speciali (su tutti l’applicazione della pena
su richiesta delle parti) potesse consentire, di fatto, agli autori di tali
reati di evitare tout court la detenzione. In questa fase, pertanto,
l’esigenza avvertita come primaria era quella “dell’eliminazione dalla
circolazione” dei soggetti ritenuti pericolosi, e non vi era traccia di
alcuna disposizione incentrata sul tentativo di recupero e di
reinserimento degli abusanti.
L’articolato prevedeva, inoltre, un’attenuante per il colpevole che,
prima dell’apertura del dibattimento, accettasse di sottoporsi ad
accertamenti clinici richiesti dalla persona offesa al fine di scongiurare
eventuali contagi da A.I.D.S. La disposizione in questione può essere
considerata l’antesignana della norma introdotta con l’art. 16 della legge
66/96.
La proposta di maggior rilievo fu quella presentata, il 23 maggio
del 1995, dall’On. Mussolini, e registrata con il nr. 2576. In essa già si
trovano le linee portanti della legge nr. 66 del 1996, cui si giungerà con
una serie ravvicinata di concitate sedute parlamentari caratterizzate, più
che dal tenore della discussione, dall’esigenza di affrettare il
licenziamento della legge. A prescindere dalle valutazioni che ciascuno
può fare dell’articolato, non si può che biasimare il legislatore per la
fretta dimostrata nelle ultime fasi della sua elaborazione, con evidenti
ripercussioni sul prodotto finale. Resta il rammarico per una legge che
avrebbe meritato, dopo una più che ventennale fase di gestazione, una
maggiore attenzione nella formulazione delle norme di coordinamento
con le disposizioni previgenti.
In considerazione dell’ampio coinvolgimento dell’opinione
pubblica sull’argomento, la portata della riforma è stato enfatizzata dai
mass media, soprattutto nei suoi profili più marcatamente demagogici,
quali il trasloco di tali delitti nel titolo XII, dedicato ai “delitti contro la
persona” - segnatamente nel capo III, “dei delitti contro la libertà
individuale”, sezione II, “Dei delitti contro la libertà personale” - e
l’unificazione delle vetuste fattispecie di violenza carnale ed atti di
libidine violenta nell’onnicomprensiva nozione di atti sessuali.
Di fatto, però, come tenterò di dimostrare in questo capitolo, la
legge nr. 66/96 presenta ben altre innovazioni meritevoli d’attenzione,
pur risultando tutt’altro che emenda da lacune e difetti.
Per cogliere appieno la portata della riforma, ritengo opportuno
tracciare una sintetica disamina della normativa previgente. L’abrogato
titolo IX, rubricato “dei delitti contro la moralità pubblica ed il buon
costume” era suddiviso in due capi, il primo intitolato “dei delitti contro
la libertà sessuale” e comprensivo degli artt. 519/526; il secondo
rubricato “delle offese al pudore e all’onore sessuale”, comprensivo
degli artt. 527/538.
Dal punto di vista politico-legislativo, la decisione di abrogare
interamente il capo I ed alcuni articoli del capo II del titolo IX,
ridefinendo le fattispecie sanzionatorie nel titolo XII, capo III (“Dei
delitti contro la libertà individuale”), sezione II (“Dei delitti contro la
libertà personale”), introducendo gli articoli compresi dal 609 bis al 609
octies, ha rappresentato, quantomeno formalmente, una decisa presa di
posizione verso una regolamentazione meno autoritaria di un così
importante interesse pubblicistico, condizionato in maniera oramai
giudicata intollerabile da una disciplina anacronistica.
La precedente collocazione delle norme in questione era del tutto
coerente con la tradizione giuridica italiana e, per certi versi, anche
straniera. Un’obiettiva analisi storico-giuridica non può omettere di
evidenziare come in nessuno dei codici penali preunitari fosse
rinvenibile una differente collocazione sistematica: il codice sardo-
italiano del 1859 riconduceva le fattispecie in questione ai “reati contro
l’ordine delle famiglie”, sulla scia del codice Albertino del 1839; il
codice toscano del 1853 includeva i reati di violenza sessuale
nell’ambito dei “delitti contro il pudore e contro l’ordine delle
famiglie”, ed a tale impostazione non faceva eccezione neppure il codice
napoletano del 1819 che includeva lo stupro violento tra i “reati che
attaccano la pace e l’onore delle famiglie”. Lo stesso codice Zanardelli
del 1889 inseriva il capo dei delitti dedicato alla violenza carnale, alla
corruzione di minorenni ed all’oltraggio al pudore, nel titolo VIII del
libro II, rubricato “delitti contro il buon costume e l’ordine delle
famiglie”.
Il legislatore del 1930 non avrebbe pertanto potuto trovare nella
tradizione giuridica italiana valide ragioni per mutare tale consolidata
impostazione, e tale spunto non sarebbe stato rinvenibile, come
anticipato, neppure in una dimensione transnazionale. Il codice
imperiale tedesco collocava i reati sessuali nell’ambito di quelli “contro
il buon costume” (sez. XIII della parte seconda); analoga collocazione
era rinvenibile nel codice spagnolo del 1870 (titolo IX del libro II) ed in
quello norvegese del 1902 (cap. XIX). Anche il codice penale danese
del 1930, contemporaneo del codice Rocco, inseriva tali fattispecie
nell’ambito dei “delitti che offendono il buon costume”.
E’ evidente come la collocazione teleologica di un gruppo di
norme non rappresenti una scelta meramente formale, ma influisca sulla
struttura stessa della fattispecie, che risulterà logicamente adeguata alla
propria collocazione sistematica. Le conferme dell’intrinseca congruità
tra le fattispecie criminose previste e disciplinate negli artt. 519/526 c.p.
e la loro collocazione sistematica nel capo I del titolo IX erano
numerose ed evidenti. Come dimostrato poc’anzi, l’impostazione
sistematica del codice Rocco in materia era coerente alla tradizione
giuridica italiana ed in alcune norme erano rinvenibili evidenti tracce di
tale retaggio, incentrato sulla criminalizzazione di qualsivoglia rapporto
sessuale non finalizzato alla procreazione all’interno del matrimonio.
Non a caso, la disciplina previgente al codice Rocco, ottimamente
analizzata dal Padovani5, prevedeva tre ipotesi di stupro:
a) lo stupro “semplice”, consistente della mera congiunzione
carnale, non violenta, con una donna nubile di onesti costumi, ovvero
nell’adulterio con una donna coniugata. Tale fattispecie di reato a
concorso necessario poneva la donna sullo stesso piano dell’uomo, dal
punto di vista della responsabilità penale, attribuendole un ruolo
significativo nella violazione di una morale superiore;
b) Lo stupro “qualificato”, inteso come seduzione della donna;
c) Lo stupro “violento”, caratterizzato dalla violenza o dalla
minaccia, intese, però, quali elementi aggravanti di una fattispecie già di
per sé illecita, la congiunzione carnale, appunto.
Nel codice penale del 1930 fu mantenuta unicamente la fattispecie
penale dello stupro “violento”, senza però offrire risoluzione
all’ambiguità derivante dal contesto nel quale la norma era stata
elaborata, come detto proteso ad individuare nella violenza o minaccia
una mera aggravante di un fatto già di per sé illecito: una simile
impostazione non consentiva, pertanto, una lettura del delitto in chiave
di lesione della libertà personale. Siamo di fronte ad un autentico
paradosso giuridico: il rapporto sessuale non era più considerato un
illecito giuridico lesivo di una morale “superiore”, ma alla persona
offesa non era sufficiente dimostrare il proprio dissenso al rapporto
5
T. Padovani, in Commentario, cit., pagg. 6 ss.
stesso per ottenere tutela penale, risultando altresì necessario far
emergere la coazione fisica o psichica. La contraddittorietà di una simile
impostazione riceveva solo parziale temperamento dal consolidato
orientamento giurisprudenziale volto ad ampliare il concetto di violenza
e di minaccia, sino a ricomprendervi tutte le ipotesi concretizzantesi in
uno stato di coazione psichica, a prescindere dalla materiale
esternazione della violenza.
Quanto sopra non significa che la collocazione sistematica decisa
negli anni ’30 fosse adeguata alle esigenze contemporanee, né che non
fosse giustamente avvertita da più parti una profonda esigenza di
cambiamento, ma forse può indurre ad un ridimensionamento delle
ridondanti critiche sulla matrice fascista delle norme contenute
nell’abrogato titolo IX. Se, infatti, esaminiamo questo aspetto della
riforma sotto il profilo del presunto incremento della tutela, non
possiamo che constatare un risultato più ideologico che sostanziale.
L’articolato normativo in questione, apparentemente rivoluzionario, di
fatto non può che leggersi come codificazione di un orientamento
giurisprudenziale e dottrinale preesistente e consolidato, che non
mancava di individuare l’oggetto della tutela nella libertà sessuale. Anzi,
a ben vedere, non possono ritenersi prive di fondamento le critiche che
da più parti sono state rivolte a questa pretesa “rivoluzione sistematica”.
Credo che l’appunto più significativo movibile al nostro
legislatore, da questo punto di vista, sia quello di non essersi spinto sino
a formalizzare un autonomo riconoscimento della libertà sessuale in
quanto tale, dedicandole un’apposita Sezione del codice penale, ma di
essersi accontentato di inserire tali fattispecie nell’ambito dei reati
contro la libertà personale, collocandoli peraltro in maniera del tutto
incongrua quale sottonumerazione dell’art. 609 c.p., norma che,
afferendo alle perquisizioni ed alle ispezioni personali arbitrarie,
presenta scarsa attinenza con gli attentati alla libertà sessuale.
Tale impostazione legislativa lascia ancora più perplessi se si
considera che il panorama normativo offerto dagli altri ordinamenti
europei era ricco di validi spunti in tal senso. Il codice penale tedesco,
ad esempio, disciplinò i reati sessuali nel titolo dedicato ai delitti contro
la moralità pubblica sino alla riforma del 1973, per poi istituire
un’apposita sezione dedicata alla “libertà di determinazione della sfera
sessuale”. L’ordinamento francese, parimenti, ha istituito un’autonoma
sezione intitolata alle “aggressioni sessuali”. In seguito alla riforma del
1995 il codice penale spagnolo ha addirittura dedicato un autonomo
titolo ai “delitti contro la libertà sessuale”.
Ridimensionata, in parte, l’enfasi con la quale è stata
pubblicizzata la nuova collocazione sistematica della normativa in
materia, appare opportuno illustrare le numerose, e significative,
innovazioni introdotte dalla L. 66 del 15 febbraio 1996.
1.2 Art. 609 bis. Violenza sessuale.
Il nuovo art. 609 bis ha assorbito le fattispecie originariamente
disciplinate dagli artt. 519 co. 1 e 521 co. 1 c.p., eliminando la
distinzione tra “congiunzione carnale” ed “atti di libidine” ed
unificandole nell’onnicomprensiva accezione di “atti sessuali”.
Tale innovazione pare tutelare maggiormente la persona offesa, in
quanto consente di evitare quell’approfondimento investigativo,
particolarmente traumatico, tipico del passato, finalizzato ad appurare se