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Quello che non ha funzionato sono le politiche neoliberiste dettate dalle istituzio-
ni internazionali. Le politiche del Washington Consensus, o quelle più remote di
Aggiustamento Strutturale si basavano sull’ideologia o sugli interessi politici e
finanziari di chi le prendeva. Le politiche del Washington Consensus si basavano
su un modello semplicistico dell’economia di mercato, quello dell’equilibrio
competitivo, in cui opera alla perfezione la “mano invisibile” di Adam Smith.
Secondo questo modello ottocentesco, le forze del mercato, cioè l’interesse per-
sonale, senza alcun intervento del governo, guiderebbero l’economia sulla strada
dell’efficienza collettiva. Anche se l’economia può sembrare un argomento arido
e distante dalla realtà, buone politiche economiche avrebbero avuto il potere di
cambiare la vita di questa povera gente.
All’interno del dibattito sulle ragioni dei fallimenti delle politiche neoliberiste, è
emersa immediatamente l’idea che i principali responsabili fossero il Fondo Mo-
netario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del
Commercio, centri di comando dell’ordine economico mondiale e attori principa-
li della globalizzazione.
L’obiettivo di questo lavoro è verificare la fondatezza di questa ipotesi; analizze-
remo, dunque, come le politiche auspicate dalle istituzioni di Washington
abbiano bloccato lo sviluppo di molti PVS, condannandoli a una maggior povertà.
Dopo queste critiche si prenderanno in considerazione eventuali revisioni negli
scenari istituzionali internazionali di più ampia e coerente portata. Inoltre si por-
ranno in risalto le principali problematiche della globalizzazione e del modo
sbagliato in cui è stata condotta finora.
Nel primo capitolo, si cerca di spiegare che cosa sono lo sviluppo e il sottosvi-
luppo, con i loro vari indicatori. Si è cercato di delineare quello che risulta oggi
lo stadio di evoluzione dei PVS, con i loro problemi di sperequazione dei redditi,
di povertà, di disuguaglianze e di sovrappopolazione.
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Il secondo capitolo, cuore del dibattito sulle responsabili della globalizzazione, ci
presentano le istituzioni internazionali di Bretton Woods, partendo dalle idee ori-
ginarie di Keynes fino ad arrivare alla loro struttura di oggi.
Il terzo capitolo affronta le politiche del Washington Consensus dettate dalle isti-
tuzioni finanziarie di Washington all’inizio degli anni ’90. Sono nate tra gli
economisti e tra le stesse istituzioni finanziarie molte polemiche circa la bontà di
queste politiche. Vedremo come la liberalizzazione affrettata dei mercati senza
nessuna regolamentazione, abbia generato caos e crisi in varie economie. Alla fi-
ne del capitolo verrà proposto un’alternativa alle vecchie politiche del
Washington Consensus.
Il quarto capitolo analizza i fallimenti della globalizzazione. Esso cerca di esami-
nare perché si contesta tanto la globalizzazione finanziaria e quella economica;
quali siano state le loro carenze e la loro influenza sul processo di riduzione della
povertà e delle disuguaglianze nei PVS.
Il quinto capitolo cerca di fornire delle prospettive per il futuro. Visto che la glo-
balizzazione è già cominciata, non la si può più fermare, e inoltre, se ha recato
dei vantaggi a paesi come la Cina, ciò significa che può portarne anche ad altri
paesi, magari con un approccio diverso, con delle strategie di sviluppo differenti.
Si pensa ad una prospettiva di sviluppo più umano, con la richiesta di riforme del
sistema di governance globale. Alla fine del capitolo, si fa cenno all’iniziativa in
corso Heavily Indebted Poor Countries (HIPC), iniziativa a favore dei paesi po-
veri altamente indebitati. Questa iniziativa prevede la cancellazione graduale del
debito di alcuni PVS sotto alcune condizioni, con la contemporanea adozione di
una strategia per la riduzione della povertà. A questo proposito, ci soffermeremo
sul caso particolare del Camerun. Concluderemo il capitolo con alcune critiche
portate da organizzazioni a favore della cancellazione del debito e dagli stessi
PVS su questa iniziativa, sul problema della condizionalità, e sulla tempistica
lunga per la cancellazione del debito.
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CAPITOLO 1: SVILUPPO E SOTTOSVILUPPO.
1.1. Che cos’è lo sviluppo?
1.1.1. Definizione dello sviluppo.
Quando gli economisti parlano di sviluppo, usano una parola che nel lin-
guaggio ordinario indica l’accrescimento nel tempo e generalmente in modo
graduale, di una qualche entità visibile (come un essere vivente) o percepibile
(come le conoscenze o le abilità di una persona). Di questa entità è possibile os-
servare e confrontare gli stati in momenti diversi, in base a unità di misura,
conoscere se e quanto essa si è sviluppata. Perché si possa parlare di sviluppo è,
quindi, necessario identificare un oggetto della nostra osservazione e verificarne
il mutamento. Ci si può anche chiedere se esiste una forma compiuta del feno-
meno studiato, ossia un punto di arrivo del processo di sviluppo. Nei recenti
documenti della Banca Mondiale, il compimento avviene quando si realizza lo
“sviluppo umano” con le relative misure di accompagnamento che sono la spe-
ranza di vita, l’alfabetizzazione e il reddito medio. In un senso più ampio, la
nozione di sviluppo umano raccoglie tutti gli aspetti del benessere di un indivi-
duo, dalla sua salute alla sua libertà politica ed economica. Dal Rapport Mondial
sur le Developpement Humain del 1996, pubblicato dal UNDP (United Nation
Developpement Programme), “lo sviluppo umano è un fine avendo come mezzo
la crescita economica”
2
.
2
Rapport Mondial sur le Developpement Humain, UNDP, 1996.
10
1.1.2. La crescita economica uguale sviluppo?
A. Indicatori della crescita economica.
L’idea che lo sviluppo economico di un paese consista nell’aumento della
sua produzione e del suo reddito è ampiamente diffusa. Di conseguenza si dirà
che lo sviluppo di un paese da un anno all’altro è tanto maggiore quanto maggio-
re è il tasso di crescita del suo prodotto, e i paesi potranno essere considerati più
o meno sviluppati a seconda del livello del loro prodotto annuo. Come è noto, il
prodotto di un paese è la somma dei valori aggiunti nei i vari settori, ossia
l’incremento di valore conferito a ogni bene o servizio in ogni fase della sua pro-
duzione, al lordo dell’ammortamento corrispondente al valore del capitale fisso
usato nella sua produzione. Il prodotto dei fattori attribuibili ai cittadini di un pa-
ese è il Prodotto Nazionale Lordo (PNL), quello dei fattori, a chiunque essi
appartengano, localizzati nel paese è il Prodotto Interno Lordo (PIL). La misu-
razione del PNL e del PIL presenta problemi che hanno rilevanza diversa nei
diversi paesi e dei quali occorre tenere conto soprattutto quando si effettuano
confronti internazionali. Il PNL può essere minore del PIL se i redditi di produ-
zione di un paese vanno maggiormente a persone o società straniere. Per esempio
il PNL del Cile era minore di 5% rispetto al suo PIL nel 1994. Viceversa, se le
società e i privati nazionali possiedono un’importante volume di azioni e obbli-
gazioni di altre società o Stati, il PNL potrà essere maggiore del PIL. Per
esempio il PNL dell’Arabia Saudita nel 1994 era maggiore del PIL del 7%. In
ogni caso questi due indicatori statistici presentano in gran parte dei paesi diffe-
renze trascurabili.
Alle rilevazioni statistiche o ai dati fiscali sfuggono i beni e servizi prodotti da
quella che viene chiamata “economia sommersa”, gli autoconsumi, i prodotti del
lavoro domestico. La produzione delle attività “sommerse” e quella per
l’autoconsumo vengono misurate in base a stime, ma queste possono portare a
sottovalutazioni o a sopravvalutazioni.
11
Questo problema è particolarmente rilevante per i Paesi in Via di Sviluppo
(PVS), nei quali gran parte delle attività economiche sono svolte da piccole unità
produttive “informali”, che sfuggono a registrazioni, censimenti, tassazione, dove
nelle campagne prevale l’agricoltura di autoconsumo e dove molti beni e servizi,
come il cibo, il vestiario, la cura e l’educazione dei figli, che altrove sono, in mi-
sura crescente, offerti sul mercato, vengono prodotti all’interno del nucleo
familiare.
Il PNL e il PIL possono servire come indicatori di grandezze economiche di un
paese. Ma, per confrontare il grado di sviluppo di paesi diversi si deve, come è
ovvio, tenere conto della loro popolazione e, quindi considerare il prodotto pro
capite. Il PNL pro capite e il PIL pro capite riflettono il volume approssimato di
beni e servizi che ogni individuo sarebbe in grado di procurarsi durante l’anno se
i redditi fossero distribuiti in modo equo (Figura 1.1).
Figura 1.1 PNL pro capite
Fonte: Beyond Economic Growth, World Bank, 2000.
Però, questo confronto crea alcuni problemi. L’unità di misura del PNL o il PIL è
in ogni paese la valuta nazionale; per confrontare i valori di diversi paesi è neces-
sario convertirli in una unica valuta che, convenzionalmente, nelle statistiche
internazionali, è il dollaro degli Stati Uniti. Se la conversione viene effettuata uti-
lizzando il tasso di cambio ufficiale tra le due valute, il confronto può essere
viziato per due ordini di motivi.
12
Innanzitutto, il tasso di cambio ufficiale può divergere da quello di mercato
quando è fissato dalle autorità economiche di un paese: errori della politica ma-
croeconomica possono determinarne una sopravvalutazione o sottovalutazione
rispetto al valore affettivo. Di conseguenza, a seconda dei casi, il prodotto del
paese considerato può apparire minore o maggiore di quello che risulterebbe se il
tasso di cambio riflettesse i valori di mercato. In secondo luogo, anche se il tasso
di cambio è quello di mercato, esso dipende dall’offerta e domanda di valuta de-
terminate dai movimenti di capitale e dagli scambi di merci (tradable) sul
mercato mondiale. Parte dei beni e soprattutto dei servizi prodotti e consumati in
un paese, tuttavia non sono scambiati internazionalmente (non tradable) e le
quantità vendute e i prezzi di questi prodotti non influenzano il tasso di cambio.
Ne deriva, che nei PVS, dove i costi di produzione e i prezzi dei beni e servizi
non commerciati internazionalmente sono più bassi, un dollaro USA ha un potere
d’acquisto superiore a quello che ha in paesi dove tali costi sono più elevati. Se il
prodotto di questo paese è misurato in dollari, esso risulterà più basso di quanto
sia in realtà. Per evitare questo inconveniente, è stato introdotto un tasso di con-
versione convenzionale, costruito tenendo conto della media ponderata dei prezzi
mondiali di 151 categorie di beni, e creando un dollaro artificiale che ha Pari Po-
tere d’Acquisto (PPA) in tutti i paesi, ossia ci indica la quantità di beni che la
moneta locale può acquistare nel paese anziché il numero di dollari che può ac-
quistare sul mercato internazionale. Applicando questo fattore di conversione, si
può per esempio, convertire il PNL nominale in PNL reale. Dunque, confrontan-
do il prodotto nazionale pro capite dei paesi del mondo, rispettivamente in dollari
USA e in dollari PPA (Tabella 1.1), possiamo rilevare che il divario tra i paesi
ricchi e poveri nel secondo caso si riduce rispetto a quello che appare nel primo,
dato che il costo della vita nei paesi poveri è sensibilmente inferiore.
Il PNL calcolato sulla base del PPA costituisce una migliore base per le compa-
razioni tra livelli medi di redditi o di consumo di diverse economie.
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Tabella 1.1 PNL in dollari USA e in dollari PPP.
PAESI per classe di reddito
PNL in dollari USA PNL in dollari PPP
Paesi a basso reddito
Paesi a medio reddito
410 1.790
2.000 4.880
Paesi ad alto reddito 25.730 24.430
Fonte: World Bank (2000-2001), pp.274-5
B. Tassi di Crescita economica.
La differenza tra il PNL medio pro capite dei PVS e dei paesi sviluppati si
allarga sempre di più. Secondo uno studio della Banca Mondiale, il reddito pro
capite dei paesi più ricchi era di 11 volte superiore a quello dei paesi più poveri
nel 1870, di 38 volte superiore nel 1960, e di 52 volte superiore nel 1985. E, in
base a un PIL mondiale di 23 miliardi di dollari all’inizio degli anni ’90, la parte
dei PVS era solo di 5 miliardi di dollari, ossia meno del 20% a fronte dell’80%
della popolazione mondiale.
La forte crescita media registrata tra i PVS nasconde gravi disparità tra di loro.
Tra il 1985 e il 1995, l’Asia ha conosciuto il maggiore tasso di crescita del PNL
pro capite: più del 7% all’anno. Ma in altre due regioni del mondo dei PVS, il
tasso di crescita annuo medio è stato negativo (-1,1% in Africa subsahariana, e -
0,3% nel Medio-Oriente e in Nord Africa). Il più forte calo di tassi di crescita del
PNL pro capite è stato osservato nell’Europa dell’Est e in Asia Centrale, calo do-
vuto alla crisi economica provocata dalla transizione dall’economia pianificata
all’economia di mercato (Tabella 1.2).
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Tabella 1.2 PIL PRO CAPITE E TASSI DI CRESCITA IN DIVERSE AREE E PAESI.
Dollari PPP
Aree e Paesi
Tasso di crescita del PIL pro capite.
1950-73 1973-98
PIL pro capite
1950 1998
America Latina
2,52 0,99 2.554 5.795
Messico 2,78 2,42 2.365 6.655
Brasile 2,91 2,00 1.672 5.459
Cile 3,04 2,08 3.821 9.756
Bolivia 2,31 2,08 1.919 2.459
Haiti 1,88 1,44 1.051 816
Nicaragua 2,73 2,02 1.616 1.451
Asia 6,13 4,81 713 3.565
Cina 5,02 6,84 439 3.117
India 3,54 5,07 619 1.746
Corea 8,13 7,31 770 12.152
Taiwan 9,81 6,77 936 15.012
Africa 2,07 0,01 852 1.368
Nigeria 2,87 -0,63 753 1.232
Senegal 0,19 -0,04 1.259 1.302
Zaire (R:D: Congo) 1,68 -4,68 497 220
Fonte: Maddison A. (2002), pp. 195-97, 215-17, 224-25.
15
1.1.3. Ambiguità del sottosviluppo.
Quando, ad opera delle Nazioni Unite, si è cominciato a pubblicare dati
statistici (relativi al 1949), inizialmente molto aggregati e imperfetti, che permet-
tevano una comparazione tra le regioni del mondo, le diverse aree periferiche
presentavano una differenziazione dei loro livelli di reddito pro capite, ossia dei
rispettivi indici di sviluppo. La principale evidenza che tali dati mettevano in luce,
e che attirava l’attenzione degli economisti e dei politici, era, tuttavia,
l’elevatissimo dislivello tra paesi sviluppati e sottosviluppati. Il Nord-America,
con meno del 10% della popolazione, aveva il 43,6% del reddito mondiale, men-
tre l’Asia, il continente più povero, con più della metà della popolazione, aveva
poco più del 10%. Nonostante le loro differenze, i paesi dell’America Latina,
dell’Asia e dell’Africa, venivano, quindi, considerati in contrapposizione al
mondo sviluppato, come un insieme abbastanza omogeneo, e tutto, più o meno,
sottosviluppato: quello che venne in quegli anni chiamato il Terzo Mondo. I pa-
esi che vi facevano parte condividevano alcune caratteristiche. Esse spiegavano il
basso livello di reddito, rispetto a quello dei paesi capitalistici sviluppati e
dell’URSS e riguardavano principalmente: la loro struttura produttiva (prevalen-
temente agricola e mineraria), il basso grado di sviluppo tecnologico e di
istruzione, la scarsa dotazione infrastrutturale, la posizione nel mercato mondiale
sempre più sfavorevole, la distribuzione del reddito (con buona parte della popo-
lazione al di sotto del livello di sussistenza), la struttura sociale e istituzionale
poco organizzata. Tutte queste caratteristiche spiegavano un fenomeno, noto an-
che nei paesi sviluppati, ma che nel Terzo Mondo era particolarmente accentuato:
il dualismo della struttura economica, ossia la compresenza nello stesso paese di
un’area, talora comprendente le maggiori città o i distretti minerari e le pianta-
gioni, dove erano localizzate attività produttive relativamente moderne, con
produttività elevata e redditi molto superiori alla media, e un’area comprendente
la maggior parte delle campagne, con un’economia diretta all’autoconsumo.
16
I problemi economici erano aggravati dall’elevato tasso di crescita demo-
grafica, e dal fatto che, nei primi decenni del dopoguerra, molti paesi africani e
asiatici erano ancora sotto il regime coloniale, in altri erano in corso lotte di indi-
pendenza, altri erano da poco decolonizzati e le loro istituzioni politiche erano
deboli e poco radicate nella società.
Dopo circa mezzo secolo dalla fine della seconda guerra mondiale e dall’inizio
della decolonizzazione, i processi di sviluppo del sistema capitalistico mondiale e
i programmi e le politiche dei governi nazionali e delle organizzazioni interna-
zionali hanno determinato numerosi cambiamenti in quello che era chiamato il
Terzo Mondo e nelle caratteristiche dei paesi che vi facevano parte. Un esame
anche sommario dei dati sui livelli del reddito pro capite in diverse aree e diversi
paesi (Tabella 1.2) è sufficiente per mostrarci che nel periodo considerato, alcuni
paesi asiatici (Corea del sud e Taiwan), in virtù di tassi di crescita elevatissimi in
entrambi i sub-periodi, raggiungono livelli di reddito prossimi a quelli dei paesi
europei, mentre negli anni 1972-98 anche Cina e India accelerano il passo della
loro crescita, raggiungendo o superando il livello di reddito del quale disponeva-
no i maggiori paesi latino-americani nell’immediato dopoguerra. America Latina
e Africa crescono, seppur a tassi minori, nel periodo della Golden Age, ma nel
periodo successivo, l’America Latina, colpita dalla crisi debitoria e dalle sue con-
seguenze, frena fortemente e l’Africa si arresta.
Una visione completa della divisione del mondo in paesi più o meno sviluppati ci
è data dai Rapporti annuali della Banca Mondiale. In base ai dati del 1999, i paesi
vengono classificati, a seconda del loro PNL pro capite (in dollari USA PPA), in:
paesi a reddito basso (fino a 755 dollari), medio-basso (fino a 2.995), medio-
alto (fino a 9.265), alto (oltre i 9.265) (World Bank, 2000-2001, pp.271, 334-5).
In generale, tutti i paesi a basso o medio reddito (esclusi quelli nati dalla disgre-
gazione dell’URSS o europei ex socialisti, che rientrano nella definizione di
“economie in transizione”) vengono chiamati Paesi in Via di Sviluppo (PVS, in
inglese Developing Countries, DCs).
17
Sarebbe tuttavia più corretto riservare tale denominazione ai paesi nei quali è ef-
fettivamente in atto un processo di sviluppo, distinguendoli dai paesi ancora
sottosviluppati. Una parte di questi ultimi, prevalentemente africani, sono definiti
dalle Nazioni Unite, Paesi meno sviluppati (Least Developed Countries), e con-
siderati come quelli ai quali dovrebbe essere destinata la maggior parte degli aiuti
dei paesi sviluppati e delle agenzie internazionali.
18
1.2. Sperequazione dei redditi.
Dalla tesi che fa dipendere la crescita di un paese sottosviluppato
dall’aumento della quota del reddito nazionale destinata al risparmio si può de-
durre che, essendo la propensione al risparmio dei capitalisti maggiore di quella
dei lavoratori, una distribuzione più favorevole ai profitti è una condizione fon-
damentale della crescita. Si deve quindi presumere che, almeno fino a quando i
salari non cominceranno a salire, la crescita richiede un aumento della disugua-
glianza nella distribuzione del reddito. Il passaggio da un’economia tradizionale
ad una moderna determina, infatti, una differenziazione nella struttura produttiva,
con il formarsi di più settori, il sorgere di imprese di varie dimensioni,
l’introduzione di nuove tecniche e, insieme, una differenziazione della società,
per l’emergere di nuove classi e strati sociali. È ragionevole quindi pensare che
gli inizi della trasformazione strutturale di un’economia in senso moderno e capi-
talistico portino, insieme ad un aumento del reddito totale e pro capite, una
tendenza ad una distribuzione più disuguale.
In Brasile e in Ungheria, per esempio, i livelli del PNL pro capite sono
abbastanza paragonabili, ma l’incidenza della povertà in Brasile è maggiore. Ciò
si spiega con l’aiuto della Figura 1.2, che presenta la ripartizione del reddito na-
zionale tra quintili uguali della popolazione (individui e famiglie) classificati in
funzione ai loro redditi. In Ungheria, il quintile (20% della popolazione) più ricca
riceve circa quattro volte più del reddito nazionale rispetto al quintile più povero;
in brasile, è di 30 volte maggiore.
19
Figura 1.2 Ripartizione dei redditi per quintili di popolazione in Brasile e in Ungheria.
Fonte : World Bank, 1995
Per misurare la disuguaglianza dei redditi al livello di un paese e fare dei parago-
ni esatti tra paesi, gli economisti fanno ricorso alla curva di Lorenz e al
coefficiente di Gini. La curva di Lorenz è una rappresentazione grafica delle per-
centuali cumulate del reddito totale appartenente alle diverse percentuali
cumulate del numero dei beneficiari, con gli individui e le famiglie le più povere
considerati per primi (Figura 1.3).
Figura 1.3 Curva di Lorenz e coefficiente di Gini per il Brasile e l’Ungheria
Fonte : World Bank, 2000
20
Maggiore è l’inclinazione della curva di Lorenz per un dato paese, maggiore è la
sperequazione nella distribuzione dei redditi in questo paese. Se si considera la
retta di equidistribuzione sulla Figura 1.3, il 20% della popolazione riceverebbe
esattamente 20% del reddito, il 40% seguente ne riceverebbe il 40%, e così via.
La curva di Lorenz avrebbe di conseguenza la forma di una retta che va
dall’angolo inferiore sinistro all’angolo superiore destro del grafico. Come illu-
stra la Figura 1.3, la curva di Lorenz del Brasile si allontana molto più di quella
dell’Ungheria dall’ipotetica retta di equidistribuzione perfetta; tra questi due pae-
si, dunque, è il Brasile che ha una disuguaglianza dei redditi più pronunciata.
Quando si tratta di fare paragoni tra le disuguaglianze dei redditi tra parecchi pa-
esi, il coefficiente di Gini è molto più pratico della curva di Lorenz. Questo
coefficiente misura l’area tra la curva di Lorenz e la retta di equidistribuzione
perfetta, ed è espresso in percentuale sulla superficie del triangolo sotto questa
retta. Un coefficiente di Gini di 0% rappresenta l’uguaglianza perfetta: la curva
di Lorenz coinciderebbe in questo caso con la retta di equidistribuzione. Un coef-
ficiente di Gini del 100% rappresenta invece una situazione di disuguaglianza
massima.
La tendenza alla disuguaglianza distributiva, tuttavia, non è una conseguenza ne-
cessaria e inevitabile della crescita e dello sviluppo. Numerose indagini,
stimolate dalle iniziali ricerche dell’economista Kuznets, hanno mostrato che, a
parità di crescita del reddito, la sua distribuzione varia da paese a paese, a secon-
da delle caratteristiche che in ciascuno di essi hanno lo sviluppo e, in particolare,
le politiche che i rispettivi governi adottano per promuoverlo e regolarlo. Sul
piano teorico, a questo proposito, sono state elaborate e suggerite numerose solu-
zioni, tra le quali la più convincente consiste in una redistribuzione ”prima della
crescita” dei fattori strategici ai fini dello sviluppo, quali la terra, e la dotazione
di capitale umano, mediante riforme dei diritti di proprietà e appropriate politiche
della spesa pubblica.
21
Anche se questa può sembrare una proposta radicale, è opportuno ricordare che
proprio alle riforme agrarie dell’immediato dopoguerra e al buon livello
d’istruzione dei lavoratori viene attribuito il merito di aver conciliato in Corea e a
Taiwan un elevato tasso di crescita e una distribuzione meno sperequata di quella
degli altri PVS.
Sull’eventuale esistenza di un “trade off” tra distribuzione e crescita e, quindi,
l’idea che una distribuzione più egualitaria del reddito avrebbe effetti negativi
sullo sviluppo, ci sono numerose critiche. In primo luogo, si può notare che il de-
siderato aumento della quota dei profitti sul reddito nazionale comporta una
diminuzione della quota dei salari solo se non si tiene conto dell’esistenza delle
rendite. In molti PVS, dove l’agricoltura è caratterizzata da latifondi e grandi
proprietà terriere e da forti rendite minerarie, appropriate riforme dei diritti di
proprietà e del sistema fiscale, consentirebbero l’aumento dei redditi degli im-
prenditori e dei lavoratori a spese dei proprietari, rendendo la distribuzione più
ugualitaria e permettendo, nello stesso tempo, più elevati risparmi e investimenti
pubblici e privati. In secondo luogo, è noto che l’aspetto più grave della disugua-
glianza distributiva nei PVS sta nel fatto che i più poveri sono poveri in senso
assoluto, ossia si trovano al di sotto di quella “linea della povertà” che corrispon-
de al reddito minimo per sopravvivere. Ciò significa denutrizione, cattive condi-
zioni di salute, analfabetismo per una parte della popolazione che, spesso specie
nelle campagne, costituisce la maggioranza. In terzo luogo, se gran parte della
popolazione vive a livelli di pura sussistenza o al di sotto di essi, il mercato in-
terno sarà estremamente ristretto e, quindi, la crescita e la trasformazione
strutturale troveranno un limite nella ristrettezza della domanda. Ponendo l’enfasi
unicamente sul profitto e sui redditi più elevati come fondo che alimenta
l’accumulazione, si perde dunque di vista il fatto che gli investimenti sono sco-
raggiati dalla previsione di una domanda pagante insufficiente ad acquistare i
prodotti e possono essere abortivi se la forza lavoro manca delle capacità neces-
sarie a impiegare efficacemente tecniche nuove.
22
Infine, se accogliamo una definizione di sviluppo che non lo identifica con la so-
la crescita del prodotto nazionale, ma con l’ampliamento delle “capacità” di
vivere bene, la redistribuzione della ricchezza e del reddito in senso più ugualita-
rio e soprattutto diretta alla eliminazione della povertà è uno degli strumenti
necessari per aumentare le “attribuzioni” delle persone e, quindi, per permetterne
l’accesso ai beni e ai servizi che soddisfano i loro bisogni fondamentali e le sot-
traggono alla fame, all’ignoranza, alla emarginazione sociale.