Parte prima:
Credenze e conseguenze della psichiatria transculturale
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Una premessa “Anti Anti-Relativista”
Il pluralismo -inteso come tesi descrittiva sulla pluralità- è un fatto, ma può esser
considerato e vissuto come un valore, una ricchezza, da proteggere e tutelare.
Nonostante questa concezione sia parte integrante del sistema di democrazia liberale, la
convivenza di saperi altri vicino a quelli occidentali risulta spesso ostica. Per
comprendere la genealogia di questa contaminazione e delle difficoltà che essa ha
generato e perpetrato c'è bisogno però di una premessa teoretica.
Innanzitutto bisogna partire rilevando che le relazioni tra le potenze egemoni
occidentali e i paesi ad esse subalterni sono caratterizzate da una persistente
asimmetria, che s’è insinuata, con l'aumento del fenomeno migratorio, anche nella
dialettica interna dei paesi occidentali fra le maggioranze e le minoranze sociali e
culturali. È partendo da quest’asimmetria che la controversia pubblica sul relativismo
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culturaleè tornata in voga negli ultimi anni. Il ritorno alla polemica sembra essere
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l’effetto della convergenza di due filoni principali: la condanna del relativismo morale
da parte di alte gerarchie cattoliche – un motivo vetusto che riemerge periodicamente –
e l’offensiva contro il relativismo culturale mutuata dalla nuova destra americana e
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Tra le tante possibili definizioni di relativismo troviamo: “La posizione secondo cui tutte le
valutazioni sono valutazioni relative a qualche parametro, e i parametri derivano dalla cultura.” (cit. in
Geertz, 1996, pg. 27). Lo scontro filosofico sul relativismo è qualcosa di molto intrinseco alla cultura
occidentale, una riflessione costante sfumata dalle varie epoche storie che si ripete da circa 25 sec.
ovvero da Protagora. Durante il 1900 il dibattito si è sviluppato in due sensi principali: direzione
epistemologica e relazionista. Il relativismo epistemico afferma che la verità non è univoca e che i giudizi
formulati su di essa dipendono dai contesti di aggiudicazione. Il relazionismo concepisce la verità come
dipendente dal paradigma concettuale in cui risiede, così che gli stessi giudizi morali son sempre da
riferirsi ad una particolare visione identificabile con un’intera cultura di riferimento.
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In breve il relativismo morale ritiene che i giudizi intorno ai valori o le regole adottate da un
determinato gruppo sociale o da singoli individui siano legati ai loro specifici bisogni e non hanno alcun
fondamento di assolutezza o necessità.
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dalla sua dottrina sulla superiorità della “civiltà occidentale”, da difendere
ideologicamente e praticamente con ogni mezzo. (Rivera, 2008)
Nella Francia, paese di forte tendenza assimilazionista, questo scontro si avvale di altre
denominazioni e qui a stabilire il discrimine fra le identità accettabili/inaccettabili è
l’anti-comunitarismo. Entrambi i termini (anti-relativismo e anti-comunitarismo) si
pongono contro il multiculturalismo anglosassone, permissivo verso ogni “deviazione”
particolarista e tribalista, per osannare la superiorità del modello d’integrazione
repubblicano, che poggia sul concetto astratto di cittadinanza. C’è da chiedersi fino a
che punto si tratti di una diatriba teoria-accademica e quanto invece tutto questo si
risolva in strategia politica. Una parte del panorama anti-relativista si manifesta come
maschera di dominio quando pretende di esportare valori universali, alimentando un
clima internazionale ostile. La guerra che si combatte a favore di verità indiscusse
configura l’Altro come nemico e ontologicamente come male assoluto ed eleva i valori
caratteristici di una società a valori assoluti. Quando quest’opzione teoretica,
denominata universalismo, non si poggia su considerazioni morali mutuate dalla
filosofia o dalle religioni, ma è sostenuta dallo scientismo, il pericolo professato è che
si ponga come metodo omologante:
l’omologazione paventa la tendenza a una visione che non può non essere lineare, con
la conseguenza che qualsiasi alterità può solo esser esibita come forma arretrata,
immatura e incompiuta.
Prima d’addentrarci nel cuore di questa breve trattazione ci si vuole allontanare dalla
convinzione della superiorità della propria forma di vita, dalle credenze in principi
assoluti in campo morale, nonché dai sistemi di verità totali, immutabili e astorici.
Precisando subito che far questo non significa allontanarsi o rigettare i propri valori,
assumere un atteggiamento asettico o disconoscere le conquiste della razionalità
occidentale; infatti non si esclude la possibilità di pensare e ricercare l’universalità della
specie umana, ma a condizione di esser liberi da pregiudizi etnocentrici o scientisti.
Non s’intende d’altronde proporre posizioni relativiste che scambino l’ineguaglianza
sociale con forme di differenza, scadendo in una concezione statica e deterministica
della cultura. Entrambe queste visioni, nel loro orientamento dogmatico, non
permettono di penetrare nell’argomento qui d’interesse. Il leitmotiv di questa
trattazione è invece il desiderio di riconoscere l’Altro e si appoggia perciò a quella
frangia teorico-pratica che fa del dubbio metodico e della cura per il diverso il proprio
perno.
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Il relativismo legato al culturalismo boasianoe l’universalismo del primatismo
occidentale sono scivolati, con le loro diversità, nella concezione di cultura come
totalità autonomo - compatta. Tuttavia è ben noto che sono esistite posizioni relativiste
che hanno visto le culture come entità fluide e storiche, così come posizioni
universaliste che non hanno ritenuto di dover imporre con la forza a società altre i
propri valori.
Questa breve e incompleta precisazione serve ad allontanarci dallo scontro filosofico tra
universalisti e relativisti e dal pensiero dualistico che oppone natura a cultura.
Sfuggendo dall'intricato dibattito dicotomico, una posizione alternativa e idonea al
percorso proposto è quella dell’antropologo Ernesto de Martino: è dall'incontro con una
diversa umanità che nasce la sua proposta di “etnocentrismo critico”, in grado di
fuggire il cieco universalismo e la scettica neutralità relativista. Questa visione non
permette di definire - in maniera essenzialista- qualcosa come “cultura” e al contempo
allontana il pericolo di definire un punto di vista o un sistema sociale superiore,
richiedendo sempre di considerare i condizionamenti epistemici del proprio pensiero e
la limitatezza del proprio punto di partenza. De Martino si dichiara fedele ai valori della
società occidentale ritenendo impossibile – se non cadendo in derive etnocentriche- per
il ricercatore svincolarsi totalmente dalla propria cultura e dalle proprie categorie
conoscitive. Questo paradosso è risolto dall'incontro etnografico, visto come duplice
tematizzazione: un confronto continuo della propria storia occidentale con l'“altra”
documentata.
“ L'etnografo è chiamato cioè ad esercitare un epoche' etnografico che consiste
nell'inaugurare sotto lo stimolo dell'incontro con determinati comportamenti culturali
alieni, un confronto sistematico ed esplicito fra la storia di cui questi comportamenti
sono documento e la storia culturale occidentale che è sedimentata nelle categorie
dell'etnografo (...): questa duplice tematizzazione della storia propria e della storia
aliena è condotta nel proposito di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui
il 'proprio' e 'alieno' sono sorpresi come due possibilità storiche di essere uomo. In
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F. Boas è stato un antropologo tedesco, tra i capostipiti dell’antropologia moderna. Inaugurò
anche l’accezione di relativismo culturale, giungendo alla conclusione che persino le nostre percezioni
sensoriali possono venire influenzate da fattori culturali, portando avanti una serie di studi
sull’interazione tra fattori geografici e culturali. Tali studi portarono Boas ad abbandonare l’assioma
indistinto di cultura, in favore dell’idea di una pluralità di culture influenzate – oltre che da fattori
geografici – dai molteplici percorsi storici, dato che la Storia non segue un rigido schema evolutivo, ma è
costruita da un’infinita serie di percorsi. A queste conclusioni Boas arrivò attraverso lo studio sul campo,
che da quel momento in avanti divenne il fondamento non solo metodologico ma anche teorico
dell’antropologia.
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questo senso l'incontro etnografico costituisce l'occasione per il più radicale esame di
coscienza che sia possibile all'uomo occidentale.” (De Martino, 1977, p.391)
Questo esame di coscienze può esistere sono all'interno della civiltà di cui si fa parte e
difatti “l’etnocentrismo critico è innanzi tutto consapevolezza dell’intrascendibilità
della nostra ombra” (Coppo, 2003, pg 41).
Ciò che si sta assumendo come principio basilare è che mettere in dubbio i propri
giudizi cognitivi, estetici o morali, non significa negare l’esistenza del mondo fisico-
naturale, di porre tutto sul medesimo piano e di non avere la possibilità di una propria
prospettiva del mondo.
Geertz scrive in proposito un piccolo saggio in cui si carica del compito di combattere
la paura del relativismo culturale. Non un manuale su la “cosa in sé”, ma un opuscolo
che libera questo concetto dalle sue demonizzazioni. Sotto il titolo di “Anti-Anti
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Relativismo”svuota le critiche che lo perseguono e criminalizzano, stigmatizzandole
come infondate; non difendendo il relativismo in sé, “un principio ormai consunto, un
grido di battaglia del passato” (Geertz, 1994, pg.15) , ma attaccando la falsa retorica dei
suoi persecutori.
“Le conseguenze morali ed intellettuali che si presume deriverebbero dal relativismo, -
e cioè soggettivismo, nichilismo, incoerenza, machiavellismo, inettitudine etica, cecità
estetica, e così via - in effetti non si concretizzano, e i vantaggi che si otterrebbero
sfuggendo alle sue grinfie sono ingannevoli, dato che hanno a che fare quasi sempre
con un concetto asettico di conoscenza.” (ibidem).
L’esempio proposto per comprendere con che sguardo approcciarsi all’argomento è
quello dell’aborto: esser contro le restrizioni legali sull’aborto non vuol dire esserne a
favore o pensarla come condizione auspicabile. La doppia negazione permette
all’autore di rifiutare una forma di pensiero senza legarsi a quella a cui si oppone.
Il punto di partenza è nel vedere i dati antropologici -e non l’antropologia- come
argomentazioni contro l’assolutismo morale-cognitivo. Ogni studioso di qualsivoglia
disciplina che incontra questi dati portatori di diversità, resta impigliato in una
riflessione relativista, non potendo non scorgere nell’orizzonte critico di questi l’idea
che i propri parametri si forgino sull’esempio e sui modelli del paese natio. Tuttavia la
discussione non si rivolge alle conseguenze teoriche della ricerca antropologica ma al
dibattito su come convivere con queste conseguenze.
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Il riferimento di tipo logico-terminologico e non sostanziale è all’ “anti-anti-
comunismo” professato durante la guerra fredda.
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L’anti-relativismo odierno si allontana da una teorizzazione analitica per tuffarsi in una
selva d’ammonimenti, cercando di preservare l’uomo dal presunto pericolo nichilista
attraverso consigli su come si dovrebbero vedere le cose.
Avere una prospettiva relativista porterebbe alla fine della ragione critica, o meglio alla
morte dell’esercizio dell’attività critica a livello transculturale, il suo provincialismo
potrebbe configurarsi come un neo-razzismo che abbandona le popolazioni delle ex-
colonie al loro destino. Questi pericoli non possono esser qui esaminati, confutati o
revisionati, si diramano in un dibattito enorme ed interessante dal quale si prescinderà,
ma la risposta di Geertz a questi attacchi sembra poter permettere questa lacuna e allo
stesso tempo giungere a conclusioni fertili:
“ L’immagine di un numero sterminato di lettori di antropologia che si muovono entro
un orizzonte mentale così cosmopolita da non avere la minima idea di ciò che sia o non
sia vero, buono o bello, a me sembra completamente fantasiosa. Forse c’è ancora
qualche nichilista allo stato puro lì fuori, lungo Rodeo Drive o dalle parti di Times
Square, ma dubito che molti lo siano diventati a causa di un’eccessiva sensibilità verso i
diritti di altre culture e perlomeno la maggior parte delle persone che incontro, di cui
leggo le opere e delle quali leggo le vite, e anche io stesso siamo troppo coinvolti in
qualcosa, che di solito ha a che fare con la nostra parrocchia. “È l’occhio del bambino
che teme il diavolo dipinto”: l’anti-relativismo ha in buona misura nutrito le paure che
lo tengono in vita.” (ivi, pg 24)
Il baluardo più consistente contro il relativismo si appoggia all’idea di un' universale
“Natura Umana”, anche su questo imprescindibile punto deve esser chiaro che non è
necessario stabilire in questa sede se gli essere umani abbiano o meno delle
caratteristiche intrinseche comuni, quanto più capire come utilizzare questi dati una
volta acquisiti. Non si pretende di delimitare il confine di validità delle scienze, ma i
postulati che possono nascere attraverso queste.
Bollare le sicurezze di chi combatte contro i dati antropologici sulla differenza-
incommensurabilità, in favore di una somiglianza universale di corpo e mente, significa
svincolarsi da una tradizione teorica che ambisce al proselitismo.
Affermare che molti orientamenti cognitivi sono culturalmente invariati – conclusione a
cui molti giungono dopo approfondite ricerche sul campo – e che ciò mostri costanti
biologiche e culturali pan-umane può non essere solo il punto d’arrivo di una riflessione
fine a se stessa, ma trasformarsi nel background di un’altra intuizione: una concezione
di natura umana indipendente dal contesto porta con sé la possibilità di giudizio su
individui o su intere comunità. Uno dei risvolti dell’anti–relativismo può così essere
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