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I
LE RELIGIONI ALTRE
1.1 Premessa
Nell’alveo della storia delle religioni, esistono forme particolari di culti e di credi che
vengono tacciate dalla cultura tradizionale, per lo più occidentale, come “altre”. In esse
si innestano le religioni del mondo antico che ne “costituiscono un blocco alquanto
compatto ed omogeneo, circoscritto cronologicamente e geograficamente, pur con tutte
le differenze, grazie alle quali ciascuna civiltà ha espresso il proprio specifico culturale.
Esse si configurano tutte come religioni etniche, così che l’appartenenza per nascita ad
un preciso contesto etnico condizionava la partecipazione alla vita religiosa e questa
stessa era garanzia dell’identità culturale. La coscienza di questa identità, non sempre
espressa, conduceva alla celebrazione di culti comuni devoluti alle medesime divinità.
[…] Sprovvisti della nozione stessa di religione, i popoli politeisti del mondo antico
non separavano e non distinguevano propriamente la dimensione religiosa dal
complesso delle altre attività umane, che anzi ne erano pervase e legittimate. […] Non
si tratta in ogni caso di mondi chiusi e non comunicanti tra di loro, ma al contrario
erano esposti a una continua e reciproca trasmissione culturale che ha prodotto, proprio
in ragione degli scambi, incessanti riformulazioni e riplasmazioni dei patrimoni
tradizionali, dando luogo a ciò che si può considerare un fenomeno di
transculturazione, senza che tuttavia venissero meno le specificità culturali, almeno
sino all’affermarsi dell’impero romano e del cristianesimo.”
1
1
Filoramo; Massenzio; Raveri; Scarpi (2005), pp. 5-7.
7
1.2 Religioni, religione
Per meglio comprendere le sfumature di questo intricato meccanismo, è bene
soffermarsi a riflettere sul significato vero e proprio che la civiltà contemporanea dà al
concetto di religione, tenendo conto del fatto che tale termine non è da considerarsi
come verità assoluta, ma presenta importanti variazioni in rapporto a tutto il mondo
religioso (ufficializzato e non) ed alle specificità culturali di ciascun paese. Merita,
dunque, di essere rivisitato.
“Il plurale le religioni presuppone un concetto di religione: ma solo un concetto e non
necessariamente qualcosa di realmente esistente che si possa chiamare la religione
senza che sia questa o quella religione concreta. Questa constatazione è necessaria,
perché esistono correnti di studio che operano con il concetto la religione, come se esso
avesse anche una esistenza concreta. […] Il nostro concetto di religione è, esso stesso
un prodotto storico: infatti sia nelle lingue dei popoli primitivi che in quello delle civiltà
antiche (compreso il latino, classico in cui religio indicava soltanto determinati
atteggiamenti - intenzioni, timori, tradizionalismi - religiosi e non la religione nel senso
moderno del termine) manca ogni termine che possa equivalere a religione. […] Il
bisogno di un concetto del genere è sorto, infatti, dal confronto di diverse religioni:
scoprire l’esistenza di altre religioni oltre alla propria è il passo decisivo per formare un
concetto generale di religione.”
2
“Ma la consapevolezza della pluralità delle culture […] rappresenterebbe uno scarso
guadagno qualora non fosse accompagnato dal fondamentale riconoscimento delle pari
dignità delle culture e, quindi, delle religioni. Quest’ultimo fattore costituisce uno dei
punti fermi dell’odierna conoscenza umanistica la quale si è consolidata in tutte le
2
Brelich (2003), pp. 2-5.
8
direzioni possibili. Ecco delineato, allora lo sfondo in cui collocare la
problematizzazione della nozione di religione, in cui dibattere la questione del rapporto
religione/religioni. […] L’Occidente non dialoga più da solo, ma si misura, con esiti
discordanti, con l’altro da sé. […] La rottura con la tradizione sta essenzialmente nel
fatto di considerare i nostri sistemi di valutazione validi non in assoluto, ma soltanto in
relazione al mondo che li ha prodotti nel corso della sua storia: il mondo occidentale.
La presa di coscienza della validità relativa delle suddette categorie costituisce la
condizione a priori che permette di volgere lo sguardo lontano, in direzione di realtà
culturali che si collocano al di fuori del modo di essere uomini che ci è consueto. Una
tale consapevolezza dei limiti inerenti all’applicazione dei nostri criteri interpretativi,
non basta, da sola, a promuovere la conoscenza del culturalmente alieno: essa deve
essere accompagnata dall’elaborazione di strumenti conoscitivi adeguati all’oggetto che
si vuole indagare. […] Per quanto riguarda poi lo specifico religioso, è necessario
concentrare l’attenzione su un’altra condizione a priori dell’analisi. Si tratta, in questo
caso, non solo di guardarsi dall’assumere quale immediato polo di riferimento e di
giudizio la categoria occidentale di religione, ma di sottoporre ad una radicale revisione
critica tutta una serie di nozioni basilari (quali magia, mito, rito, entità sovrumane…)
onde poterle applicare con cautela e discernimento a contesti religiosi altri.”
3
3
Filoramo; Massenzio; Raveri; Scarpi (2005), pp. 440-443.
9
1.3 Storia delle religioni, etnologia, antropologia ed etnomusicologia: gli studi sulle
culture altre
Dal momento in cui l’uomo ha allargato i propri orizzonti, ponendo il suo sguardo
verso “nuove” culture, si sono venute a sviluppare diverse discipline che hanno
indirizzato i propri studi in questo senso. I nuovi studiosi delle culture “altre” si sono
cimentati in un’approfondita ricerca sulle civiltà primitive o a carattere folklorico,
spingendosi oltre il conoscibile. Ed è proprio grazie a questi uomini che sono state
messe in luce quelle culture che fino a pochi anni prima erano state messe nell’ombra.
La civiltà occidentale decide di aprirsi alla conoscenza delle civiltà extra-occidentali
dal momento che vede la genesi dell’etnologia, la scienza dedicata allo studio delle
umanità “altre”, la scienza votata allo studio dell’ethnos non occidentale, considerato
nella globalità dei suoi aspetti. L’etnologia, servendosi dei dati raccolti dall’etnografia,
studia le forme della cultura e della civiltà dei popoli in modo comparativo, elaborando
i dati per una ricostruzione generale dei problemi.
“Le società e culture nella tradizione degli studi etnologici si sono definite in base ad
un rapporto di diversità - o, come spesso si dice di alterità, - rispetto alla cultura
osservante, che fino ad oggi è stata quella dominante nelle società complesse
dell’Occidente. Sono state così considerate d’interesse etnologico:
ξ le culture dei popoli definiti (con termine discusso) primitivi,
ovvero delle società a struttura semplice, tuttora consistenti in
Africa, Asia, Oceania e America Meridionale ma rilevabili, in
sempre più ristrette oasi etniche, anche in America Settentrionale
e in Europa (Indiani, Eschimesi, Lapponi, ecc...);
10
ξ le alterità delle cosiddette fasce folkloriche (ovvero di quegli
strati agro-pastorali e artigiano-paesani che tuttora conservano
una struttura economico-sociale e dinamiche culturali
tradizionali) presenti all’interno del contesto eurobianco
occidentale;
ξ le società e culture anche complesse del Vicino, Medio e
Estremo Oriente.
Una caratteristica comune a tutte queste società e culture è di basare prevalentemente la
trasmissione del proprio sapere, e del proprio saper-fare, sull’oralità piuttosto che sulla
scrittura.”
4
Ma all’interno del più ampio contesto della storia delle religioni confluiscono diversi
tipi di sapere (di ordine storico, filosofico, filologico), tra i quali ha un rilievo
particolare il sapere degli antropologi. L’antropologia studia propriamente l’uomo, ma
nello specifico rivolge le proprie ricerche all’uomo primitivo, all’uomo naturale nella
sua spontaneità originaria. Per questo i campi d’indagine dell’antropologia sono
soprattutto i reperti dei popoli preistorici, vissuti quando si fondarono i principi della
convivenza sociale, oppure i primitivi ancora sopravvissuti, che hanno subito l’impatto
col mondo moderno in modo meno rovinoso per le loro culture. Di fronte a queste
popolazioni un tempo definite “selvagge”, l’antropologo ha dapprima rinnovato il mito
del ”buon selvaggio”, dell’essere spontaneo, incapace della “barbarie civile”; infine, ha
posto i fondamenti di una scienza volta a catalogare i dati, gli elementi tuttora
superstiti, prima che scompaiano anche le ultime tracce. Invece, “l’antropologia
religiosa è caratterizzata dall’incontro tra storia delle religioni ed antropologia
4
Giannattasio (1998), pp. 18.
11
culturale. Essa […] ha portato alla costituzione di un peculiare settore di ricerca,
relativamente autonomo, all’interno della storia delle religioni.”
5
In questi ambiti si innesta anche lo studio dell’etnomusicologia, che nasce con la
scoperta e l’osservazione delle “alterità” musicali. L’etnomusicologia studia le forme e
i comportamenti musicali delle società e culture d’interesse etnologico (per lo più i
comportamenti di tradizione orale).
“Per quel che riguarda la concezione del campo di studi permane […] per un lungo
periodo una notevole disparità di interpretazioni, come risulta fra le seguenti
interpretazioni scelte fra le molte:
ξ l’etnomusicologia è lo studio della musica non-occidentale e, per
estensione, della musica folklorica
6
;
ξ l’etnomusicologia si occupa in massima parte della musica di
tradizione orale
7
;
ξ l’etnomusicologia si occupa dello studio della musica degli altri
popoli
8
;
ξ l’etnomusicologia è lo studio delle pratiche musicali di un
particolare popolo
9
;
ξ per area di ricerca etnomusicologica si dovrà intendere quel
campo di suoni al di fuori dell’esperienza musicale euro-colta
occidentale. Questo campo di suoni […] si caratterizza,
5
Filoramo; Massenzio; Raveri; Scarpi (2005), pp. 441.
6
Nettl (1961), References materials in ethnomusicology, Information Service Inc., Detroit; cit. in
Giannatasio (1998), pp. 55.
7
List (1962), Ethnomusicology in higher education, in “Music Journal”, vol. 20, pp. 20-8; cit. in ibid.,
pp. 55.
8
Wachsmann (1969), Music, in “Journal of the folklore institut”, vol.6, pp. 164-191; cit. in ibid., pp. 55.
9
Chenoweth (1972), Melodic perception and analysis, Summer Institut of Linguistic, Ukarumpa (Papua
New Guinea); cit. in ibid., pp. 55.
12
soprattutto, per i suoi dispositivi di creazione, trasmissione e
fruizione oltre, naturalmente, che per i suoi contrassegni fisico-
acustici pre-musicali
10
”.
11
“Si può datare l’inizio della moderna etnomusicologia italiana a partire dalla
costituzione, nel 1948, ad opera di Giorgio Nataletti, del Centro nazionale di studi di
musica popolare (CNSMP, oggi Archivi di Etnomusicologia) dell’Accademia
Nazionale di S. Cecilia, che dette continuità teorica e metodologica agli studi
demomusicali avviati, nell’arco dei cento anni precedenti dai precursori della
disciplina. […] Ma fu la raccolta 18, relativa ai documenti sonori registrati da Ernesto
De Martino e Diego Carpitella nella spedizione in Lucania del 1952, a marcare un reale
cambiamento. In tale spedizione, infatti, la vocazione meridionalista
dell’etnomusicologia italiana si manifestò pienamente e, cosa ancor più importante, si
instaurò quella nuova metodologia di indagine sul campo che caratterizzerà da allora in
poi, gli studi etnomusicali italiani”
12
.
Gli studi etnomusicologici, così come quelli antropologici ed etnologici, implicano
sostanzialmente tre fasi:
“a) la ricerca sul campo che costituisce una fonte indispensabile nello studio di
musiche di mentalità e tradizione orale e che, per quanto dipendente dalle
concezioni e dagli interessi specifici di ciascun ricercatore, rispetta generalmente
specifiche modalità di svolgimento (soggiorni prolungati, adattamento ai costumi e
alle regole di vita locale, particola tecniche di selezione, approccio ad escussione
degli informatori, uso di apparecchiature per il rilevamento sonoro ed audiovisivo,
eventuale impiego di schede e questionari di campo, ecc.);
10
Carpitella (a cura di), 1975, L’etnomusicologia in Italia, Flaccovio, Palermo; cit. in ibid., pp. 55-56.
11
Giannatasio (1998), pp. 55-56.
12
Ibid., pp. 67-68.
13
b) l’elaborazione dei dati raccolti sul campo, consistente nello spoglio dei
materiali e nella loro collocazione in insiemi coerenti alle finalità della ricerca,
che implica di solito un’attività di studio in laboratorio […];
c) la valutazione in chiave comparativa dei dati risultanti dalle due fasi - sul
campo e in laboratorio - dell’indagine etnografica.”
13
13
Giannattasio (1998), pp. 27-28.