5
Quanto detto, tuttavia, non toglie nulla agli enormi risultati artistici ottenuti da
cineasti quali Fellini, Antonioni, Visconti oppure la grande corrente del Neorealismo
italiano, sorta dalle ceneri della guerra. Lo scopo di questo lavoro è quello di offrire
una panoramica sul del prezioso lavoro svolto da artigiani della commedia e del
teatro leggero quali Steno (Stefano Vanzina), Luigi Comencini, Luciano Salce e
Sergio Corbucci, le cui opere ricoprono, nonostante tutto, un valore di testimonianza
storica, prima ancora che cinematografica. Verrà quindi posta l’attenzione sia sul
lavoro dei registi in questa direzione che, naturalmente, su quello degli attori. Sono
essi, infatti, i protagonisti principali di questa importante esperienza artistica. Sarà
analizzata la decisiva trasformazione di cui sono stati protagonisti molti attori della
commedia all’italiana, nati quasi tutti come volti del varietà, ma che col tempo si
trasformano in maschere drammatiche ed utilizzati al cinema per raccontare
un’epoca, l’Italia uscita distrutta dal secondo conflitto mondiale, la sua ricostruzione
verso il “boom” economico della fine degli anni Cinquanta. L’attore della commedia
cinematografica ripropone, in questi anni, le doti comiche espresse recitando nel
teatro leggero precedentemente, ma aggiungendovi adesso l’elemento tragico che lo
rende interprete completo e caratterista assai più credibile. E’stato esattamente così
per attori come Alberto Sordi, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Monica Vitti e molti
altri
2
. Essi esordiscono – nel varietà, in Tv o direttamente al cinema – interpretando
farse e commedie leggere di poco spessore, spesso firmate da autori come Mario
Mattoli, Steno, Metz, Marchesi, Mastrocinque. Ognuno di essi riuscirà a incontrare
un regista o un film, un’occasione che darà la svolta drammatica nel modo di recitare:
nel 1953, Alberto Sordi ottiene la parte di Alberto ne “I Vitelloni” di Federico Fellini
e si sottrae definitivamente alla macchietta cine-radiofonica di cui il pubblico non ne
poteva più. Nino Manfredi, pur con ritardo rispetto ai colleghi, deve a Gianni Puccini
(“L’impiegato”,1960), a Luigi Zampa (“Gli anni ruggenti”,1962), ma soprattutto a
2
Un’eccezione in questo senso, è rappresentata da Vittorio Gassman (Genova, 1922 – Roma, 2000), che segue il
percorso opposto dei suoi colleghi. A differenza di essi, infatti, Gassman esordisce a teatro e al cinema in ruoli
drammatici in stile alfieriano, acquisendo solo alla fine degli anni Cinquanta la vis comica, grazie alla partecipazione
nel film I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli.
6
Luigi Magni (“Nell’anno del Signore”,1969, e “In nome del Papa Re”, 1977)
l’opportunità di cimentarsi in ruoli fortemente drammatici. Ugo Tognazzi, già famoso
come attore comico in coppia con Raimondo Vianello nei celebri sketches televisivi e
cinematografici, viene lanciato da Luciano Salce nel 1961 come attore drammatico ne
“Il federale”. Monica Vitti, già attrice di teatro classico a Roma, viene lanciata nel
cinema da Michelangelo Antonioni nel 1959, e resa protagonista di tutti i capitoli
della sua “quadrilogia dell’incomunicabilità” (“L’Avventura”,1960 – “La notte”,1961
– “L’Eclisse”,1962 – “Deserto Rosso”,1964). Tuttavia, solo da pochi anni a questa
parte tutto questo è stato oggetto di attenzione da parte degli storici e dei critici dello
spettacolo. Grazie alla svolta attuata da quella generazione di comici, anche la
commedia ha potuto riprodurre il dramma e la tragedia di un’intera generazione. Nel
dimostrare questo, è stato ritenuto opportuno proporre il racconto di quella che è da
sempre la tragedia delle tragedie umane, ossia la guerra.
Nel dopoguerra italiano, sono stati molto pochi i registi che hanno tentato, a
teatro come nel cinema, di analizzare attentamente gli eventi bellici che avevano da
poco sconvolto il nostro Paese. Per molto tempo, nessun regista ha avuto il coraggio
di ricostruire le motivazioni storiche e politiche che hanno determinato l’entrata in
guerra dell’Italia. Ecco che, dopo circa quindici anni di silenzio dopo il 1945 (un
silenzio dettato anche da precise motivazioni politiche e istituzionali), nel 1959
prende piede la cosiddetta “commedia bellica”, legata a quel genere denominato dagli
storici del cinema, “Neorealismo comico”, attraverso cui vengono narrate le
drammatiche vicende accorse tra il 1940 e il 1945, senza tuttavia l’utilizzo dell’attore
preso dalla strada, l’uomo comune, ma attingendo dalle maschere italiane più
rappresentative del varietà e, in parte, anche del nuovo genere televisivo
3
. Tali attori,
con questo genere hanno fatto la fortuna ma anche quella dello spettacolo in generale,
raccontando la guerra e il suo travagliato seguito, rappresentando con enfasi
drammatica e comica insieme, le sciagure umane attraverso la commedia, ovvero
quel genere che tradizionalmente dovrebbe provocare non già la risata, ma
3
La RAI fa partire la sua programmazione il 3 Gennaio 1954.
7
quantomeno il sorriso
4
. I risultati di questo filone, che nasce nel 1959 con “La grande
guerra” di Mario Monicelli (ambientato però durante il conflitto del 1915-18), sono
stati assai apprezzabili; oltre a narrare il dramma della guerra in sé, questo genere ha
avuto per primo il coraggio di ritrarre i volti del regime passato, i pomposi gerarchi, i
federali, gli uomini il cui tragico fanatismo ha portato l’Italia alla rovina lanciandola
in un’assurda guerra. Lo stile con cui essi raccontano tutto ciò, è marcatamente
tragicomico: tragico per gli eventi narrati, comico per il modo con il quale essi sono
raccontati
5
.
Se, come detto, i risultati di questo filone sono stati lodevoli, va detto – e
questo è fondamentale in questo lavoro – che il riconoscimento per questi film sono
stati tardivi e parziali. La critica cinematografica italiana è sempre stata molto severa
nei confronti della commedia e del genere comico in generale fin dai tempi
dell’avanspettacolo. Essa, per buona parte, usa stroncare le pellicole, mantenendosi
nel migliore dei casi fredda e addirittura ostile
6
.
In questo lavoro sono riportati i risultati più significativi della commedia
bellica italiana, nel passaggio dei suoi interpreti dal teatro leggero al cinema. Sarebbe
stato d’uopo aggiungere altri titoli, ma per motivi di spazio è stato ritenuto sufficiente
il numero di cinque film, rappresentativi e poco contemplati nella storiografia
cinematografica. Il criterio utilizzato, sotto l’aspetto metodologico, è stato quello di
far parlare i protagonisti stessi, ossia gli attori, nei momenti salienti del film, ma
soprattutto i critici del tempo nel giudicare queste pellicole.
4
Il termine "comico" intende un momento in cui il nostro riso - nel senso fisiologico del termine, che viene definito da
Kant come una "discordanza discendente" - esplode, liberando la nostra forza nervosa, non più sostenibile dal
metabolismo, accumulatasi in un'unica, scrosciante risata. Per noi, il comico è quello che ci fa ridere, che ci stupisce per
la sua paradossalità - di gran lunga distinta dal quotidiano - al punto che ci sembra quasi irreale.
5
Su tutti, Totò (Antonio de Curtis, 1898-1967) è stato colui che meglio di tutti interpreta la guerra e il dopoguerra con
la massima comicità, pur trascinandosi dietro, una profonda amarezza, il disagio di un popolo intero.
6
Per un’idea generale della severità della critica italiana nei confronti del teatro leggero, prima ancora che il cinema, si
veda il libro di Morando Morandini, Sessapiglio, Edizioni Il Formichiere, Milano, 1983. Vi sono riportati dieci anni
(1952-1961) di articoli scritti dal noto critico per il quotidiano milanese La Notte. E’una valida testimonianza sugli anni d’oro
del teatro di rivista, quelli di Wanda Osiris, Macario, Tognazzi, Taranto, Dapporto, Rascel, Chiari, Billi e Riva, Scotti, Bramieri,
le sorelle Nava e Totò.
8
Per ognuna presa in analisi, è riservata una parte riportante le recensioni, allo
scopo di dimostrare la difficoltà di chi scriveva a cogliere la portata innovatrice di
quel cinema. In secondo luogo, ogni capitolo riporta un resoconto esaustivo delle
scene del film, quale dimostrazione dell’amalgama tra tragico e comico narrativo. Ciò
vuole essere un’ulteriore dimostrazione circa l’efficacia drammatica di queste opere, i
cui sceneggiatori e registi – da Age e Scarpelli, da Metz a Fondato, da Comencini a
Salce, hanno realmente vissuto la tragedia della guerra. I film analizzati
rappresentano un’importante unione tra “vis” comica e “vis” drammatica, per cui la
stessa opera scaturirà il sorriso (talvolta anche la risata) e allo stesso tempo il pianto.
E’in quest’ultima caratteristica che risiede la grande forza – tardivamente
riconosciuta – della commedia all’italiana, un genere irripetibile nato e sviluppatosi
nel particolare contesto socio-economico che dal dopoguerra si dipana sino agli anni
Settanta e che, purtroppo, sembra essere così lontano dall’Italia odierna.
Alla pari dei film di cineasti “del vero”
7
, anche queste commedie hanno
riprodotto fedelmente quei tragici avvenimenti, con lo stesso puntiglio del ricercatore
storico.
Infine, occorre doverosamente ricordare i volti di quell’esperienza, coloro i
quali hanno lasciato una traccia nell’immaginario comune, gli attori della commedia
all’italiana protagonisti, tra gli altri, del cinque film riportati in questo lavoro. Oltre
che una testimonianza storico-artistica, esso vuole rappresentare anche un commosso
omaggio al loro operato. Partendo dall’esperienza di questi attori nel teatro leggero e
d’avanspettacolo italiano – che ha avuto la sua grande esplosione dagli anni Venti ai
primi anni Cinquanta – essi hanno lavorato nel cinema immedesimandosi nella gente
comune, in quelli che hanno sofferto per la guerra e per la fame dovuta alla povertà.
Una povertà indissolubilmente legata al mestiere dell’attore da sempre. In questa
direzione si pone la scelta di dedicare l’ultimo capitolo al celebre film “Polvere di
stelle” (1973), diretto da Alberto Sordi con lo stesso Sordi e Monica Vitti nei panni di
7
Registi “dal vero” in ambito neorealista sono stati Rossellini, Visconti, de Sica, Lizzani, de Santis, Castellani. La loro
concezione del cinema era quasi documentaristica, anche se in maniera diversa a seconda delle differenti sensibilità
artistiche. Nel film storico, importanti ricostruzioni dei fatti del recente passato hanno portato la firma di Carlo Lizzani,
Florestano Vancini, Giuliano Montaldo.
9
due guitti del varietà in cerca di successo tra le difficoltà della guerra. “Polvere di
stelle” vuole essere la sintesi di questo percorso, in pieno rispetto del titolo
dell’elaborato: “Tra teatro e cinema, lo spettacolo della guerra”.
10
CAPITOLO 1
NEOREALISMO E COMMEDIA: DUE GENERI A
CONFRONTO
Capitolo 1.1 – Il passaggio al neorealismo
Il Neorealismo italiano è stata la prima grande esperienza di cinema d’autore dal punto di vista dell’
impegno puro; questa corrente è stata rappresentata dai suoi massimi e noti esponenti Rossellini, de
Sica e Visconti, oltre che Lizzani, Castellani e de Santis. Le opere di questi autori hanno reso e
sviluppato, fin dal 1945, anno della fine della seconda guerra mondiale, un modo del tutto nuovo e
pregnante di raccontare con le immagini. Lo scopo che i cineasti nel dopoguerra si propongono è
quello di descrivere e raffigurare senza veli e senza il forte apporto della letteratura e dei trucchi
propri dell’arte cinematografica, la realtà “nuda e cruda”, quella uscita dal conflitto con le ossa
rotte, un’umanità che ha vissuto le infinite tragedie dell’occupazione tedesca e dei bombardamenti.
Una visione critica del reale così come lo vediamo: ma non è nel 1945 che questo modo di fare
cinema viene scoperto. Durante il ventennio fascista non era stato facile discostarsi dai generi pre-
costituiti e propagandati dal regime. Molti autori erano già negli anni trenta all’avanguardia nel
descrivere sulla base dell’esperienza del cinema sovietico
8
, quella realtà fatta di “sudore dei campi e
dell’ acciaio della fabbrica”. Le critiche specializzate, dai quotidiani alle riviste cinematografiche,
celebravano sottovoce i risultati ottenuti da questa nuova via, ritenendola generatrice di una “nuova
era” artistica e sociale.
La necessità di accostarsi alla realtà, e il conseguente obbligato allontanamento dal genere
accomodante dei “Telefoni Bianchi”
9
, sono documentati da un articolo che Leo Longanesi scrive
sul settimanale “L’Italiano” nel 1933, e che può essere sottoscritto dai padri del Neorealismo
italiano:
8
Dalla metà degli anni venti arrivano in Italia i risultati dell’innovativo cinema sovietico, in particolare le lezioni e i
film-documentario del “Realismo socialista” di Ejsenstein, Pudovkin e soprattutto Tziga Vertov (“L’uomo con la
macchina da presa”, 1928, girato interamente con cinepresa a spalla).
9
Il termine “Telefoni Bianchi” designa il particolare genere in voga durante gli anni del fascismo, soprattutto dalla
seconda metà degli anni trenta, rappresentato dalla commedia sentimentale e borghese, senza velleità ideologiche e
privo di ogni tentativo di critica sociale, quasi sempre con un lieto fine. E’ legata ai nomi di registi quali Mario
Camerini, Amleto Palermi, oltre che parte della produzione di Alessandro Blasetti e del primo Vittorio De Sica.
11
[…] Bisogna gettarsi nella strada, portare la macchina da presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni.
Basterebbe uscire in strada, fermarsi in un punto qualsiasi e osservare quel che accade durante mezz’ora per fare un film
italiano logico e naturale
10
.
Nel corso degli anni trenta sarà soprattutto il paesaggio, lo sfondo naturale, ad indicare le scelte
ideologiche e stilistiche dei registi, e a segnalarne direttamente l’area d’appartenenza. Lo scenario
vincente tuttavia non era ancora quello dell’Italia strapaesana, contadina e proletaria. Il paese
descritto prima della seconda guerra mondiale è quasi sempre dominato da segretarie, dattilografe,
impiegati piccolo-borghesi, nell’ambito di una visione di benessere e pacificazione sociale voluti
dal regime. Secondo l’autorevole opinione di Gian Piero Brunetta, “[…] all’inizio degli anni trenta,
chi vuol intraprendere i sentieri del realismo ha di fronte a sé un trivio […]”
11
. In effetti, da un lato
ci sono i giovani guidati da Umberto Barbaro
12
, che hanno studiato al Centro Sperimentale di
Cinematografia
13
o collaborano alla nota rivista “Cinema”, che forti del messaggio di Pudovkin
14
,
attendono l’avvento dell’ ”Individuo Messianico”. Per altra via va Alessandro Blasetti
15
, regista che
si sentiva investito dell’onere di celebrare l’anima popolare del fascismo. Infine, lungo la cosiddetta
“terza via”, si muove Mario Camerini
16
. Questi preferisce esplorare gli spazi urbani, le periferie e i
piccoli desideri collettivi e individuali della piccola borghesia.
10
Leo Longanesi, L’occhio di vetro, in “L’italiano”, VIII (Gennaio-Febbraio 1933), n.17-18, p.35, cit.
11
Gian Piero Brunetta, Guida alla Storia del cinema italiano 1905-2003, Einaudi, Torino, 2003, pp.118-119.
12
Umberto Barbaro (Acireale,1902 - Roma 1959) è stato uno dei maggiori teorici e critici cinematografici italiani. Fu
prima insegnante (dal 1936) e poi direttore del Centro sperimentale di cinematografia (1944-1947). Fondò con Luigi
Chiarini la rivista Bianco e Nero. Nel film “soggetto e sceneggiatura" (1939) espresse le proprie teorie sulla funzione
del montaggio come specifico filmico e dell'attore come elemento creativo. Divulgatore del cinema sovietico del
periodo muto e dei suoi grandi maestri, fu traduttore di Arnheim, Balàzs, Eisenstein e Pudovkin, fu teorico del
neorealismo e critico dell' "Unità". Postumi sono stati pubblicati i suoi scritti: Il film e il risarcimento marxista dell'arte
(1960), Servitù e grandezza del cinema (1962) e Il cinema tedesco (1972). Si cimentò anche nella regia ("L'ultima
nemica" del 1937) e in diverse sceneggiature per Luigi Chiarini e Giuseppe De Santis.
13
Il Centro Sperimentale di Cinematografia era nato a Roma nel 1935 per volere di Mussolini,. Primo presidente è
Silvio D’Amico, cui l’attuale Scuola di Cinema prende il nome.
14
Vsevolod Illiaronovic Pudovkin, nato a Mosca nel 1893 e ivi morto nel 1953, fu ingegnere chimico, musicista, attore
teatrale e infine regista. Nel 1922 aderì al laboratorio sperimentale cinematografico di Lev Kulesov insieme ad
Ejsenstein e Vertov, prima come sceneggiatore e attore, poi come teorico. Nei suoi saggi ha divulgato l’idea
dell’importanza fondamentale dell’attore-personaggio biomeccanico (sulla base delle teorie di Mejerchol’d), e del
primato del gesto sulla parola. Ha diretto film quali La madre (1926), tratto da gor’kij, La fine di San Pietroburgo
(1927), Il discendente di Gengis Khan (1928), Il disertore (1933), Vittoria (1938), per subire poi una notevole
involuzione in seguito alla “normalizzazione” stalinista post-rivoluzionaria.
15
Alessandro Blasetti (Roma,1900 – 1987) era il nome più importante tra i registi di quel periodo, inventore di nuovi
stili e definito un pioniere del Neorealismo nonché maestro della commedia a metà tra quella di costume e brillante
tradizionale (“Nerone” con Petrolini, “La tavola dei poveri”, “Quattro passi fra le nuvole”). Celebrò negli anni trenta,
il mito dell’italianità e dell’eroismo bellico in linea con la politica del regime fascista (“1860”, “Ettore Fieramosca”,
“Terra madre”, “Vecchia guardia”). Quattro passi tra le nuvole (1942) è considerato un piccolo capolavoro e
un’anticipazione del Neorealismo per la scelta di personaggi semplici e quotidiani, della vita rurale, oltre alla
descrizione desolata della vita nelle periferie urbane e nelle campagne.
16
Mario Camerini (Roma,1895 – Gardone Riviera,1981), cantò i sentimenti della piccola borghesia del tempo, con
eleganza e malinconia, pur senza quasi mai denunciarne i vizi, anche nel dopoguerra. Ebbe il merito di lanciare sullo
schermo il giovane De Sica (“Gli uomini che mascalzoni”, “Il signor Max”, “Grandi Magazzini)
12
E’ quindi giusto considerare facenti parte di uno stesso processo creativo film quali “Quattro passi
tra le nuvole” di Blasetti (1942), che dipinge con chiarezza il mondo rurale italiano seppur
nell’ambito di una storia sentimentale, “Avanti c’è posto” e “Campo de’Fiori” (1943) di Mario
Bonnard, film ambientati nella Roma popolare dei mercati rionali, fino a “I bambini ci guardano”
(1943) di Vittorio de Sica, ambientato in una Roma livida e squallida. La svolta fondamentale in
chiave popolare e realistica ci fu soprattutto grazie al capolavoro “Ossessione” di Luchino Visconti
(Milano, 1906-1976), un film girato in condizioni difficili nella pianura ferrarese nella fatidica
primavera-estate del 1943, alla vigilia cioè della caduta del fascismo (avvenuta la notte del 25
luglio) e dell’armistizio dell’ 8 settembre, cui seguì la sanguinosa occupazione nazista.
“Ossessione” fu il prodotto felice e maturo di un insieme di forze congruenti e di una volontà
diffusa di creare una nuova cinematografia. Con la sua forte costruzione delle immagini e dell’uso
drammatico del bianco e nero, gli squarci di paesaggio che testimoniano le passioni dei protagonisti
Gino e Giovanna, sembra segnare agli occhi di gran parte della critica, l’avvento di una nuova era
cinematografica. Umberto Barbaro, con due articoli pubblicati su “Film”, scrisse:
E’ un pezzo d’Italia come non s’era mai visto […] e questo finalmente ci ha dato “Ossessione”, la rappresentazione
artistica di una realtà angosciata contro i divertimenti e le archeologie a formula fissa […].
17
Ossessione costituisce lo spartiacque tra il cinema di regime (tra cui anche quello che si proponeva
degli intenti realistici), e il cinema neorealista bellico e post-bellico che andava muovendo nel 1943
i suoi primi passi. Dalle prime proiezioni pubbliche, autori e critici scesero in campo a favore del
solco tracciato da Visconti. Bene descrisse Federico Zeri nel 1945 il ruolo decisivo del film:
[…] in quell’archetipo il repertorio di personaggi, inquadrature, scelte topografiche, spunti visivi, è radicato in un
terreno di vastissima cultura figurativa, dove la Francia cinematografica di Jean Renoir e quella pittorica degli
impressionisti si alterna e si mescola all’Italia dei pittori naturalisti dell’Ottocento nostrano […].
Questa è però un’indagine che la critica d’arte deve ancora condurre e la vicenda successiva che ha origine nel Visconti
e nella sua percezione dell’Italia in chiave cinematografica si sta svolgendo sotto i nostri occhi, con ricchezza e varietà
tali da far riconoscere nel cinema l’odierna arte guida.
18
A distanza di molti anni fu lo stesso Visconti che, intervistato dal quotidiano “La Stampa” disse che
“Ossessione aveva dietro di sé i romanzi americani che durante la guerra si leggevano di straforo,
così come “La terra trema” era basato sul romanzo di Verga, I Malavoglia […]”
19
.
17
U.Barbaro , Neorealismo, Realismo e moralità, in “Film”, VI, 31 Luglio 1943, n.31, cit., p.16.
18
F.Zeri “Ossessione” , Cinema Nuovo – n. 4, Giugno 1945.
19
L.Visconti, intervista su La Stampa, 13 Giugno 1972, p.15.
13
Il Neorealismo Visconti aveva una forma del tutto personale, fortemente tendente a raffigurare le
sofferenze delle classi lavoratrici più umili: contadini, pescatori, braccianti su tutti. Il regista era
inoltre molto vicino alla classe operaia, lui che era un autentico esponente dell’aristocrazia
milanese, ma tesserato del PCI, verso cui restò tutta la vita particolarmente devoto. Il significato di
“Neorealismo” per Visconti era solo un punto di partenza di un certo tipo di cinema di denuncia;
tale corrente ha raccolto uomini e artisti che ritenevano che la poesia nascesse dalla realtà. Nel 1948
egli definisce il termine “neorealismo”, come “un’assurda etichetta che ci si è attaccata come un
tatuaggio e che invece che designare un metodo, un momento, diventa una limitazione totale, una
regola imposta”
20
.
Se l’intento del neorealismo di descrivere e denunciare al mondo gli strascichi di povertà, miseria e
disperazione della maggior parte dei cittadini usciti dalla guerra, con le conseguenti abominevoli
disuguaglianze sociali dal conflitto accentuate drammaticamente, Visconti amava tuttavia parlare di
“realismo” più che di neorealismo, poichè
[…] Noi dobbiamo porci in un’attitudine morale di fronte agli avvenimenti, alla vita: in un atteggiamento, insomma,
che ci consenta di vedere con occhio limpido, critico, la società così com’è oggi, e raccontare fatti che di questa società
sono parte. Neorealismo fu un termine inventato allora, perché uscivamo dal cinema di regime, e avevamo bisogno di
novità. Ma abbiamo trattato i temi che ci si consentiva di trattare da quell’angolo visuale che è stato sempre tipico di un
artista realista […]
21
.
L’essere comunista di Visconti contribuì molto alla visione critica e analitica della società uscita
dalla guerra, che portava con se retaggi e miserie che esistevano per molti anche prima. Visconti sin
dalla resistenza ha cominciato a legarsi con amici comunisti, e da allora divenne un tesserato del
partito. Le sue idee non cambiarono fino alla morte avvenuta nel 1976. L’esperienza
cinematografica del regista è legata sin dalla fine degli anni trenta quando si unisce ad altri
intellettuali antifascisti, tra cui Puccini, Barbaro, Alicata e De Santis. Il gruppo fa capo alla rivista
“Cinema”, controllata formalmente dal regime fascista, ma che reca in sé un velato spiraglio di
dissenso culturale. Ne è prova un decisivo articolo scritto dallo stesso Visconti, apparso nel 1941 e
dal titolo molto polemico: “Cadaveri”. Visconti vi denuncia la stasi fossilizzante cui versava ormai
da un decennio il cinema italiano
22
. Tra i numerosi e spesso ostacolati progetti cui il gruppo vuole
dar vita, il 15 giugno 1942, iniziano le riprese di Ossessione. Alla sceneggiatura collaborano anche
Ingrao, Pietrangeli, Solaroli, Sarandrei, Moravia. Il ruolo maschile è affidato a Massimo Girotti,
20
Visconti su “Rinascita”, n.12, Dicembre 1948, cit., p.19.
21
Visconti su Il Mondo Nuovo, n.9, Febbraio 1960, cit., p.22.
22
Segnalato su A.Benivenni, Luchino Visconti, Il Castoro Cinema, Milano, 1995, p.13.
14
mentre Anna Magnani, incinta, decide di abbandonare il progetto e sostituita all’ultimo momento da
Clara Calamai. Questa la trama del film:
Un disoccupato, Gino Costa (Massimo Girotti), si ferma in un casolare lungo il Po. Qui l’anziano Bragana (Juan De
Landa) gestisce uno spaccio con la giovane moglie Giovanna (Clara Calamai). La donna s’innamora del vagabondo e
quando questi si mette in viaggio, con un pretesto lo fa richiamare. Gino a sua volta fa allontanare con un trucco il
Bragana e diventa l’amante di Giovanna. Il marito, ignaro, gli offre anche una sistemazione. Gino non sopporta la
situazione e invita Giovanna a fuggire con lui. Al suo rifiuto, parte solo per Ancona. Durante il viaggio fa amicizia con
un vagabondo, detto lo Spagnolo (Elio Marcuzzo), e gli propone di unirsi a lui.
Un giorno, il Bragana si presenta ad Ancona con la moglie per partecipare ad un concorso per baritono dilettante. Li
incontra Gino e lo invita a tornare con loro. Gino e Giovanna decidono di simulare un incidente stradale per liberarsi di
lui. Il piano riesce, ma insospettisce la polizia. I rapporti tra i due amanti si fanno molto tesi dopo il delitto. Si recano a
Ferrara, dove Giovanna intasca l’assicurazione sulla vita del marito. Vedendosi strumentalizzato per interesse, Gino
decide di lasciare Giovanna per una ballerina, Anita (Dhia Cristiani). Quando Giovanna gli rivela di essere incinta, i due
si riconciliano e tentano la fuga. Ma la loro macchina finisce fuori strada. Giovanna muore nell’incidente e Gino è
raggiunto dalla polizia.
Visconti trasferisce il romanzo “Le dernier tournant” di Pierre Chenal (1939) sul greto del Po, e nei
panni stracciati di Gino i paesaggi sfumati e gli eroi miserabili e sconfitti cari alla corrente del
“realismo poetico”. E’ l’unico cineasta neorealista che attinge dalla letteratura, pur in maniera del
tutto personale. Il film, realizzato durante il declino del fascismo, segna la rottura con i due generi
tipici del cinema di regime: l’irrealtà patinata dei “Telefoni Bianchi”, e la retorica trionfalistica del
film storico celebrativo di ipotetici fasti nazionali
23
. La descrizione dei rapporti familiari e sociali
appare inedita e scandalosa. Il montatore del film, Mario Serandrei, visionato il prodotto finito, lo
definì per la prima volta, un film “Neo-realista”, per la descrizione del paesaggio ferrarese e il suo
sapore di verità nella sua minuziosità descrittiva. Antonio Pietrangeli, collaboratore alla regia, ne
sottolinea l’innovativa introduzione del personaggio protagonista:
Un personaggio nuovo, un personaggio nostro, ancora senza volto, con una maglia strappata sulla pelle bruciata dal
sole, col passo indolenzito di chi si sgranchisce le gambe per aver dormito a lungo su un autotreno come un cane
randagio. Ma col gusto dell’avventura, uomo senza nome […]
24
.
Ossessione resta un film politico per le intenzioni degli autori: Gino doveva essere il simbolo stesso
della libertà. Attraverso la descrizione della provincia, emerge quel modello di vita piccolo-
23
Oltre a Blasetti (“1860”,”Vecchia guardia”), importante è il contributo di Goffredo Alessandrini (Il Cairo,1904 –
Roma,1978) regista molto più vicino ideologicamente al regime rispetto a Blasetti, che si distinse per film celebranti
l’eroismo italico quali“Luciano Serra pilota” (1938) e “Giarabub” (1942).
24
A.Pietrangeli, Revue du cinéma, Parigi, 13 Maggio 1948, cit., p.21.
15
borghese rappresentato dal fascismo. Nel film non si allude mai al regime, né alcun indizio ci
informa che si è nel pieno della guerra (e che oltretutto la stiamo perdendo). Ciononostante, una
serie di meschini personaggi minori (il prete, il controllore, i funzionari di polizia, l’ometto che a
Ferrara informa Gino sull’indirizzo delle prostitute), rispecchiano una mentalità che è, in senso lato,
fascismo. Lo stesso Bragana ne è un simbolo, non di autorità, ma di mediocrità. E’ quel che si dice
un “brav’uomo”, cordiale e simpatico verso Gino, ma dai tratti ripugnanti quali il paternalismo,
l’egoismo, il razzismo. Sono tutte caratteristiche tipiche dell’ ”Uomo medio”, ossia il modello
ottimamente dipinto in seguito dalla commedia all’italiana.
Poiché non attacca apertamente il regime fascista, il film è tollerato dalle gerarchie. Mussolini in
persona ne autorizza la distribuzione, eppure i prefetti e i vescovi, di loro autonoma iniziativa,
effettuano un capillare boicottaggio in tutto il paese. Il film è sequestrato e mutilato, o appare in
versioni arbitrariamente rimontate. I risultati di questo caos si vedono tuttora, in quanto circolano
copie incomplete, molto differenti da quella ricostruita nel 1958 dall’autore per mezzo di un contro-
tipo, dopo lo smarrimento definitivo del negativo originale.
L’antifascismo di Ossessione riguarda principalmente la qualità della vita descritta. L’arrivo del
vagabondo dà a Giovanna l’illusione di poter sfuggire alla sua condizione di avvilimento, ma “[…]
il loro sogno di “fuga” individuale e di ricomposizione del nucleo familiare con la nascita di un
bambino, si risolve – come sempre avverrà in Visconti – in una sconfitta”
25
. In questo senso,
toccava al personaggio dello spagnolo aprire per Gino una diversa prospettiva di vita: sostituendo
alla passione individuale quella politico-sociale. Nelle intenzioni, il personaggio di Bragana doveva
essere un proletario che aveva combattuto in Spagna contro i franchisti nella guerra civile e che
tornava in Italia per propagandare idee antifasciste. Nei risultati, la sua amicizia con Gino appare,
secondo alcuni, come una relazione omosessuale. In un momento di entusiasmo ideologico e di lotta
al conformismo, Visconti attribuisce all’omosessualità un significato contestatore, assimilandola
inconsciamente al personaggio che vuole essere il portatore dei valori positivi
26
.
Raccontare la realtà dei tragici fatti occorsi in Italia era prerogativa di molti altri autori: nessuno più
di Roberto Rossellini (Roma 1906-1977) considerò già dal 1945 questi fatti come imprescindibili
dall’esperienza cinematografica, tramite la quale l’Italia si risollevò artisticamente sul piano
internazionale dopo vent’anni di buio pressoché totale. Roma viene liberata dagli alleati il 4 Giugno
1944, quasi un anno prima dalla liberazione completa del paese: poche settimane dopo il regista si
rimette al lavoro (era fermo dal 1942) per girare quello che verrà definito il “manifesto” del cinema
neorealista, “Roma città aperta”, cui segue l’anno dopo il film corale “Paisà”, e nel 1947 il terzo
25
A.Bencivenni, Luchino Visconti, cit., p.17.
26
Ivi, p.19.
16
atto della cosiddetta “Trilogia della Guerra”
27
- ma questa volta ambientato tra le macerie della
Germania divisa e distrutta materialmente e moralmente - “Germania anno zero”.
“Roma città aperta” è il film della “paura”, quella di tutti, ma come disse lo stesso Rossellini in
un’intervista
28
, soprattutto della sua. Connivente col fascismo fino al 1943, senza tuttavia mai
schierarvisi apertamente, dal giorno dell’occupazione nazista a Roma, anche lui dovette
nascondersi, fuggire e vedere numerosi amici catturati o uccisi, oltre a soffrire la fame e il terrore.
Tutto ciò nel film viene descritto con forza e senza ricami, così come in “Paisà”. Il Neorealismo
italiano si rivelò al mondo nel modo più impressionante possibile attraverso Roma città aperta. Le
tragiche icone di Aldo Fabrizi e Anna Magnani
29
, personaggi anti-eroi sconfitti, entrano
drammaticamente nei problemi umani e sociali della guerra e della miseria.
Rossellini rivendicò sempre “il bisogno, proprio dell’uomo moderno, di dire le cose come sono,
rendendosi conto della realtà in modo spietatamente concreto, conforme a quell’interesse,
tipicamente contemporaneo per i risultati scientifici e statistici […]
30
; Una sincera necessità, anche,
di vedere gli uomini quali sono, senza ricorrere allo stratagemma di “inventare lo straordinario”
31
.
Da qui ne consegue, dalle parole dello stesso autore, che
[…] Nei miei film, ho cercato sempre di raggiungere l’intelligenza delle cose, dando loro il valore che hanno: assunto
non facile, anzi ambizioso e tutt’altro che lieve, perché dare il vero valore a una qualsiasi cosa significa averne appreso
il senso autentico e universale.
32
Il realismo per Rossellini non è altro che la forma artistica della verità. Quando la verità è
ricostruita, si raggiunge l’espressione. L’oggetto vivo del film realistico rosselliniano è il “mondo”,
non la storia, e nemmeno il racconto. Roma città aperta e Paisà su tutti, non hanno un protagonista
principale, ma sono film “corali”, un affresco collettivo raffigurante una fitta rete di uomini e donne
alle prese con le quotidiane sofferenze e passioni. Si cerca di trovare i motivi che risiedono dentro
ognuno di noi, ponendosi problemi e interrogativi.
Quando nel 1946 Roma città aperta venne presentato al festival di Cannes, passò quasi inosservato.
L’opera e le intenzioni del regista vennero solo in seguito scoperte, così come venne coniato il
27
La formula fu inventata dallo stesso autore nel 1948.
28
R.Rossellini su Il Tempo, Roma, 15 gennaio 1952, cit., p.11.
29
Aldo Fabrizi (Roma, 1906-1990) e Anna Magnani (Roma 1908-1973) iniziano a lavorare insieme nel 1943 nelle
commedia dirette da Mario Bonnard L’ultima carrozzella e Campo de’fiori, per poi girare insieme Roma città aperta
nel 1945.
30
Rossellini, cit. Gianni Dondolino, Roberto Rossellini, Il Castoro Cinema, Milano, 1989, p.39.
31
Ibidem.
32
R.Rossellini su Corriere della Sera, Milano, 31 marzo 1969, p.16.
17
termine “Neorealismo”, di cui Rossellini fu eletto padre assoluto. Ma per il regista, il neorealismo è
soprattutto una posizione “morale”, che consisteva nell’amore verso il prossimo e verso le cose. Ciò
passava attraverso il mettersi a guardare la vita, con obiettività e mettere insieme gli elementi che
componevano il mondo, senza cercare di metterci nessun giudizio, perché “[…] le cose in sé, hanno
il loro giudizio”.
33
Rossellini amava ripetere spesso che quello che c’è di straordinario, di
sconvolgente e di commovente negli uomini è il fatto che i grandi gesti o i grandi fatti si producono
nello stesso modo, con la stessa risonanza dei piccoli fatti normali della vita, e di conseguenza,
E’ con la stessa umiltà che cerco di trascrivere gli uni e gli altri, poiché c’è nei piccoli episodi quotidiani, una fonte
vastissima di interesse drammatico […]. Scoprire gli esseri e le cose così come sono, nella loro estrema semplicità . Il
più minuto avvenimento della vita quotidiana contiene in sé una straordinaria potenza drammatica.
34
E così prosegue
[…] In ogni mio film voglio captare la realtà. Ora la realtà non esiste, è sempre soggettiva. Bisogna quindi rubare
all’istante delle sensazioni, delle emozioni che creano allora un sembiante di realismo. Per questo cerco di evitare ogni
drammatizzazione.
35
Rossellini credeva molto nell’ ”istinto”, per questo in molti film egli amava circondarsi di attori
presi dalla strada, soprattutto nella “trilogia della guerra”, così come usava fare anche de Sica.
Rossellini citava spesso Honorè de Balzac, che all’inizio degli ultimi capitoli dei suoi romanzi
scriveva “e adesso i fatti parlano da soli”
36
. Andare fino in fondo per il regista voleva dire proprio
questo, ma ciò non vuol dire che essi parlano di per sé, ma che parlano di ciò che sono in realtà:
[…] Quando mostrate un albero, bisogna che esso vi parli della sua bellezza di albero, una casa della sua bellezza di
casa, un fiume della sua bellezza di fiume. E gli uomini e gli animali anche. Una tigre, un elefante, una scimmia sono
altrettanto interessanti di un gangster, di una donna di mondo e viceversa. E’l’istinto che m’interessa. Se questo è quello
che i critici chiamano Neorealismo, sono d’accordo. In tutti i miei film ho sempre cercato di avvicinarmi all’istinto
[…]
37
.
Un film come Roma città aperta non può prescindere assolutamente dalla situazione e dal contesto
storico e sociale in cui fu realizzato. Dopo l’esperienza presso il Centro Sperimentale di
Cinematografia di Roma, dove si fece un nome nella cinematografia di regime, realizzando film di
propaganda come La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942) e L’uomo dalla Croce (1943),
33
Ibidem.
34
Ibidem.
35
Rossellini su Cahier du Cinéma, Parigi, n.131, Luglio 1959, p.31.
36
Vedasi a tal proposito i romanzi ottocenteschi, “Le colonel Chabert” e “Père Goriot” di Balzac.
37
Rossellini su Cahier du Cinema, Parigi, n.7, Luglio 1959, p.18.
18
Rossellini passò all’antifascismo: rifiutò come altri colleghi di trasferirsi al Nord per collaborare al
nuovo e assai precario Centro Cinematografico Nazionale che aveva sede a Venezia – nella realtà
controllato dai nazisti – e che non riuscì in due anni ad apparire altro che una sbiadita imitazione di
Cinecittà.
L’eroismo dei film bellici lascia il posto ad un’inquietudine e un pessimismo cosciente, sintomi di
una crisi di valori che altri registi avevano già avvertito da tempo, traendone le conseguenze
38
. Il
mito nazionale che per anni si era identificato col mito fascista, facendo un falso tutt’uno di
patriottismo e fascismo, si era già profondamente incrinato e mostrava la sua fragilità e la sua
menzogna. Balzavano in primo piano, con grande prepotenza, i problemi della vita quotidiana e
quelli delle istituzioni, legati soprattutto alla crisi di credibilità di un regime ormai agonizzante,
sullo sfondo d’un’Italia stretta tra l’invasione del sud da parte degli alleati e i massicci
bombardamenti delle città del nord. Paura e insicurezza si manifestano quotidianamente: le
persecuzioni, i rastrellamenti, la fame, i patimenti che i tedeschi perpetrano alla popolazione di
Roma, non risparmiano lo stesso Rossellini, il quale dovrà cercare come tutti la salvezza. Proprio
nei mesi d’inverno e di primavera 1943-44, testimoni dei tragici fatti dell’eccidio delle Fosse
Ardeatine
39
, fino alla definitiva liberazione di Roma il 4 Giugno 1944, maturerà il progetto di
narrare con forza quelle sofferenze, mostrare cioè la capitale che vive sotto la paura, documentando
una verità giudicata dallo stesso autore, “[…] divenuta oramai corpo e sangue d’ogni esperienza
personale […]”
40
.
Roma città aperta fu progettato nel 1944 su un soggetto di Sergio Amidei e Alberto Consiglio
41
,
entrambi amici e collaboratori di Rossellini. Il film fu concepito e indi finanziato inizialmente come
38
Visconti con Ossessione e de Sica con I bambini ci guardano, entrambi girati nel 1943.
39
Il 23 marzo 1944 in un’azione di guerra a Roma in via Rasella, un gruppo di partigiani dei Gap uccideva 33 soldati
del battaglione Bozen e ne feriva 38 facendo scoppiare una carica esplosiva e attaccando la colonna nemica con armi
automatiche e il lancio di bombe da mortaio leggere. Accuratamente preparata, l’azione colpiva uno dei battaglioni
specializzati in azioni di rappresaglia e faceva seguito a una serie di massacri perpetrati nei mesi precedenti dai tedeschi
nelle zone intorno alla capitale ai danni di persone innocenti, spesso donne, vecchi e bambini.
In seguito all’azione partigiana Hitler comunicò che Roma doveva essere interamente distrutta e tutta la popolazione
deportata, ma subito dopo rettificò che per la vendetta sarebbe stato sufficiente radere al suolo l’intero quartiere nel
quale si era svolta l’azione. Infine Kesselring e il comandante della piazza di Roma, Kurt Maeltzer, stabilirono le
modalità della rappresaglia: dieci italiani per ogni soldato tedesco ucciso. L’eccidio avvenne immediatamente e fu
affidato al colonnello Herbert Kappler, coadiuvato dal capitano Priebke: il giorno dopo l’azione partigiana, 335 uomini
furono uccisi alle fosse Ardeatine, ciascuno con un colpo alla nuca. La maggior parte delle vittime venne prelevata dal
carcere di Regina Coeli e dal comando di via Tasso, cinquanta furono scelte e consegnate dal questore fascista Caruso
40
R.Rossellini e Mario Verdone, Colloquio sul Neorealismo, in Bianco e Nero, XIII, n.2, 1952, cit., p.5.
41
Sergio Amidei fu importante sceneggiatore di film-chiave della cinematografia italiana: oltre a Roma città aperta,
sceneggiò per Rossellini Paisà (1946), Germania anno zero (1947), Stromboli, terra di Dio (1949), La macchina
ammazzacattivi (1952), La paura (1954), Il generale Della Rovere (1959), Era notte a Roma (1960). Per Vittorio de
Sica collaborò alla sceneggiatura di Sciuscià (1946). Sceneggiatore in seguito di molti film fondamentali della
commedia all’italiana dagli anni cinquanta in avanti: Fantasmi a Roma (1961) di Renato Castellani, Anni ruggenti
(1962) e Il medico della mutua (1968) di Luigi Zampa, La vita agra (1964) di Carlo Lizzani. Il nome di Alberto
Consiglio è legato ai film del periodo fascista cui fu importante sceneggiatore: Giarabub (1942, regia di Goffredo
Alessandrini), L’uomo dalla croce (1942, ancora Alessandrini).