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Introduzione
Il presente elaborato è finalizzato ad analizzare le modalità con cui si è formato, nel tempo,
il comune sentire circa l’esistenza di un legame tra i flussi migratori e i reati commessi in
Italia, paese in cui si osserva oggi un clima di crescente preoccupazione sulla presenza
della popolazione straniera, percepita come una minaccia all’ordine pubblico. L’ostilità
sociale nei confronti dello straniero, ha creato i presupposti per la realizzazione del
binomio tra immigrazione e criminalità. La tesi ha messo al centro della propria analisi lo
stereotipo dell’immigrato criminale e ha analizzato gli effetti che esso provoca. In
particolar modo, è stata analizzata la relazione tra percezione e realtà, un nesso – com’è
noto – alquanto problematico quando si parla di immigrazione.
L’elaborato si articola in tre capitoli al fine di comprendere le molteplici caratteristiche e
dimensioni del fenomeno in questione.
Il primo capitolo è volto a spiegare il comportamento deviante degli immigrati da un punto
di vista sociologico. A tal fine, viene analizzata la concezione dello straniero secondo
Bauman, per il quale è visibile una sorta di timore nascente dall’impossibilità di gestire e
rapportarsi con l’ignoto e l’incontrollabilità che caratterizza la persona migrante. Si fa
cenno altresì al punto di vista di Schütz, secondo cui l’immigrato viene a trovarsi in una
situazione permeata di disagio derivante dall’inattuabilità di far propri i nuovi modelli
culturali con cui viene in contatto e, di conseguenza, sarà sempre visto come una sorta di
ibrido da parte del gruppo sociale dominante. Si prosegue con la visione dello straniero
proposta da Simmel, come contemporaneamente interno ed esterno al gruppo, vicino e
lontano, confidente e potenziale nemico, una condizione che rende possibile una
convivenza basata sulla tolleranza, seppur contaminata dal pregiudizio. Tale frame
sociologico trova una conclusione con l’esposizione delle principali teorie sul
comportamento deviante degli immigrati; la prima è denominata del conflitto di culture, la
seconda della tensione e della privazione relativa, seguita poi dalla teoria del controllo
sociale e da ultimo quella dell’etichettamento. Successivamente, si sono messi in rassegna
i principali approcci psicologici nel trattare della devianza dell’immigrato e del difficoltoso
rapporto che quest’ultimo instaura con l’autoctono. A tale scopo, partendo dalla teoria
proposta da Freud atta a fornire una spiegazione su come si sia sviluppato il timore nei
confronti del diverso, di colui che proviene dall’ignoto, che suscita curiosità ma al
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contempo diffidenza, si arriva alla proposta teorica di Tajfel, che fornisce un quadro
analitico sull’atteggiamento difensivo nei confronti dello straniero derivante dalla
tendenza, da parte del gruppo dominante, a preservare la propria identità e a discriminare i
membri dell’outgroup come inferiori. Da ultimo, si è analizzata la teoria delle
rappresentazioni sociali di Moscovici, che esplica le modalità con cui è possibile rendere
familiare ciò che è oscuro, ignoto, al fine di “accorciare” le distanze. A conclusione del
capitolo sono presi in esame l’approccio criminologico all’immigrato reo e al ruolo che
quest’ultimo può assumere come vittima, menzionando le problematicità riscontrate nel
parlare di criminalità legata al fenomeno migratorio. A questo scopo, viene riportato anche
un quadro statistico in Italia sui reati maggiormente commessi dagli stranieri facendo un
parallelismo tra realtà e percezione.
Il secondo capitolo tratta del legame tra immigrazione e criminalità esistente nel senso
comune, che si nutre anzitutto di immagini stereotipate veicolate dai Media, i quali si
servono di un uso oltremodo tendenzioso del linguaggio e dei simboli. A sostenere quanto
affermato, si dà ampio spazio alla trattazione delle modalità con cui, in particolar modo
giornali e telegiornali, espongono fatti di cronaca nera che vedono protagonista
l’immigrato reo e la vittima italiana, alimentando i pregiudizi e l’ostilità nei confronti di
chi arriva nel nostro paese con un bagaglio non sempre affine a quello dell’autoctono. A
seguire, viene riportato il concetto di tautologia della paura, ovverosia la tendenza, da parte
del senso comune, a originare tautologie sociali tramite il sentimento del timore che crea
conseguentemente un etichettamento negativo nei confronti degli outsider ancora prima di
conoscerli. Oltre a ciò, si fa menzione del teorema di Thomas, il cui enunciato riporta: «Se
gli uomini definiscono reali le situazioni esse saranno reali nelle loro conseguenze», per
poter fornire una spiegazione al rapporto tra devianza degli immigrati e condanna sociale.
Accanto alla teoria appena citata, viene altresì analizzata quella detta Self-fulfilling
Prophecy Theory di Merton, che non solo spiega il meccanismo finalizzato ad alimentare
l’idea che le disuguaglianze possano definirsi naturali, ma fornisce anche una
delucidazione riguardo alla scelta delinquenziale compiuta da alcuni immigrati. Al termine
del capitolo vengono citati i cosiddetti reati culturalmente motivati, assumendo l’esistenza
di un nesso tra cultura e diritto penale e viene fatto un approfondimento sulle figure
professionali di interpreti, traduttori e mediatori culturali in ambito giudiziario.
Il terzo capitolo riguarda la trattazione delle particolari problematicità vissute dalla
fattispecie della donna immigrata in carcere. A tal proposito, viene esposta un’analisi circa
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i reati maggiormente commessi dalle straniere e le peculiarità che le rendono vulnerabili
protagoniste del fenomeno migratorio collegato alla criminalità. In secondo luogo,
vengono descritte le modalità e le implicazioni che caratterizzano il trinomio prostituzione-
immigrazione-criminalità, in quanto è proprio il meretricio ad interessare la maggior parte
delle straniere che intraprendono una carriera deviante in Italia. Infine, si dà spazio alle
considerazioni emerse dall’intervista semi-strutturata condotta ad un’operatrice
dell’associazione di volontariato penitenziario ONLUS VIC CARITAS, che da sedici anni
opera all’interno della Casa Circondariale di Roma Rebibbia femminile G. Stefanini.
L’obiettivo è stato quello di entrare, attraverso il racconto di una volontaria dall’esperienza
pluriennale, “nel vivo” delle problematicità della detenzione immigrata femminile, legate
al background che spesso le priva di poter scegliere in propria autonomia quale condotta
assumere una volta arrivate in Italia.
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1. Immigrazione e criminalità: il quadro conoscitivo
1.1 L’approccio sociologico: Bauman, Schütz, Simmel e le teorie
sociologiche sul comportamento deviante degli immigrati
La società occidentale e, con uno sguardo più ampio, quella mondiale è oggi più che mai
velata da un alone di ambiguità riguardante la “diversità” e, più specificamente la
concezione dell’altro, dello straniero, che «è considerato il termine estremo di
un’estraneazione rispetto alla cittadinanza»
1
.Vi è una comune diffidenza nel rapportarsi
con soggetti altri e questo è sostenuto da diversità politiche, etniche e religiose che
plasmano la società odierna facendo emergere una serie di scenari sociali che vedono
protagonista la distinzione, sempre più netta, tra società dei nativi e chi emigra. È possibile,
a questo proposito, esemplificare tale visione in una sorta di equazione, secondo la quale il
cittadino sta allo straniero come la cittadinanza sta all’emarginazione politico-sociale. Le
marginalità sociali nascono infatti per effetto della sensazione di minaccia verso l’ordine
sociale esistente che, secondo i gruppi predominanti, sarebbe provocata da chi viene
dall’esterno. Nella rappresentazione usuale, cittadinanza è sinonimo di convivenza
necessaria e ordinata; ad essa alcuni (i cittadini) possono prendervi parte, mentre altri (gli
stranieri) ne vengono esclusi, impossibilitati ad integrarsi pienamente in una scena
comune. Nel pensiero sociologico il nuovo arrivato rappresenta una parte sociale a sé
stante, scisso rispetto ai membri del gruppo sociale già radicato in quel dato territorio ed è
proprio su questa chiusura, spesso accompagnata da un accostamento dei termini diverso e
inferiore, che molti ricercatori hanno impostato i loro studi. L’incontro-scontro con lo
straniero postmoderno e le conseguenti rivendicazioni delle varie culture che condividono
il medesimo spazio fisico è stato un argomento di riflessione ampiamente argomentato dal
sociologo polacco Zygmunt Bauman, secondo il quale l’immigrato suscita istintivamente
timore e diffidenza a causa della sua difformità, poiché l’ignoto preclude qualsiasi modello
d’azione preimpostato. Il termine che meglio esprime tale concetto è mixofobia, ovvero «la
paura di dover affrontare dosi massicce e ingestibili di un ignoto non addomesticabile,
1
Sorrentino S., Cittadino e straniero. Nelle dinamiche di identità e esclusione, in Filosofia politica rivista
fondata da Nicola Matteucci, fascicolo 1, aprile 2000, pp. 63-64.
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repellente e incontrollabile»
2
. Bauman afferma come «gli esseri mobili»
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, ovvero gli
stranieri, siano paragonabili alla sporcizia, in grado di portare scompiglio nella società
degli autoctoni, la quale è caratterizzata da ordine, regolarità e pulizia. Così, l’arrivo
dell’immigrato fa vacillare l’equilibrio che sta alla base della sicurezza quotidiana,
contaminando la “pura” società d’arrivo. Risulta evidente, quindi, la difficoltà che lo
straniero incontra nell’integrarsi, come ha evidenziato Alfred Schütz. Secondo il sociologo
austriaco, lo straniero cerca di essere accettato o, almeno, tollerato dal gruppo a cui si
avvicina che ha usi e costumi diversi dai suoi e che non gli permette di far proprio il
modello culturale esistente. Tale situazione rende il nuovo arrivato un ibrido, che si trova
in bilico tra due diversi modelli di vita senza sapere a quale appartenere. Egli deve
imparare ad orientarsi, a capire come muoversi e reagire ai continui sconosciuti stimoli che
provengono dal nuovo gruppo sociale, di cui il modello culturale è per lo straniero «un
campo di avventura»
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. Il sociologo tedesco Georg Simmel interpreta, invece, la figura dello
straniero considerando la relazione noi-altro e spostando l’attenzione dal singolo individuo
verso una dimensione più ampia, che si concretizza nel rapporto che il migrante instaura
con la società che lo accoglie. Secondo Simmel lo straniero è contemporaneamente interno
ed esterno al gruppo, vicino e lontano, confidente e potenziale nemico; una condizione
simile alla figura del mercante in continuo movimento, che interagisce col gruppo
maggioritario ma, allo stesso tempo, è pronto ad andarsene in qualsiasi momento
5
. Risulta
evidente che in questa concezione la relazione che si crea è formata da elementi colmi di
ambivalenza che insieme costituiscono una convivenza basata sull’integrazione ma al
contempo lo straniero è il più facile capro espiatorio qualora sorgano problemi nel gruppo
di autoctoni e avrà sempre collocazioni marginali. Il fatto di essere relegato ad uno spazio a
sé stante ha reso l’immigrato stesso oggetto di pregiudizi che lo ritengono propenso a
delinquere. Al contempo, sin dalle prime ondate migratorie dirette verso l’Italia, si sono
verificati oggettivamente episodi in cui il deviante era uno straniero e ciò ha fatto nascere
l’interesse nello spiegare sociologicamente tale fenomeno, considerando il comportamento
2
Bauman Z., Strangers at Our Door, Polity Press Ltd, Cambridge, 2016, p. 22.
3
Id., Il disagio della Postmodernità, Bruno Mondadori, Milano, 2002, p. 5. Con questo termine l’autore si
riferisce allo straniero.
4
Schütz A., Lo straniero. Un saggio di psicologia sociale, in S. Tabboni, Vicinanza e lontananza. Modelli e
figure dello straniero come categoria sociologica, Franco Angeli, Milano, 1993, p. 141.
5
Mentre Simmel paragona la figura sociologica dello straniero con quella del mercante, Schütz mette a
confronto la figura dello straniero con quella del reduce che si allontana dalla sua terra natia per poi farvi
ritorno in un secondo momento, sperimentando la sensazione di non riconoscersi più in essa a causa dei
mutamenti verificatisi in sua assenza.
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deviante come la risultante del disadattamento sociale e dei sentimenti di esclusione e di
frustrazione vissuti dall’immigrato nel Paese di destinazione. A tal fine, appare necessario
innanzitutto comprendere la nozione di devianza, che in sociologia è definibile come un
comportamento che si discosta dalle norme della collettività tanto che l’individuo (o un
gruppo) che lo compie può conseguentemente venire isolato o sottoposto a trattamento
correttivo e/o punitivo. Non si può ritenere che la devianza sia una proprietà di certe
azioni, in quanto è piuttosto una qualità che deriva dai significati attribuiti a queste dai
membri di una collettività o dalla grande maggioranza di essi
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. In una concezione
relativistica un atto deviante per essere considerato tale deve necessariamente essere
riferito al contesto socioculturale in cui si manifesta, poiché spostandosi in un altro luogo o
società quello stesso comportamento potrebbe essere pienamente accettato. Bisogna
considerare che la vita sociale è governata da norme condivise che, qualora non vengano
rispettate, danno luogo a sanzioni
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individuando il trasgressore come deviante. Spesso il
significato di devianza viene accumunato a quello di criminalità, ma i due concetti non
sono sinonimi; infatti il secondo termine è più specifico riferendosi a quei comportamenti
che violano la legge, ovvero ai reati. Tanto i criminologi quanto i sociologi hanno potuto
concludere che i meccanismi di costruzione e di interazione sociale sono oltremodo
influenti nella formazione del comportamento contrario alle norme, soprattutto applicando
tale approccio allo studio della devianza degli immigrati
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. La costruzione sociale descritta
inizia con la stigmatizzazione posta dalla società sullo straniero che diviene sia causa che
effetto della sua emarginazione. A questo proposito, da alcuni decenni le principali teorie
che i sociologi hanno formulato per spiegare il comportamento deviante degli immigrati
sono tre. La prima viene chiamata del conflitto di culture, la seconda della tensione e della
privazione relativa e la terza del controllo sociale
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. Secondo Thorsten Sellin, sociologo
americano che ha proposto verso la fine degli anni ’30 la teoria del conflitto di culture,
qualsiasi società ha proprie norme di condotta trasmissibili di generazione in generazione,
indicanti quali siano i comportamenti leciti e quali, invece, quelli inaccettabili. Nelle
società semplici regna sovrana l’armonia e l’integrazione, contrariamente a quanto accade
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Bagnasco A. et al., Corso di Sociologia, Il Mulino, Bologna, 2007 (Capitolo VIII Devianza e criminalità).
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Le sanzioni formali e informali a cui si fa riferimento possono essere di due tipi: positive se ricompensano
l’individuo o il gruppo che rispetta la norma e negative, che si sostanziano nella vera e propria punizione per
chi non rispetta la norma.
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In Italia sono state condotte numerose ricerche su questo argomento dall’ISMU (Iniziative e Studi sulla
Multietnicità), ente scientifico indipendente con sede a Milano, una Fondazione nata nel 1991 per
comprendere i fenomeni migratori, diffonderne una corretta conoscenza e realizzare interventi consapevoli.
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Per le tre teorie menzionate vedere Barbagli M., Immigrazione e reati in Italia, Il Mulino, Bologna, 2002.