I
INTRODUZIONE
Che rapporto c’è tra mantenimento dell’identità culturale ed integrazione?
E quale funzione svolgono, in tutto ciò, la carta stampata ed, in particolare, quei
giornali che definiamo “etnici”?
2
Obiettivo principale di questo lavoro è di fornire delle risposte proprio a queste
domande, attraverso una ricerca relativa al concetto di identità culturale italiana
nel contesto brasiliano e, in particolare, nella regione meridionale del Rio
Grande do Sul, dove ho vissuto per quattro mesi.
In primo luogo, non bisogna dimenticare il fatto che la nostra penisola, molto
prima che terra d’immigrazione, è stata, per più di un secolo, una terra di
migranti. E’ stata proprio la consapevolezza di questo nostro passato, al giorno
d’oggi troppo spesso dimenticato, a suscitare in me l’interesse per la realtà
della regione brasiliana del Rio Grande do Sul, la più fortemente caratterizzata
dalla “nostra” immigrazione.
Il mio lavoro si divide sostanzialmente in tre parti: una prima parte che riguarda
il contesto storico-culturale in cui va inserito il fenomeno dell’immigrazione
italiana in Brasile, una seconda parte che riguarda invece aspetti teorici di
carattere sociologico relativi ai concetti di integrazione e di mantenimento
dell’identità etnica, ed infine una terza, ed ultima, parte costituita dall’analisi,
nel concreto, di quello che può essere considerato un importante fattore di
mantenimento dell’identità culturale di una comunità, ovvero il giornale.
La prima parte, costituita dai primi due capitoli, ha la funzione di fornire
un’idea generale riguardo a che cosa sia stato e che cosa abbia significato il
grande movimento migratorio italiano verso il Brasile.
Cominciando dalla prima grande ondata della seconda metà dell’Ottocento fino
ad arrivare alla situazione attuale, ho cercato di tracciare un identikit di questi
migranti: chi erano, da quali regioni d’Italia provenivano, a quali fasce della
2
Con il termine “giornali etnici” si intendono quelle pubblicazioni, scritte solitamente
in lingua, che sono gestite e destinate alle comunità di immigrati di u na determinata
società.
II
società appartenevano e, soprattutto, che cosa li spingeva ad abbandonare la
propria terra natale.
Nel secondo capitolo mi sono poi concentrata sugli aspetti più propriamente
legati alla cultura della comunità italiana e, soprattutto, su come il sentimento
di italianità dei nostri connazionali, praticamente assente in patria, si sia
risvegliato e consolidato proprio in terra straniera.
Bisogna infatti tener conto del fatto che l’Italia, nonostante la raggiunta unità
politica, era, all’epoca dei grandi flussi migratori, caratterizzata ancora da forti
regionalismi e, di conseguenza, sprovvista di una vera e propria identità
culturale comune.
E’ interessante, perciò, notare come un sentimento comune di italianità si sia
delineato in modo molto più deciso ed evidente tra i migranti, piuttosto che tra i
connazionali rimasti in Patria. Questo accadde certamente per rispondere al
bisogno di sentirsi parte di un qualche cosa di comune, trovandosi da soli in una
realtà sconosciuta e lontana.
Nella seconda parte della mia tesi mi sono soffermata sul concetto di identità
culturale, sul rapporto tra integrazione e mantenimento dell’identità etnico-
linguistica e sulla funzione che svolgono, in questo contesto, i giornali.
Nel terzo capitolo mi sono occupata delle teorie elaborate a riguardo dai
rappresentanti della scuola dei Cultural Studies e dell’analisi dell’opera di un
pilastro dello scenario culturale brasiliano, ovvero La pedagogia degli oppressi
di Paulo Freire.
Ho analizzato questo saggio sostituendo alla dicotomia oppresso/oppressore la
realtà della comunità immigrata e il rapporto tra i suoi componenti e la cultura
dominante propria della società d’accoglienza.
Come ho già espresso precedentemente, una delle domande a cui vorrei
rispondere con il mio lavoro riguarda il ruolo che, in tutto ciò, hanno svolto e
continuano a svolgere i giornali e la carta stampata. Per questo motivo, il quarto
capitolo è dedicato al ruolo della stampa italiana in Brasile e, in particolare,
nella regione del Rio Grande so Sul.
Si può affermare che la stampa etnica svolga, in questo senso, la funzione di
uno specchio, in cui l’individuo si può riconoscere ed identificare come
III
appartenente ad una sorta di micro-mondo costruito all’interno del più ampio
contesto socio-culturale in cui si inserisce.
Mi sono concentrata su di un giornale in particolare, il Correio Riograndense,
settimanale di orientamento cattolico fondato nel 1909 e tutt’oggi pubblicato
nella città di Caxias do Sul, dove ancora rappresenta un importante punto di
riferimento per la comunità di origine italiana.
Grazie alla disponibilità dei frati cappuccini, in particolare di Frei Celso, e
all’aiuto dei professori brasiliani che mi hanno aiutato e seguito nelle ricerche,
ho avuto la possibilità di visitare il Museu do Capuchinhos di Caxias do Sul e
di accedere alle copie microfilmate delle edizioni del giornale, dai tempi della
fondazione fino agli anni più recenti.
Essendo impensabile, per ovvi motivi di tempo, l’idea di analizzare tutte le
copie del giornale, ho dovuto effettuare una selezione ed ho scelto quindi di
analizzare alcune delle edizioni più antiche ed alcune delle più recenti,
confrontandole.
Da questo confronto, ho cercato poi di evidenziare come l’evoluzione dei
contenuti e dei criteri di notiziabilità adottati dal giornale vadano, senza alcun
dubbio, di pari passo con l’evoluzione del grado di integrazione della comunità
immigrata italiana nella società brasiliana.
1
1.
L’IMMIGRAZIONE ITALIANA IN BRASILE
Introduzione
Negli ultimi anni, i numerosi studi e ricerche che si sono occupati della
questione dell’emigrazione italiana in Brasile hanno portato ad una migliore
comprensione di questo fenomeno, iniziato nel XIX secolo, e che si può
definire, al giorno d’oggi, concluso.
Questo primo capitolo vuole descrivere alcuni degli elementi chiave di questo
processo, partendo dalle condizioni e dalle motivazioni che spinsero un numero
davvero impressionante di connazionali a lasciare il nostro Paese, fino ad
arrivare alla situazione attuale.
L’obiettivo è quello di fornire un quadro il più possibile chiaro ed esauriente
del contesto entro il quale si inserì l’immigrazione italiana in Brasile, con
un’attenzione particolare per la realtà della regione del Rio Grande do Sul.
3
CENNI STORICI
Cosa significa emigrare? A questo proposito il professore João Carlo Tedesco
scrive:
O fenomeno migratorio è um processo que trascende o tempo, o
espaço e fronteira de varias dimensoes; que produz outros tempos,
outros espaços e outras fronteiras; sua caracterisctica basica é o
abandono do tempo original por um tempo significativamente
longo.(...)
3
Il Rio Grande do Sul è uno stato del Brasile meridionale che conta circa 11 milioni di abitanti
e la cui capitale è la città di Porto Alegre. I suoi confini sono a nord lo stato di Santa Catarina, a
est l’Oceano Atlantico, a sud l’Uruguay e a ovest l’Argentina. La popolazione è composta
prevalentemente da etnie europee, discendenti da immigrati portoghesi, italiani, tedeschi e, in
quantità molto minori, polacchi, svedesi e russi.
2
As migrações são realidades governadas não so pela oferta e
demanda, mas são fenomenos sociais, historicos, culturais,
identitarios e antropologicos.
4
Negli anni compresi tra il 1875 e la metà degli anni settanta del Novecento si
calcola che si siano spostati verso il Brasile circa un milione e mezzo di
italiani.
Il flusso migratorio visse la sua fase più intensa negli anni che vanno dal 1887
al 1902, per poi diminuire fino ad interrompersi con la prima guerra mondiale,
riprendere in maniera più ridotta negli anni tra le due guerre e infine in maniera
più intensa nel secondo dopo guerra.
L’importanza rivestita dall’immigrazione italiana sul suolo brasiliano può
essere attribuita a due diversi ordini di fattori: fattori di ordine quantitativo e
qualitativo.
Per quanto riguarda i numeri, basti pensare che nel cinquantennio che va dal
1870 al 1920, gli italiani in Brasile rappresentavano circa il 42%
dell’immigrazione totale, il che significa circa 1,4 milioni su un flusso
complessivo di 3,3 milioni.
Ci sono poi fattori di ordine qualitativo, ovvero le affinità di lingua, costumi e
religione che hanno in qualche modo facilitato l’assimilazione e l’integrazione
degli italiani, più di quanto poteva accadere, per esempio, con tedeschi o
giapponesi.
Soffermiamoci ora, però, sulle motivazioni che spinsero così tanti italiani ad
emigrare.
Attribuire, come talvolta viene fatto, la causa dell’emigrazione italiana
esclusivamente a fattori isolati come la miseria in cui viveva gran parte della
popolazione contadina, significherebbe adottare una visione riduttiva e
semplicistica di un fenomeno che si rivela essere invece molto più complesso.
4
«Il fenomeno migratorio è un processo che trascende il tempo, lo spazio e le frontiere, che
produce altri tempi, altri spazi e altre frontiere, la sua caratteristica di base è l’abbandono del
tempo originale per un tempo significativamente lungo. (…) Le migrazioni sono realtà
governate non solo dalla legge di offerta e domanda, sono bensì fenomeni sociali, storici,
culturali, identitari e antropologici», J. C Tedesco, Imigração e integração cultural: interfaces.
Brasileiros na região de Veneto- Itália, Passo Fundo, Editora Universitaria, 2006, p. 39.
3
Senza alcun dubbio, sia l’Italia che il Brasile adottarono politiche di
incoraggiamento dei flussi migratori vedendo nell’immigrazione la soluzione a
molte delle loro problematiche.
Per quanto riguarda l’Italia, per esempio, uno dei fattori che spinse molti
italiani ad emigrare sarebbe da ricercare in quel passaggio del nostro Paese da
uno stadio prevalentemente agricolo e preindustriale ad uno di impronta
capitalistica.
5
Anche questo processo va però inquadrato in una più ampia cornice di fattori
economici e sociali. Nel 1870, a pochi anni dall’unificazione e dal complicato
periodo che la precedette, l’Italia aveva infatti finalmente stabilito i proprio
confini politici e territoriali. L’ unificazione aveva contribuito a risolvere la
maggior parte dei problemi di ordine politico ma non quelli di natura
socioeconomica che, al contrario, continuavano a crescere, assumendo
proporzioni preoccupanti.
La situazione che si presentava era quindi quella di un’Italia finalmente unita
sul piano politico-istituzionale ma caratterizzata da divisioni interne e barriere
di natura sociale sempre più marcate.
Dopo più di vent’anni di lotte per l’unificazione del Paese, la popolazione si
trovava inoltre costretta ad affrontare enormi problemi di sopravvivenza, tanto
nelle aree rurali quanto in quelle urbane.
Queste problematiche coinvolgevano in modo particolare il nord della penisola,
da un lato perché, nonostante fosse la zona più industrializzata, non si trovava il
modo di impiegare la sovrabbondante manodopera disponibile, dall’altro perché
la maggior parte dei contadini era sprovvista della terra che doveva garantirne
la sopravvivenza. Per ovviare a questa mancanza molti di loro lavoravano nelle
terre di grandi proprietari, guadagnando solo il minimo indispensabile per la
sopravvivenza e senza avere alcuna possibilità di migliorare la propria
condizione.
In generale, furono principalmente l’estremo frazionamento delle terre, i miseri
salari e l’innalzamento delle tasse, uniti allo sviluppo di un’economia di stampo
5
Emilio Franzina definisce questi fattori, che spinsero gli italiani a lasciare il proprio Paese,
stimoli espulsivi. Cfr. E. Frazina, A grande emigração. O êxodo do Veneto para o Brasil, São
Paulo, Unicamp editora, 2006.
4
capitalistico, a determinare la situazione di estrema povertà in cui viveva la
classe contadina.
Come se non bastasse, alla fine del XIX secolo, l’Italia dovette affrontare anche
pesanti epidemie di malaria e febbre gialla, mentre il nord del Paese era
flagellato dalla pellagra: una grave malattia riconducibile alla scarsissima
varietà dell’alimentazione contadina, composta quasi esclusivamente da derivati
della farina di mais e grano e completamente carente di proteine animali e di
vitamine.
Fu in questo contesto di fame, miseria e mancanza di prospettive che
l’emigrazione cominciò ad essere promossa e sostenuta, anche
finanziariamente, dal governo italiano.
Nel periodo che va, all’incirca, dal 1870 al 1930 si può parlare di
un’“emigrazione sovvenzionata”, ovvero dell’impegno da parte del governo
italiano di offrire agli emigranti un aiuto economico, almeno per quanto
riguardava il viaggio, l’alloggio e il primo lavoro.
6
Gli immigrati, dal canto loro, si impegnavano a rispettare i contratti che
stabilivano sia il loro luogo di lavoro che le condizioni a cui dovevano
sottostare.
L’immigrazione sovvenzionata favoriva sostanzialmente lo spostamento di
intere famiglie e questo fece sì che, a partire, fossero soprattutto nuclei molto
numerosi, composti anche da una dozzina di persone, piuttosto che di individui
singoli.
Per quanto riguarda poi le regioni di provenienza, i primi migranti a lasciare
l’Italia, nel cinquantennio 1870-1920, provenivano essenzialmente dal Veneto,
circa il 30% del totale, seguiti in numero minore da campani, calabresi e
lombardi.
6
Per “immigrazione sovvenzionata” s’intendono sostanzialmente una serie di facilitazioni, che
potevano consistere anche in concessione di denaro per pagare il viaggio dei migranti, che
avevano l’obiettivo di facilitarne l’arrivo e la prima istallazione nel nuovo paese.
Questo tipo di immigrazione fu approvato nel 1871 in seguito ad una legge chiamata «Ventre
Livre» (pancia libera) ma inizialmente rispondeva quasi sempre a spontanee iniziative dei
singoli fazendeiros.
5
I veneti erano per lo più piccoli proprietari terrieri, spinti a tentare l’avventura
brasiliana proprio dalla speranza di riuscire ad accedere alla terra che in Patria
scarseggiava.
Gli immigrati meridionali erano invece generalmente più poveri, spesso
contadini e braccianti partiti senza alcun risparmio.
Le destinazioni principali erano le fazendas di caffè di São Paulo e i principali
nuclei di colonizzazione che si trovavano nella parte meridionale del Paese, in
particolare nelle regioni di Rio Grande do Sul, Santa Caterina, Paranà e Spirito
Santo.
7
Verso la fine del XIX secolo anche il Brasile, come l’Italia, stava affrontando
una serie di problematiche di varia natura, per le quali l’immigrazione europea
sembrava rappresentare una soluzione.
L’immigrazione cominciò così ad essere incentivata anche dalle classi dirigenti
brasiliane, principalmente per due motivi: in primo luogo per rispondere alla
necessità di popolare un territorio immenso, coltivando il maggior numero di
terre possibile, e sostenere così un modello di crescita economica improntato
all’esportazione, in particolare di caffè, e in secondo luogo perché, in seguito
all’abolizione della schiavitù, il cambio radicale delle dinamiche lavorative rese
necessario il reclutamento di manodopera non specializzata da utilizzare in
campo agricolo e nelle grandi piantagioni.
8
Nonostante il lavoro fosse quindi livre e remunerado, le condizioni di vita e
l’effettiva remunerazione percepita rendevano ancora assolutamente remote le
possibilità di una prosperità futura in terra brasiliana o di una possibile ascesa
sociale ed economica da parte degli immigrati.
9
Un quadro interessante delle condizioni di vita dei primi migranti si può trovare
nel saggio curato dagli studiosi Rovilio Costa e Luis Alberto De Boni, intitolato
La presenza italiana nella storia e nella cultura del Brasile e molto utile per
7
Fazenda è una parola portoghese che significa fattoria ma che viene usata per indicare un tipo
di piantagione di caffè, solitamente di grandi dimensioni e basata sul latifondo, molto diffusa in
Brasile tra il 1840 e il 1896.
8
Questo fenomeno coinvolse però quasi esclusivamente gli Stati settentrionali del Paese, nella
parte meridionale infatti non si può parlare di una vera e propria presenza di schiavi.
9
«libero e remunerato»
6
farsi un’idea di che cosa rappresentasse il fenomeno migratorio italiano in
Brasile.
10
Attraverso lo studio di alcuni documenti delle autorità italiane, i due studiosi
hanno cercato di ricostruire la storia della colonizzazione dal punto di vista di
chi emigrava, cercando di interpretare al meglio sentimenti e aspettative di
quegli italiani che abbandonarono ogni certezza nella speranza di una futuro
migliore.
Come si legge nel saggio appena citato, ad aspettarli c’era un cammino
tutt’altro che facile: già il viaggio era sufficiente a segnare i coloni che, dopo la
traversata dell’Atlantico, venivano trasportati, su barconi affollatissimi, da Rio
de Janeiro a Porto Alegre o a Desterro.
Si parla di
(…) famiglie decimate, bimbi che piangono i genitori morti di
recente, genitori che piangono i loro bimbi perduti per sempre;
mariti che lamentano la perdita della moglie, mogli che
lamentano la perdita del marito (…) E pensare che questi infelici
credono che una volta giunti in colonia saranno finiti i loro
patimenti, quando appunto là cominci ano le difficoltà maggiori e
la lotta per la vita! (…) Solo domandiamo se il Brasile chiama
gli emigranti per popolare la terra o il cimitero .
11
Al di là dell’angosciante attualità di questa descrizione, che non può lasciare
indifferente gli Italiani di oggi, è evidente come i nostri migranti fossero
completamente impreparati ad affrontare una situazione del genere.
Gli Italiani, inoltre, arrivarono, in particolare nel sud del Paese, solo alcuni
decenni dopo gli immigrati tedeschi e questo fece sì che spesso i nuclei
coloniali assegnategli fossero i più lontani dalle regioni abitate, i meno fertili e,
soprattutto, ancora completamente privi di mezzi di comunicazione e di
assistenza medica.
10
M. T Schorer Petrone,, La presenza italiana nella storia e nella cultura del Brasile, a cura di
R. Costa, L. A. De Boni, ed. it. A. Trento, Torino, edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli,
1991.
11
Ibidem, p. 173.
7
L’esistenza di mezzi di comunicazione era determinante per lo sviluppo di una
colonia, molto più dello spirito dei componenti o del valore dei suoi leader. A
riprova di questo sta il fatto che nei rapporti diplomatici analizzati da Costa e
De Boni, per esempio, i trasporti e le vie di comunicazione rappresentavano gli
argomenti più frequenti subito dopo le scuole.
Citando un passo di un libro scritto da Luigi Petrocchi:
Strade non ve n’erano; solo attraverso ai valloni e ai dirupi della
foresta erano stati tracciati alcuni piccoli sentieri dove non batteva
mai il sole, tutti pozzanghere e sterpi; a ogni passo si strappavano i
vestiti oppure ci si trovava dinanzi al ripugnante spettacolo di una
mula morta dentro una buca piena di fango. In quei tempi, per un
viaggio di 78 km che oggi si può fare a cavallo in dodici ore, non si
impiegavano meno di dodici lunghi giorni.
12
Per quanto riguarda il contesto strettamente gáucho
13
, l’immigrazione europea
aveva principalmente l’obiettivo di «(...) povoar, e mais do que isso, para
renovar os processos e as relações de trabalho e produção(...)».
14
Nel Rio Grande do Sul il progetto di immigrazione prevedeva la possibilità per
i contadini, trascorso un determinato periodo di tempo, di diventare proprietari
della terra sulla quale lavoravano. Agli immigrati e alle loro famiglie venivano
assegnati lotti di terra situati in zone delimitate e definite, chiamate colônie.
L’area coloniale del territorio gáucho era fondamentalmente quella
(…) situada strategicamente entre a região dos Campos de Cima da
Serra, onde habitavam os discendentes de portugueses ocupados na
12
L. Petrocchi, Le colonie italiane nel distretto di Bento Gonçalves, in «Bollettino
dell’emigrazione», 6, 1906, p. 12.
13
Con l’aggettivo gáucho si intende la zona del Rio Grande do Sul.
14
«(…)popolare e, più di questo, per rinnovare i processi e le relazioni di lavoro e
produzione».T. Azevedo, Italianos e gáuchos, Porto Alegre, A Nação/Instituto Estadual do
Livro, 1975, p. 79.
8
pecuária (...) e a (...) Depressão Central, onde se localizavam os
alemães e a zona da Campanha».
15
E’ esattamente in questa zona che, dopo un certo periodo, molti immigrati
italiani riuscirono a diventare dei piccoli proprietari terrieri.
Ma quali erano i sentimenti che accompagnavano gli immigrati nel momento di
abbandonare la propria terra?
Appare scontato come la risposta sia: molti, e molto diversi.
Partire significava lasciarsi alle spalle la realtà italiana ed andare verso un
mondo nuovo, guidati dall’unica speranza di migliorare le proprie condizioni di
vita. Il desiderio e l’auspicio di un domani migliore sembravano essere più forti
della nostalgia e della paura di lasciare la propria patria, anche se li aspettava,
una volta arrivati, la sfida continua di doversi confrontare con un ambiente del
tutto nuovo e senza dubbio molto diverso da quello a cui erano abituati.
Fu proprio nel contesto della serra gáucha che gli immigrati italiani si posero
come colonizadores, nel senso che ognuno, con la propria famiglia, era
responsabile del proprio lotto di terra dal quale si impegnava a ricavare il
necessario per il proprio sostentamento.
16
L’unico rendiconto che avevano era quello nei confronti del governo, al quale
dovevano pagare, al termine di un periodo prefissato che andava solitamente dai
tre ai sei anni, il lotto che avevano ricevuto al momento dell’arrivo.
A questo punto trovo opportuno fare riferimento a quello che scrive Loraine
Slomp Giron per chiarire cosa si intenda con i termini colônos e colônia:
Com a emancipaçao politica do Brasil de Portugal, colônia deixa de
significar a relação da dependência externa do país. Colônia passa
a significar terras despovoada, para as quais são trazidos
imigrantes estrangeiros para produção agrícola.
17
15
L. S. Giron, J. H. Dacanal, S. Gonzaga, Rio Grande do Sul: imigração e colonização, op. cit.
p. 60.
16
Con questo termine si indica la regione montuosa che si trova nella parte nord est dello stato
del Rio Grande do Sul.
17
L. S. Giron, H. E. Bergamaschi, Colônia: um conceito controverso, Caxias do Sul, Educs,
1996, p. 20.
9
Colônias furono quindi chiamate queste grandi aree che da un lato dovevano
essere ripopolate e dall’altro costituire delle zone di frontiera. Gli abitanti di
queste zone furono denominati, appunto, colonos.
Per fare in modo che la regione del Rio Grande do Sul potesse essere divisa in
lotti da affidare ai coloni, lotti che misuravano mediamente 2200 metri di
lunghezza per 220 di larghezza, il Governo imperiale divise in sezioni numerate
l’enorme foresta vergine che ricopriva buona parte della provincia. Ogni nucleo
familiare riceveva il numero del lotto che gli spettava e, in un primo periodo,
anche un modesto sussidio per far fronte alle prime difficoltà.
18
Per quanto riguarda i criteri di assegnazione dei lotti, non fu data alcuna
importanza al fatto di destinare terre vicine ad immigrati provenienti da regioni
o città italiane confinanti.
Questo perché la preoccupazione principale non era certo quella di compensare
in qualche modo la situazione di grande distacco culturale dei migranti, quanto
quella di occupare, in maniera più omogenea possibile, tutti i lotti disponibili.
Solamente in alcuni nuclei coloniali principali come Caxias do Sul, Conte d’ Eu
e Dona Isabel ci sono stati casi di assegnazione di lotti secondo criteri etnico-
linguistici ma si tratta comunque di un’eccezione.
CHI EMIGRAVA?
Come ho già accennato, delle migliaia di migranti che abbandonarono l’Italia
tra la fine del XIX secolo e l’inizio del secolo seguente, la maggior parte era
costituita da contadini.
Bisogna però a questo punto fare una distinzione tra contadini e agricoltori:
contadino era colui che produceva ciò di cui aveva bisogno per sopravvivere e
per provvedere al mantenimento del proprio nucleo familiare, producendo
talvolta anche pezzi d’artigianato per l’uso quotidiano, mentre agricoltore era
colui che coltivava la propria terra per commercializzarne i prodotti e
18
B. D’Apremont, B. Gillonnay, Comunidades indígenas, brasileiras, polonesas e italianas no
Rio Grande do Sul, Caxias Do Sul, Educs, 1976, p. 225-226.
10
provvedere poi con il guadagno ottenuto al sostentamento proprio e della
propria famiglia.
Una famiglia si divideva poi in bocas que trabalham e bocas que precisam ser
alimentadas.
19
Non sempre c’era un’equivalenza tra queste due condizioni e per
questo motivo il fatto che ci fossero componenti della famiglia che lavoravano
più del necessario serviva sostanzialmente per compensare chi invece non
poteva lavorare, come per esempio bambini e anziani.
Questo ordine di cose veniva pacificamente accettato e condiviso all’interno del
nucleo familiare, in quanto ognuno era consapevole del fatto che si sarebbe
potuto trovare, prima o poi, in una fase di scarsa produttività.
Come ho già detto, la maggior parte dei contadini italiani proveniva dalle
regioni del nord d’Italia, specialmente da quelle montuose,condizione che lì
favorì, rispetto agli immigrati che provenivano da zone pianeggianti o di
collina, nella relazione con l’ambiente circostante, essendo già abituati a delle
condizioni di vita decisamente ostili.
La serra gáucha rappresentava per queste persone una scommessa, una sorta di
sfida: non era certo facile cominciare una nuova vita dall’altra parte del mondo
e in un nuovo contesto culturale e ambientale.
Va da sé che della grande massa di contadini immigrati non tutti ebbero la
stessa fortuna: è opportuno ricordare come una parte di loro non riuscì
assolutamente a prosperare e a vedere maturare i frutti del proprio lavoro in
territorio gáucho.
Come scrive Loraine Slomp Giron , tra gli immigrati italiani arrivati nel Rio
Grande do Sul
nem todos conseguiram manter sua terra. Muitos tiveram que deixá-
la por não poder compri seus compromissos assumidos com o
19
Con questa espressione si intende che, all’interno della famiglia, c’erano componenti che
lavoravano ed altri che dovevano essere solo sfamati ma che erano impossibilitati nello svolgere
attività.
Cfr. Tânia Perotti, Nanetto Pipetta: modos de representação, Dissertaçao da Universidade de
Caxias do Sul, 2007, p. 58
11
governo. Famílias inteiras foram dizimadas pela doença e pela
miséria.
20
Non furono però solo i contadini a spostarsi verso il Brasile ma emigrarono
anche lavoratori specializzati come artigiani, sarti, falegnami e barbieri.
Esattamente come i contadini, anche questi professionisti furono spinti dal
desiderio di trovare oltreoceano quello che non trovavano in Patria, ovvero
condizioni di vita migliori e maggiori guadagni e, esattamente come i contadini,
non si può certo dire che tutti siano riusciti a realizzare ciò che avevano
sognato.
Nonostante qualche aiuto da parte dello Stato, infatti, le condizioni di vita dei
coloni continuavano ad essere difficili sotto molti punti di vista.
Per esempio, a causa delle grandi distanze che intercorrevano tra un lotto e
l’altro, la famiglia contadina poteva contare, per il proprio sostentamento, solo
sul lavoro dei componenti del proprio nucleo.
Il cambiamento delle condizioni ambientali e geografiche comportò per
l’immigrato italiano anche un cambiamento delle attività e della concezione
della cultura materiale e questo fu, senza dubbio, uno dei fattori fondamentali
per la formazione della loro identità nel Rio Grande so Sul.
I cambiamenti non riguardavano solo la sfera lavorativa ma, più in generale, i
vari aspetti della vita quotidiana come, per esempio, il modo di esprimersi. Non
esistendo più, infatti, la realtà del villaggio in cui tutti parlavano lo stesso
dialetto, anche la lingua dovette adattarsi, in un processo di riorganizzazione
che potesse soddisfare le necessità di comunicazione imposte dal nuovo
contesto.
20
«non tutti riuscirono a mantenere la propria terra. Molti furono obbligati a lasciarla per non
essere riusciti a mantenere gli accordi presi con il governo. Famiglie intere furono decimate
dalle malattie e dalla miseria», L. S. Giron, H. E. Bergamaschi, Colônia: um conceito
controverso, op. cit., p. 46.