2
dove più si è concentrata la presenza di migranti dell’una e dell’altra immigrazione, con
l’intento di avere un quadro ben definito sulla presenza e l’età dei minori “meridionali” e
“stranieri”, dagli anni Novanta
1
ad oggi, e con la possibilità di imbattermi in esiti non previsti.
Dopo aver raccolto i dati quantitativi, grazie al permesso della Dirigente, sono riuscito a
inserirmi nella scuola e nelle classi, iniziando un confronto con le insegnanti per tentare di
cogliere il significato che esse danno e hanno dato al loro lavoro all’interno dell’istituzione
scolastica. Inoltre, “frequentando” la scuola, dove io stesso avevo studiato negli anni Ottanta,
mi sono imbattuto in insegnanti con una lunga esperienza e sono riuscito a ottenere
informazioni sulle attività svolte negli anni in cui la presenza di minori “meridionali” era forte
e sul senso ad esse attribuito. Infine, ho cercato di entrare in contatto diretto con alcuni alunni
della scuola e con le loro famiglie
2
, rivolgendo la mia attenzione ai rapporti generazionali al
loro interno, per capire la relazione con la cultura d’origine e il loro rapporto con il mondo
torinese in cui si trovano a crescere.
Questo mi ha consentito da un lato di mettere in pratica e utilizzare quello che Paola Sacchi e
Pier Paolo Viazzo (2003: 13) definiscono «il primo e forse più importante contributo che
l’antropologia offre allo studio delle migrazioni», il metodo etnografico fondato
sull’osservazione partecipante. Dall’altro lato, di rimediare in minima parte alla scarsa
attenzione rivolta al destino degli immigrati e dei loro figli, rilevata da Enrico Pugliese
(2002). In questo modo, ho cercato di conoscere qualcosa di ciò che i “migranti minori” di ieri
e di oggi hanno conservato e conservano delle culture che i loro genitori hanno portato con sé
emigrando e, se ciò è stato fatto, se costituiscono un forte punto di riferimento per edificare
un’identità individuale e collettiva.
Principale obiettivo della mia tesi è, quindi, mostrare le analogie e le possibili connessioni tra
i due fenomeni migratori che da mezzo secolo a questa parte, in modo sequenziale, hanno
interessato e interessano in generale l’Italia e in particolare la città di Torino: l’immigrazione
“interna”, dal Sud meridionale d’Italia al Nord prima, e l’immigrazione “esterna” dal “Sud del
Mondo” all’Italia poi. E’ mia intenzione inoltre incentrare il mio lavoro sui cambiamenti che
hanno interessato migranti minori, sia meridionali sia extracomunitari, di prima e seconda
1
Il periodo preso in considerazione per i dati quantitativi sulla presenza di meridionali e stranieri si limita agli
ultimi undici anni perché, come vedremo nel primo capitolo al paragrafo 2 “La popolazione scolastica della
Pestalozzi”, negli anni precedenti i dati erano insufficienti. Precisamente l’arco di tempo considerato va
dall’anno scolastico 1994/1995 (anno in cui mia sorella frequentava il quinto anno delle elementari proprio alla
Pestalozzi) all’anno scolastico 2004/2005.
2
La conoscenza e il rapporto con gli alunni, a parte un’uscita didattica, sono avvenuti solo all’interno della
scuola durante le lezioni e gli intervalli. Il contatto con le famiglie in realtà si è limitato a una serie di interviste,
tenute a scuola, con alcune mamme durante il ricevimento dei genitori.
3
generazione, riflettendo sul concetto di integrazione nella società e prendendo in
considerazione la struttura istituzionale che più s’interessa di questa problematica; la scuola.
La ricerca è stata condotta nella scuola elementare “G. E. Pestalozzi” di Torino situata in
Barriera di Milano, quartiere che dalla sua nascita nel 1852, si caratterizza come quartiere
d’immigrati. La Barriera di Milano, infatti, fino a una decina di anni fa ha ospitato un
rilevante numero di immigrati meridionali, mentre negli ultimi anni ospita anche immigrati
internazionali. In particolare la mia attenzione è stata rivolta da una parte, all’archivio della
scuola, del quale ho presentato, non solo un semplice elenco dei dati raccolti, ma anche una
loro elaborazione. In questo modo, innanzi tutto, ho evidenziato, nel periodo preso in
considerazione, i legami endogamici tra i vari migranti e, partendo dall’affermazione di
Fabietti (1995: 111-112) «fenomeni come l’ibridazione, il meticciamento, il sincretismo sono
non solo possibili ma necessari», ho sottolineato i possibili “meticciamenti culturali”. In
secondo luogo la consultazione dei registri più vecchi
3
mi ha consentito di ricostruire le
attività svolte a scuola in passato, confrontandole con quelle di oggi.
Come fa notare Stefania Pontrandolfo (2005), negli ultimi anni, è cresciuto, tra gli storici della
scuola, l’interesse per gli archivi scolastici considerati delle fonti fondamentali per la storia
della scuola divenuta oggetto di ricerca storica così come altre istituzioni statali. Da un punto
di vista antropologico, ciò che rende interessante la ricerca d’archivio è la «presenza di una
dimensione istituzionale dell’archivio» (Pontrandolfo 2005: 59). La Pontrandolfo, azzardando
una definizione “douglasiana” di archivio, sostiene che esso sia formato sia da uno spazio
istituzionale, sia da una dimensione cognitiva istituzionale.
L’archivio è costituito innanzi tutto da un luogo istituzionale e da un contenuto
istituzionale. L’archivio è dunque un artefatto simbolico: si tratta di un luogo dedicato
alla raccolta e alla conservazione di una memoria artificiale che nello stesso tempo
riflette e dà forma all’istituzione in cui e per cui è stato prodotto.[…] L’archivio è
dunque un artefatto/supporto della memoria collettiva, una memoria artificiale frutto
di uno sforzo collettivo istituzionale della nostra società per conservare le tracce di un
tessuto relazionale del passato (Pontrandolfo 2005: 59).
Dall’altra parte, attraverso la ricerca etnografica ho tentato di osservare il modo in cui
vengono accolte e trattate le “differenze” nella scuola, cioè se come nel passato recente esse
vengono “inasprite” o “annullate” oppure se siano giustamente valorizzate in quanto
considerate patrimonio di risorse culturali, religiose, sociali e linguistiche; insomma è stata
3
Durante il lavoro in archivio ho consultato i registri di classe a partire da quelli dell’anno scolastico 1954/1955.
4
mia intenzione affrontare in questo specifico contesto le questioni legate alla diversità e i temi
su cui si fonda il discorso interculturale (alterità/differenza, identità, cultura, interculturazione,
etnicità). Inoltre, dopo un’attenta analisi, sono riuscito a presentare i diversi quadri di
riferimento, i vari modelli culturali della scuola (folk models) e le differenti strategie
educative adottate dalle molte minoranze immigrate presenti nella scuola. Infine, ho potuto
riscontrare in alcune insegnanti la presenza di quel ruolo di “ricercatore-esperto” del “campo”
scolastico, che Francesca Gobbo (2002) ritiene possibile e necessario per poter applicare
quell’apprendimento cooperativo indispensabile per intervenire nei confronti della diversità.
Da quanto detto fin qui, posso dire quindi, che il mio approccio metodologico ha seguito sia
un metodo di multilivello, sia un metodo comparativo (Ogbu, 1999:19). Per quanto riguarda il
primo, esso comporta, la ricerca e la raccolta dati su molteplici livelli; da una parte,
l’osservazione partecipante, l’esperienza con i bambini e insegnanti a scuola o più
semplicemente la mia presenza in classe, dall’altra la ricerca nell’archivio scolastico, ricerche
bibliografiche, la scrittura e la rielaborazione della scrittura dentro e fuori dal campo. Inoltre il
mio approccio seguirà anche un metodo comparativo dal momento che analizzerò e
confronterò sia l’esperienza di scolarizzazione dei minori meridionali di ieri, sia l’esperienza
scolastica dei minori stranieri di oggi.
Il testo è articolato in tre capitoli. Nel primo, “Storia di Ieri”, l’attenzione è stata rivolta alla
storia della Scuola Pestalozzi, in cui ho condotto la ricerca, con l’aggiunta di dati relativi alla
presenza di minori “meridionali” e “stranieri”. Sono anche stati inseriti alcuni dati ricavati in
parte dalle interviste fatte ad alcuni insegnanti in relazione all’argomento “presenza di
meridionali”, in parte dalla consultazione delle “note giornaliere” di alcuni registri degli anni
passati.
Nel secondo capitolo, “Storia di oggi” ho prima inserito alcuni dati relativi alla presenza di
stranieri nel corrente anno scolastico. Successivamente ho presentato alcune attività
organizzate e svolte nella scuola, sottolineando le trasformazioni e gli eventuali miglioramenti
in relazione al rapporto con le “diversità” che i fenomeni migratori introducono, il tutto
sostenuto da una rielaborazione e interpretazione delle interviste relative alla situazione
attuale.
Nel terzo ed ultimo capitolo, “Storia di domani”, ho cercato di fornire alcune interpretazioni
teoriche su quanto osservato e ascoltato durante la ricerca. Pertanto ho affrontato questioni
relative al rapporto con l’alterità e, in una prospettiva transnazionale, al rapporto che
meridionali e stranieri di seconda generazione hanno con le proprie origini. Ho tentato di
presentare un confronto sulle modalità d’integrazione scolastica sia degli alunni meridionali,
5
sia degli alunni stranieri. Infine, ho valutato le trasformazioni che hanno caratterizzato la
scuola Pestalozzi.
Prima di concludere ritengo sia necessario fare chiarezza sulle motivazioni che mi hanno
portato a prendere la decisione di orientare il mio lavoro di tesi in antropologia sociale verso
lo studio della migrazione infantile.
È importante, in tal senso, sottolineare che fin dal momento in cui mi sono trovato nella
condizione di dover scegliere su cosa sviluppare la mia tesi, non ho avuto dubbi sul fatto che
il mio interesse dovesse rivolgersi verso l’immigrazione. Non solo perché il mio social
network è intriso anche di individui extracomunitari, ma anche per il desiderio di conoscere
più da vicino almeno parte della numerosa e sempre crescente popolazione immigrata di
Torino. Quello che non sapevo e su cui ero incerto, era la direzione da prendere, su cosa
indirizzare specificamente la mia ricerca. Il suggerimento è arrivato in un momento
inaspettato, vale a dire, quando Mauro Della Rocca, presidente del Circolo Arci teatro di
strada, Teatro Carillon, di cui faccio parte, mi ha chiesto, tempo fa, di tenere un corso di
giocoleria per bambini delle elementari nella scuola Pestalozzi di Barriera di Milano, dove il
Teatro Carillon aveva ottenuto la concessione per svolgere un laboratorio di clownerie,
improvvisazione e giocoleria. Non nascondo la gioia per quella richiesta, ma non sapevo
ancora che quella esperienza sarebbe stata determinante per la mia tesi e che la mia gioia era
destinata ad aumentare. Quello che mi rendeva felice erano inizialmente due cose, la prima il
fatto che dovessi insegnare della giocoleria a dei bambini (io adoro la giocoleria, il teatro di
strada e lavorare con i bambini), la seconda il fatto che avrei rivisto la scuola dove io avevo
frequentato i cinque anni delle elementari. Ricordo perfettamente che quel giorno sono
arrivato con largo anticipo in modo da poter riguardare, dopo tanto tempo, con nostalgia e
ammirazione, il luogo della mia prima formazione scolastica.
Dopo aver scrutato con stupore ed attenzione i miglioramenti apportati all’edificio, mi sono
diretto verso la palestra dove avrei dovuto tenere il corso ed ho aspettato che suonasse la
campanella e che arrivassero i bambini ai quali i genitori avevano accordato il permesso.
Passati pochi minuti, i bambini cominciarono ad entrare ed è proprio in quel momento che ho
avuto l’illuminazione per specificare l’argomento della mia tesi. Infatti, tutti i bambini
presenti al corso erano extracomunitari, marocchini, albanesi, cinesi e addirittura una
nigeriana. Non potevo crederci, le motivazioni della mia gioia erano passate da due a tre:
tenere un corso per bambini, rivedere un luogo della mia infanzia e sapere finalmente su cosa
dirigere la mia tesi.
6
Il mio interesse per l’immigrazione, il corso svolto ai bambini extracomunitari nella scuola
dove io avevo iniziato il mio percorso scolastico, in un periodo in cui era numerosa la
frequenza di bambini che, come me, erano figli di immigrati meridionali e, ovviamente, la
consapevolezza di un rinnovato interesse dell’antropologia riguardo l’immigrazione interna,
oltre a quello già presente per l’immigrazione extracomunitaria documentato da libri letti per
gli esami universitari, mi hanno convinto a indirizzare la mia ricerca verso la migrazione
infantile e verso un tentativo di confronto tra le due migrazioni, considerando che, seppur
diverse, le due immigrazioni possono avere dei punti in comune.
La realizzazione di questo lavoro è stato l’ultimo atto di un percorso, lungo il quale ho avuto
l’aiuto e il sostegno di molte persone.
Ringrazio il prof. Pier Paolo Viazzo per la sua disponibilità e Carlo Capello per i suoi preziosi
consigli. Ringrazio Mauro e Antonella del Teatro Carillon per aver reso possibile l’ispirazione
ad iniziare il mio lavoro e per aver favorito il mio contatto con la Dirigenza della Pestalozzi.
Fondamentali nella mia ricerca sono stati gli aiuti delle maestre della scuola. In particolare
ringrazio la Dirigente Nunzia de Vento per avermi consentito l’accesso ad ogni area della
scuola, la maestra Vanda per la sua accoglienza e gentilezza, la maestra Erika per avermi
facilitato il contatto con alcune mamme e la maestra Quattroccolo, Vicaria della Sabin, che mi
ha fornito informazioni preziose per ricostruire la storia della scuola.
Ringrazio Lorenzo e Claudia per il loro appoggio in tutti questi anni e con loro ringrazio tutti i
miei amici che non sto ad elencare, ma che sono stati sempre presenti.
Ringrazio tutti i miei familiari. Le mie nonne che potranno vedere con i loro occhi questo mio
traguardo e i miei nonni che lo vedranno attraverso il mio cuore. Ringrazio il cugino Gianni
che, fino a quando ha potuto, ha sempre creduto in me. Ringrazio tutti i miei zii e zie, cugine e
cugini vicini e lontani. Ringrazio mia sorella Eleonora per avermi sempre incoraggiato.
Inoltre non posso non ringraziare le persone che più di tutte hanno reso possibile la
realizzazione di questo lavoro. Ringrazio mia madre e mio padre per tutto quello che hanno
fatto, per avere creduto in me e per avermi sostenuto e aiutato negli anni.
Infine ringrazio Laura che mi ha sopportato in quest’ultimo anno e mi ha aiutato nei momenti
di maggiore difficoltà, a lei devo i consigli per la grafica del testo e mesi di pazienza.
A tutte queste persone io dico grazie.
7
1. Torino e le migrazioni dai due o più sud
Dal Sud al Nord d’Italia
La forte crescita d’interesse, per i fenomeni migratori nel nostro paese, non può non tenere
conto di una trasformazione che lo ha caratterizzato e che ha fatto sì che l’Italia, da paese
d’emigrazione, sia diventato anche paese di immigrazione. Comunque nonostante l’Italia sia
diventata meta dei nuovi flussi migratori, non solo sono ancora molto numerosi all’estero gli
italiani che si considerano parte di comunità di emigrati, ma continuano a esserci flussi
migratori tra l’Italia e i paesi europei ed extraeuropei. In particolare questi spostamenti
avvengono verso stati occidentali, ma in conseguenza della travolgente estensione della
globalizzazione, si sta diffondendo una sempre più frequente tendenza a favorire scambi
anche con il mondo orientale.
In quanto paese d’emigrazione l’Italia è stata interessata nell’ultimo mezzo secolo da
movimenti migratori sviluppatisi in conseguenza dello sviluppo industriale
4
. A questa
migrazione “esterna“ bisogna però aggiungere la migrazione “interna”, anch’essa orientata dal
Sud al Nord, dalle zone povere alle zone “ricche” dell’Italia, ma caratterizzata rispetto alla
prima da una durata più lunga, una portata più grande e da quello che rappresenta l’aspetto di
maggior rilievo, il suo carattere definitivo.
I venti anni compresi tra il 1955 e il 1975 sono quelli più rappresentativi per quanto riguarda
l’emigrazione dal Sud verso il Centro-Nord dell’Italia e in particolare verso le regioni del
triangolo industriale (Genova, Milano e Torino). Tale tendenza ad emigrare verso aree
industriali è stata confermata da Fofi che scriveva: «Le migrazioni “interne” hanno vocazioni
urbane, ed è alla città e all’industria, che si tende ad arrivare» (1975: 31).
Le aree del triangolo industriale, sono le zone che hanno ricevuto la maggior quantità
d’immigrati a causa del lavoro industriale che esercitava una gran capacità attrattiva anche
grazie all’affermarsi del modello di sviluppo fordista
5
, un metodo di produzione basato sulla
grande impresa, la produzione di massa e che permetteva l’assunzione su larga scala di operai
non specializzati e senza grandi esperienze di lavoro industriale (Castronovo 1987: 260-261).
Le grandi fabbriche, in particolare quelle metalmeccaniche, avevano modificato i metodi
4
La principale direzione è stata quella dal Sud al Nord, dall’Europa mediterranea verso Francia, Inghilterra,
Germania e Svizzera.
5
Il modello fordista fu applicato per la prima volta in Italia, nella metà degli anni Venti nei nuovi stabilimenti
Fiat del Lingotto di Torino che nel secondo dopoguerra subì ampie trasformazioni politiche, economiche
urbanistiche e sociali (Castronovo 1987: 260-261).
8
produttivi e necessitavano di manodopera a basso costo, che fu reclutata utilizzando le masse
provenienti dal Sud, grandi protagonisti dei fenomeni migratori “interni” che dagli anni
Cinquanta agli anni Settanta circa si indirizzarono verso le più grandi città italiane e ne
mutarono il volto.
Il caso più impressionante fu quello di Torino che assorbì una percentuale elevata di
immigrati meridionali passando dai 719.300 abitanti nel 1951 a 1.124.714 nel 1967 (Angeli
L., Castrovilli A., Seminara C. 1998: 11). Bisogna però rilevare come, nei venti anni che
vanno dalla fine degli anni Cinquanta all’inizio degli anni Settanta, gli immigrati che
giungevano a Torino da tutte le regioni del paese erano centinaia di migliaia, e come sostiene
Ramella:
Come è noto, il gruppo numericamente più importante di immigrati a Torino nel
periodo compreso tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta è costituito da chi
proviene dal Mezzogiorno, ma rilevanti sono anche altri gruppi regionali: soprattutto
quello di coloro che arrivano dalle campagne, dalle montagne e dalle città del
Piemonte (2003: 339-340).
Pertanto, è sbagliato collegare i flussi migratori “interni” unicamente agli spostamenti dal
Mezzogiorno, ma è su questi che focalizziamo l’attenzione, proprio perché sono,
quantitativamente e qualitativamente più rilevanti.
Pur riconoscendone la continuità, bisogna ammettere che il flusso d’immigrati dal
Mezzogiorno presenta momenti di rallentamento e d’accelerazione che corrispondono alla
dinamica della domanda di lavoro industriale. Inoltre si deve ricordare che le condizioni di
vita e d’inserimento degli immigrati meridionali nelle regioni del Nord cambiano sia nel corso
degli anni sia da una regione all’altra: una delucidazione sulle condizioni degli immigrati
nelle prime fasi ci è offerta da Goffredo Fofi in una postfazione nella seconda edizione del
suo studio sull’immigrazione meridionale a Torino degli inizi degli anni Sessanta;
Artefici del miracolo, i contadini del Sud - manodopera il cui basso prezzo ha
permesso il decollo del neocapitalismo come fattore determinante, essenziale -
dovettero accettare il loro intensivo sfruttamento in condizioni sociali e di lavoro
spaventevoli. Sono gli anni delle “cooperative” di lavoro, forme di subappalto
gangsteristico della mano d’opera immigrata montate da molte industrie per evadere
agli oneri assicurativi; gli anni del “non si affitta a meridionali”; gli anni della
divisione tra operai del Nord e immigrati (1975: 302).
9
Sempre Fofi, così descrive l’arrivo dei meridionali a Torino, evidenziando la tristezza per la
partenza e l’asprezza del viaggio, al quale segue una sensazione di smarrimento e solitudine:
I meridionali arrivavano a Torino con il ”treno del sole”, che parte ugualmente da
Palermo e da Siracusa per unirsi a Messina in un unico convoglio, passa per la
Calabria, la Basilicata, la Campagna, il Lazio, la Toscana e la Liguria raccogliendo
anche i pochi immigrati abruzzesi; oppure con il direttissimo di Lecce, che raccoglie
i pugliesi, la maggioranza dei lucani, marchigiani ed emiliani. I sardi sbarcano a
Genova da Porto Torres, e arrivano a Porta Nuova con uno dei tanti treni che
collegano Torino col porto ligure. Chi ha avuto motivo di viaggiare spesso sul
”treno del sole”, lo ha visto sempre strabocchevole di folla (specialmente, punti
limite, intorno alle ferie estive, a Natale e a Pasqua), e più strabocchevole risulta
dalla quantità di pacchi e valige e dal numero dei bambini che popolano, poiché si
tratta di un treno diverso dagli altri, che non serve a spostamenti provvisori, ma a
spostamenti definitivi di migliaia di nuclei familiari. […] Arriva alle 9: 50 d’ogni
giorno, ma in certi periodi (agosto, Italia ’61, aprile-giugno) ha un suo gemello
altrettanto affollato che lo segue a dieci minuti di distanza. […] Si rivela in genere
come la prima impressione sia piuttosto sulla città che sulla gente, città che appare
talmente differente dal paese da cui si proviene, e spesso anche dalle città già
conosciute.
I viali, il traffico, la gente vestita bene, l’ordine, sono gli elementi che più
colpiscono. Se si arriva d’inverno, però, tutto appare in una luce più fredda, più
impressionante: la nebbia ne è simbolo, l’indice di una estraneità che spaventa
l’immigrato meridionale.[…] Il traffico, il movimento, la gente che va e viene e non
guarda in faccia, non ci si può accontentare soltanto di guardarli. Ben presto il loro
fascino cade, e ci si accorge con paura della indifferenza della città: ci si sente soli,
perduti. È un altro mondo (1975: 98-106).
Per quanto diversificati, i problemi d’integrazione sono stati notevoli dappertutto. Comunque
non si deve dimenticare come alcune strutture di socializzazione abbiano svolto un ruolo
importante nel favorire l’integrazione dal punto di vista sociale ed economico permettendo
anche ai meridionali, con il passare degli anni, di prendere parte attiva alla mobilità sociale:
da una parte alcune strutture associative, come ad esempio i sindacati, hanno svolto un ruolo
notevole «nel permettere la creazione di momenti di unità e di reciproca conoscenza e di
mobilitazione in difesa di interessi comuni» (Pugliese 2002: 52), dall’altra parte la diffusione
della scolarizzazione di massa che «ha radicalmente accorciato le distanze culturali e
permesso anche un certo grado di mobilità sociale» (Pugliese 2002: 52).
10
Come ci testimonia la storia successiva e l’attuale situazione, anche grazie agli interventi di
queste strutture di socializzazione le condizioni “spaventevoli” e, in molti casi, umilianti
dell’immigrazione furono gradualmente superate, ma è senza dubbio utile richiamarle alla
memoria e mantenerle presenti nel momento in cui si fa riferimento alla nuova immigrazione
e agli stereotipi di cui essa è vittima, che riprendono quelli che in passato erano attribuiti ai
meridionali.
Dal “Sud del mondo” all’Italia
Nel corso della seconda metà dello XX secolo l’Italia si è trasformata - come si è detto - da
“paese di emigrazione” in “paese di immigrazione”. L’inversione di tendenza viene di solito
individuata nel 1973, anno in cui il numero degli ingressi supera per la prima volta quello
delle uscite. A ben vedere in questo periodo gli “immigrati” erano in gran parte emigrati
italiani che tornavano a casa, ma non vi è dubbio che nello stesso decennio iniziassero ad
arrivare “flussi di migranti” da paesi del Terzo Mondo.
Questo cambio di direzione si verifica in Italia a causa della chiusura delle frontiere da parte
di quei paesi europei come Germania, Gran Bretagna e Francia che, dalla fine della Seconda
Guerra Mondiale, avevano favorito e incrementato l’immigrazione di lavoratori dai paesi del
sud del mondo.
La ricostruzione e la crescita economica che seguirono il secondo conflitto mondiale crearono
le condizioni per l’inserimento di molti lavoratori stranieri nelle strutture produttive di quei
paesi. Infatti, «negli anni Cinquanta e Sessanta, l’immigrazione assunse un ruolo importante
di sostegno alla crescita produttiva, garantendo quella disponibilità di forza lavoro resa
necessaria dai vuoti provocati dalla guerra e dalla bassa natalità degli anni Trenta e favorendo
in molte situazioni la mobilità ascensionale dei lavoratori locali» (Brusa 1997: 142).
I paesi dell’Europa, in piena espansione, firmarono accordi con i paesi poveri dell’Africa e
dell’Asia, definendo l’invio di lavoratori, che di solito erano giovani maschi destinati ad
ampliare i gruppi di operai non qualificati delle industrie europee. Dagli anni Sessanta si
blocca in Europa la crescita economica realizzatasi negli anni precedenti, e i paesi che
avevano favorito l’”importazione” di lavoratori stranieri per mezzo di una legislazione
appositamente studiata, cominciano a mettere in atto misure restrittive al fine di negare
l’ingresso regolare ai cittadini provenienti da paesi extraeuropei.
Da questo momento la geografia delle migrazioni internazionali è ridisegnata e l’Italia, priva
di una normativa specifica, pur restando, per quel che riguarda il Sud, “paese di emigrazione”
11
si trasforma in “paese di immigrazione”. L’Italia quindi fa la sua prima esperienza per quel
che riguarda l’”immigrazione extracomunitaria” nel momento in cui, nei vari paesi europei
più industrializzati, stanno avendo luogo politiche di chiusura.
L’Italia diventa meta di flussi migratori con le stesse modalità e per gli stessi motivi
per cui lo diventano gli altri paesi del Sud d’Europa (o della sponda settentrionale
del Mediterraneo). A trasformare questi paesi in aree di immigrazione
contribuiscono i processi di internazionalizzazione e globalizzazione del mercato del
lavoro e dell’economia, ma anche gli scambi culturali che fanno registrare
un’indubbia intensificazione a partire da quegli anni (Pugliese 2002: 76).
Ai movimenti migratori, che avevano interessato il nostro paese in passato, si aggiungono
flussi di immigrati che scelgono l’Italia come meta, temporanea o definitiva per il loro
trasferimento. L’Italia, infatti, non solo diviene paese d’immigrazione ma anche di “transito”,
poiché man mano che l’Europa svolgeva il suo processo di integrazione, il nostro paese
diventava un canale per entrare in Europa.
Nei primi anni Settanta sono segnalati i primi arrivi di lavoratori dal Terzo Mondo. Questi
lavoratori hanno composizione etnica, lavorativa e di genere, differente: gli immigrati tunisini
vengono impiegati nei lavori agricoli, mentre il flusso di immigrati provenienti dall’America
Latina, dall’Asia o da ex colonie italiane, costituito soprattutto da donne, veniva impegnato
nei lavori domestici.
Gia all’inizio degli anni Settanta il Ministero degli interni segnalava la concessione di
170.000 permessi di soggiorno (Bonifazi 1997: 39), ma l’Italia e gli italiani si riconoscono
paese d’immigrazione solo verso la metà degli anni Ottanta, quando i permessi di soggiorno
sono già 400.000 e i dati dell’Istat del 1987 indicano che coloro che arrivano in Italia sono più
numerosi di coloro che lasciano il paese.
Per quel che riguarda Torino negli ultimi trent’anni, si sono susseguite diverse ondate
migratorie con motivazioni e stimoli diversi, e bisogna segnalare come anno di svolta il 1976,
quando i cittadini non europei iscritti all’anagrafe (stranieri residenti) superano gli iscritti
provenienti dai nove paesi CEE.
In questa prima fase gli stranieri residenti si possono suddividere in cinque gruppi:
• Studenti, per la maggior parte iraniani.
• Nordafricani che usavano l’Italia come punto di snodo per altre mete.
• Rifugiati politici cileni, iracheni e palestinesi.
12
• Lavoratori jugoslavi, egiziani e cinesi.
• Lavoratrici somale, eritree e filippine
6
.
Alla fine degli anni Ottanta le comunità più numerose erano quella marocchina e quella
senegalese, costituite per lo più da giovani maschi soli con un progetto migratorio
provvisorio mirato a raggiungere una solidità economica che permetta loro di rientrare al più
presto nel loro paese d’origine e che portava questi primi immigrati a respingere, o meglio a
considerare facoltativa, l’integrazione nella società d’accoglienza. Nella maggior parte dei
casi questi primi migranti si stabiliscono nelle grandi città per lavorare e in particolare in
quartieri degradati dove possono trovare sistemazioni poco dispendiose, non si creano una
famiglia in Italia né tentano di ricongiungersi nel nostro paese con i familiari (mogli o figli)
lasciati nel loro paese. Il loro principale interesse è risparmiare e accumulare quanto più
denaro possibile per poter tornare a casa.
Un cambiamento nella politica migratoria italiana si ha con la Legge Martelli n° 39/1990 la
quale avvicina il nostro paese agli altri stati europei che avevano gia regolamentato
l’ingresso dei cittadini extracomunitari, erigendo per la prima volta barriere agli ingressi in
Italia da parte di cittadini stranieri e istituendo il permesso di soggiorno (Pugliese 2002).
Nel 1991 l’anagrafe di Torino conta 14.047 stranieri iscritti, di cui solo 2.638 provenienti
dall’unione europea e ben 5.236 dal continente africano, di cui 3.774 provenienti dal
Maghreb (Marocco, Tunisia, Algeria, Mauritania ed Egitto).
Negli ultimi anni dal 1996 ad oggi si è verificata un’inversione di tendenza per quel che
riguarda i progetti migratori, tanto che questo periodo può essere definito come una fase di
stabilizzazione. Il progetto migratorio prende una connotazione definitiva interessante alla
luce delle teorie transnazionaliste e la tendenza degli immigrati è di ricostruire a Torino una
struttura sociale a partire proprio dal nucleo familiare.
Gli indicatori di questo processo di stabilizzazione degli stranieri nel contesto sociale
torinese sono:
• l’aumento dei ricongiungimenti familiari e dei permessi di soggiorno
per motivi di famiglia;
• l’incremento dei bambini stranieri nati in Italia;
• l’assestamento verso il basso del numero di arrivi;
6
Dati rinvenuti sul sito del centro interculturale di Torino www.comune.Torino.it nella sezione dedicata
all’immigrazione.
13
• i matrimoni misti;
• la delocalizzazione della popolazione extracomunitaria dalle aree
metropolitane alle periferie e valli.
• il riequilibrio tra i sessi nelle comunità straniare con una conseguente
“femminilizzazione” della popolazione immigrata;
• l’aumento degli studenti stranieri nelle scuole elementari, medie, e
superiori.
Per anni l’immigrato è stato considerato un soggetto adulto e senza famiglia al seguito,
“visitatore” temporaneo le cui radici si trattenevano nel suo luogo d’origine, a sua volta
considerato un altrove culturale oltre che geografico e a cui il migrante desiderava
ricongiungersi una volta realizzati i “propri progetti migratori”.
Negli anni Novanta è iniziato un processo di sedentarizzazione degli immigrati con tutte le
conseguenze ad esso collegate: ricongiungimenti familiari, formazione di nuove famiglie
ecc. In conseguenza di questi processi di stabilizzazione e di tutte le loro ripercussioni si
può concludere che l’immigrazione sta cambiando, sia per ciò che riguarda la sua natura sia
per ciò che concerne il suo ruolo, ma bisogna aggiungere che queste trasformazioni non
riguardano solo il paese d‘accoglienza bensì anche quello d‘origine.
2. Transnazionalismo di ieri e di oggi
La ricerca antropologica sulle migrazioni ha una storia ormai più che trentennale, non è quindi
difficile comprendere perché proprio l’antropologia abbia fornito alcuni degli strumenti
metodologici e teorici basilari nei lavori sulle migrazioni, tra i quali la nozione di social
network, inventata da John Barnes e Clyde Mitchell, ed elaborata da diversi esponenti della
Scuola di Manchester, il concetto di “confine etnico”, per il quale è stato fondamentale il
contributo di Fredrik Barth, e la “considerazione strumentale dell’identità” proposta da Abner
Cohen in riferimento a situazioni di competizione per le risorse politiche ed economiche.
Non c’e dubbio che, pur non essendo analisi totalmente incentrate sui flussi migratori, i lavori
di Mitchell, di Barth, di Cohen e di molti altri restano contributi fondamentali per gli studi sui
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fenomeni migratori, ma a questi vanno aggiunti ulteriori apporti forniti da successive analisi
antropologiche, rivolte specificamente sui processi migratori.
Negli ultimi anni l’approccio che più è stato preso in considerazione per tali processi è quello
transnazionalista, inizialmente utilizzato per colmare i sempre più evidenti limiti negli studi
sull’immigrazione negli Stati Uniti e successivamente adottato nel contesto europeo e italiano.
Il transnazionalismo, in quanto processo sociale attraverso il quale i migranti effettuano un
attraversamento di barriere e confini, enfatizza l’affioramento di un procedimento nel quale i
migranti operano in dimensioni sociali, economiche e culturali che “trasgrediscono” i confini
politici, culturali e geografici (Glick Schiller, Basch e Szanton Blanc 1995). In tale processo, i
migranti definiscono i propri interessi, prendono decisioni, creano relazioni e reti e compiono
attività in questa dimensione inter-spaziale.
Il ruolo principale che tale paradigma ha avuto è quello di avere provocato una svolta negli
studi migratori, per cui si è passati dal considerare il soggetto migrante come un individuo
spaesato, senza radici e che abbatte ogni ponte con il paese d’origine, nella speranza di
realizzare il suo obbiettivo di integrarsi nella società d’accoglienza, al reputare lo stesso
migrante come un individuo che si inserisce nel nuovo paese, conservando legami con la terra
natia, e «anche con altri paesi e porzioni della diaspora migratoria di cui è parte» (Sacchi e
Viazzo 2003: 15). Si è verificata quindi una transizione dalle immagini degli immigrati a
quelle dei “trasmigranti”, vale a dire «migranti le cui vie quotidiane dipendono da molteplici e
costanti interconnessioni che attraversano i confini nazionali e le cui identità sono configurate
in relazione a più di uno stato-nazione» (Glick Schiller, Basch e Szanton Blanc 1995:48).
A tale proposito, risultano significative le osservazioni di Ugo Fabietti che, sempre in
riferimento agli individui soggetti ai flussi migratori, sottolinea la precedente tendenza ad
interpretare i loro spostamenti e le loro decisioni di emigrare nei termini del “paradigma
dell’emigrante”:
Per cogliere le realtà culturali odierne “in movimento” dobbiamo cercare di
sbarazzarci di qualche modo di pensare consolidato. Potremmo ad esempio
osservare che, quando si parla del fenomeno dell’immigrazione dal Terzo Mondo
o, più in generale, dei fenomeni migratori, si ha la tendenza a considerare gli
individui interessati come degli “emigranti”, secondo un’immagine che ci è
familiare in quanto parte della recente storia europea. Pensiamo cioè ai migranti
come a individui che decidono di, o che sono costretti a, stabilirsi, quasi sempre
definitivamente, nel territorio del paese ospite (2000:181).