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INTRODUZIONE
Attraverso un’indagine micro-sociologica volta a scomporre i latenti rituali insiti nelle
performance di Hermann Nitsch e Marina Abramovic, con tale elaborato si intende individuare
quali sono le caratterizzazioni che assumono le tre dimensioni che partecipano alla definizione
dell’opera d’arte, ossia produzione, mediazione e ricezione, sulla base dell’impianto teorico
fornito da Nathalie Heinich (2004).
L’ambito della produzione dell’opera d’arte coinvolge la figura dell’artista e la sua facoltà
creativa, che vengono definiti ambedue dal riconoscimento sociale ottenuto dai mondi dell’arte,
i quali permettono la loro integrazione negli stessi. La personale poetica assunta dall’artista
determina la realizzazione del prodotto finale, che, come si vedrà analizzando i due performer,
subirà processi di sviluppo differenziati, per adeguare l’opera sia all’evoluzione individuale del
produttore, sia ad esigenze più sociali.
Per quanto riguarda la mediazione, invece, ci si riferisce all’intero set di figure istituzionali –
musei, finanziatori, collezionisti, critici – incaricate di favorire il contatto tra l’opera e i fruitori,
assumendo una significativa influenza sociale, anch’essa basata sulle convenzioni artistiche
imposte dai mondi dell’arte.
Infine, la sfera della ricezione comprende la comunità dei fruitori, gli spettatori o i partecipanti
che contemplano l’opera o interagiscono con essa, a seconda delle possibilità offerte dal
performer e dalla cornice di riferimento. Il pubblico può assumere diversa morfologia a seconda
del frame e del contesto situato che si attua, accogliendo in maniera variabile l’opera a cui
assiste, sulla base dei numerosi e differenziati fattori che ne condizionano le opinioni e il
giudizio – come, ad esempio, fattori culturali, valoriali, normativi, che possono condurre a
sanzionare positivamente o negativamente l’artista per aver rispettato o meno le aspettative.
Le tre dimensioni vengono presentate ed esplicate separatamente, tuttavia, si sottolinea il loro
carattere assolutamente complementare, che sfocia in una loro intersezione, sovrapposizione e
influenza reciproca, nella fase di definizione e costituzione dell’opera d’arte.
Tramite l’analisi empirico-sociologica, ci si vuole focalizzare su un confronto retrospettivo in
grado di mettere in luce le dinamiche sociali instaurate durante le performance scelte,
evidenziando il generale rapporto tra il pubblico, l’opera e l’artista, e la specifica interazione
che prende forma tra Nitsch e il suo team di attori, e l’Abramovic e la sua comunità di
sostenitori, che con il tempo, andranno a ricoprire il ruolo stesso di performer.
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Dapprima, si propongono i due capitoli introduttivi sul genere performativo e la delineazione
degli elementi fondamentali che sorreggono l’impianto del Teatro delle Orge e dei Misteri, al
fine di stabilizzare il quadro di riferimento entro cui si andranno poi a innestare le performance
analizzate.
Le opere, invece, costitutive del nucleo centrale dell’elaborato, sono state selezionate affinché
ricalcassero i medesimi momenti storici, sia per Nitsch, che per Abramovic, influenzati sia dal
diverso grado di consolidamento reputazionale detenuto dai performer, sia dall’accoglimento
della critica e dei mondi dell’arte, in riferimento ad un genere artistico d’avanguardia, come lo
è la Performance Art.
Nell’anno 1974 si espongono nella ribalta artistica e sociale 45.aktion di Hermann Nitsch e
Rhythm 5 di Marina Abramovic, due opere rette da due progetti creativi differenti, il primo
volto ad uno sconfinamento della realtà terrena e materiale, il secondo impregnato di una sentita
funzione storico-sociale.
Intorno agli anni 2000, invece, si attuano 96.aktion (Nitsch, 1996) e The House with the Ocean
View (Abramovic, 2002), introducendo nella scena un’esaltazione dell’elemento spirituale e
catartico soprattutto per ciò che concerne l’opera di Marina Abramovic, che manifesta
un’evoluzione più esplicita nella forma e nelle semantiche auspicate.
Infine, si procederà con l’analisi di due performance svoltesi entrambe nel 2012, ossia
135.aktion e The Abramovic Method, azioni performative che riflettono e propongono un
estremo grado di elevazione ascetica, in cui si mettono in radicale discussione anche i principi
formalizzanti che definiscono il rapporto con la ricezione.
La decisione di comparare i due artisti nasce, oltreché da un personale interesse, dalla volontà
di esaminare quali differenze e quali similitudini si instaurano tra due schemi artistici così
apparentemente diversi, anche alla luce dei processi di sviluppo che hanno investito le poetiche
e gli impianti progettuali dei due performer.
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Capitolo primo
IL GENERE ARTISTICO DELLA PERFORMANCE ART
La Performance Art si rivela come il risultato di una successione di influenze artistiche e
culturali, le quali a partire dai generi d’avanguardia e dagli accadimenti sociali novecenteschi
si intrecciano e danno forma ad una rete di nuove concettualizzazioni e nuove sperimentazioni.
The year 1968 prematurely marked the beginning of the decade of the seventies. In that
year political events severely unsettled cultural and social life throughout Europe and
the United States. The mood was one of irritation and anger with prevailing values and
structures. While students and workers shouted slogans and erected street barricades in
protest against “the establishment”, many younger artists approached the institution of
art with equal, if less violent, disdain. They questioned the accepted premises of art and
attempted to re-define its meanings and function. Moreover, artists took it upon
themselves to express these new directions in lengthy texts, rather than leave that
responsibility to the traditional mediator, the art critic. (Goldberg, 1979, p. 98)
L’eredità del Futurismo, del Dadaismo e del Surrealismo, movimenti che si impongono nel
contesto sociale e artistico con ideali di ribellione e rifiuto delle convenzioni più tradizionaliste,
sfocia nel progressivo consolidamento di forme d’arte sempre più immateriali, tanto da
scardinare anche l’assunto mercificante dell’arte.
Tra gli anni ’50 e ’60, negli Stati Uniti, si comincia a parlare di Happenings, termine coniato
da Allan Kaprow nel 1959, con riferimento ad un’innovativa forma di espressione artistica
basata su esibizioni teatranti e una nuova concezione dell’opera d’arte, non più intesa come
prodotto materiale e statico, bensì come evento, svolto di fronte a un pubblico, tramite l’utilizzo
del proprio corpo e di strumenti atti a comporre la cornice performativa.
Sarà proprio l’accezione azionistica introdotta nella sfera artistica a motivare la genesi del
movimento Fluxus a metà degli anni ’60, un collettivo internazionale di artisti che fondano il
loro operato su un sincretismo di espressioni dematerializzate e visuali dell’arte, tanto da
ostacolare qualsiasi tentativo della critica di categorizzare entro confini definitori rigidi il
genere dell’arte concettuale.
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La storia della Performance Art riflette i mutamenti dell'arte contemporanea in un
alternarsi di forme di rivolta e sperimentazione che hanno inizio con le Avanguardie
Storiche. […] Carol Simpson Stern e Bruce Henderson (1993) sintetizzano in otto punti
alcune [di queste] caratteristiche:
- espressione di istanze anti-establishment, provocatorie, non convenzionali,
- opposizione a ogni forma di mercificazione dell'arte,
- multimedialità, commissione di tecniche e di generi artistici differenti,
- interesse per il collage e per l'assemblaggio,
- utilizzo di materiali “trovati” e di materiali “costruiti”,
- giustapposizioni inusuali,
- interesse teorico per le nozioni di gioco e parodia, gusto per la trasgressione delle
regole,
- struttura aperta delle opere.
(Toscano, 2011, p. 34)
La smaterializzazione del prodotto artistico permette il dispiegarsi di due questioni in
particolare, la prima di carattere concettuale e finalista rispetto all’ontologia dell’opera
proposta, mentre la seconda di carattere più socio-economico.
Da un lato si sottolinea come la nuova forma assunta dalla reificazione dell’idea dell’artista
porti con sé anche una modificazione di tipo sostanziale, relativa al senso e ai significati intrisi
nell’opera. Quest’ultima fonda la sua condizione di esistenza sul tentativo reificatorio di
un’idea, di un’esigenza interiore dell’artista-performer, di un interrogativo profondo che
rimanda alla dimensione più spirituale dell’essere. Attraverso la strumentalizzazione del corpo
e l’interazione con il pubblico si punta alla sperimentazione e alla trasmissione di nuove realtà,
dapprima appartenenti alla sfera psichica, sottoforma di indagine identitaria, per poi sfociare
nell’esigenza di un’ascesi animica, extra-corporea.
La forma dell’opera si fonde con il suo contenuto sociale e politico e con la dimensione
dell’autorialità. Nell’ibridazione di arti visive, teatro, danza, musica, poesia che la
performance inevitabilmente promuove, anche la dimensione della ritualità è recuperata.
La performance, in altre parole, fa proprie molte riflessioni antropologiche sul rito e sul
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teatro, e sul ruolo del performer […]. L’artista si confonde con lo sciamano, acquisendo
una funzione sociale e un’aura quasi religiosa. (Teggi, 2020, p. 23)
Da questo punto di vista, anche il ruolo dell’artista cambia, come il suo prodotto. La figura del
performer si vede incaricata di ottemperare ad altre funzioni, associate al ruolo di mediatore tra
la dimensione terrena e ultraterrena, per poi consolidarsi ed essere riconosciuto, durante
performance che veicolano tali contenuti, come un’icona religiosa, dotata di un’aura sacrale in
grado di contagiare gli astanti motivati ad assorbire tale energia emotiva e spirituale.
È all’interno dei processi di cambiamento storico e sociale che questi eventi estetici si
collocano come momento di indagine profonda del sé. Si assiste alla messa in
discussione della soggettività, attraverso i movimenti liberatori, attraverso la filosofia,
le ricerche culturali e psicoanalitiche. Per molti artisti il corpo nudo diventa un materiale
vivente da plasmare, il territorio privilegiato per una ricerca di nuove identità, il sé da
esplorare e mettere alla prova, il materiale e lo strumento primario del loro stesso lavoro.
Gli artisti scelgono quindi di rigettare l’oggettivazione e la mercificazione dell’oggetto
d’arte per trasformare l’arte in spazio, tempo e azione. (Fioravante, 2014, p. 73)
La concettualizzazione dei contenuti artistici, oltre a favorire l’avanzare di una nuova modalità
di fruizione e a far crescere nel pubblico performativo l’esplicita necessità di ricercare nel
contatto con l’arte un’esperienza catartica, produce conseguenze anche dal punto di vista
politico ed economico.
Uno dei presupposti portati avanti dagli esponenti dell’arte immateriale è proprio un agire
ostacolatorio nei confronti della tendenza capitalistica mercificante.
La strategia per opporsi alla mercificazione dell'arte operata dalle grandi organizzazioni
era quella di creare un'arte priva di oggetto, che non fosse collezionabile né vendibile.
(Toscano, 2011, p. 37)
Ecco che, l’arte concettuale e in particolare la Performance Art, con il suo carattere effimero e
situato in un preciso qui ed ora, manifesta la sua funzione prettamente sociale, rendendosi
invendibile, eccetto per eventuali manovre di documentazione – anche se di fatto non
costituirebbero la diretta monetarizzazione dell’azione, del corpo dell’artista e del vissuto che
offre ai partecipanti nel momento in cui si attua.
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Da ciò emerge anche la questione relativa al valore monetario della Performance, che non
producendo oggetti tangibili, mette in discussione il sistema di classificazione economica
dell’opera d’arte e causa difficoltà definitorie nella scelta dei criteri di valutazione non solo del
valore del prodotto, ma anche dei requisiti affinché un’artista sia riconosciuto come tale,
rivoluzionando le già istituzionalizzate convenzioni artistiche.
Negli anni 60 l’economia occidentale cresceva a gonfie vele, la guerra fredda si andava
scongelando verso la coesistenza e concorrenza pacifica tra mondo “libero” e mondo
“comunista”, e l’astrazione e la pop art erano divenute ormai le due principali forme
d’arte ufficiale dell’establishment capitalista. […]
Il nemico ora è la mercificazione dell’arte, la sua trasformazione in oggetto
d’arredamento per i ricchi e in occasione di profitto per i vari operatori del sistema. Il
nome che si dà all’insieme di tentativi esplorati, con particolare intensità nel decennio
1965 -75, per rompere con quel tipo di arte è “concettualismo”. L’idea comune a tali
tentativi è che l’essenza dell’arte non è l’opera, l’oggetto materiale, ma il concetto che
vi sta dietro, l’idea, la teoria. Di conseguenza, la qualità dell’artista non si misura dalle
sue abilità tecniche, manuali, cioè dal suo mestiere; ma in primo luogo dall’importanza
intrinseca del suo messaggio e solo in secondo luogo dall’efficacia con cui sa
esprimerlo. (Strassoldo, 2010, p. 305)
Con il tempo, la comparsa preponderante e rivoluzionaria della Performance ha catturato
l’interesse di numerosi autori e stimolato lo studio di tale fenomeno, anche in ambito
sociologico e antropologico.
Richard Schechner è riconosciuto come il fondatore dei cosiddetti Performance Studies, volti
all’indagine teorica della Performance e delle sue connotazioni culturali.
I caratteri dei rituali proposti in ambito performativo artistico sembrano innestarsi
opportunamente con l’analisi empirica sociologica, dal momento in cui la produzione di tale
corrente implica una serie di possibilità interazionali molto più ampia e densa, rispetto ai generi
artistici tradizionali.
Le molteplici relazioni che si instaurano con la dimensione temporale e spaziale, con il
pubblico, con il corpo stesso dell’artista, che può delinearsi sia come opera compiuta, sia come
strumento di realizzazione e di creazione, tramite cui è possibile dare forma ad una sequenza
azionaria, determinano il sorgere di nuovi quesiti e dibattiti, concernenti l’esigenza di elaborare
una più adeguata definizione di opera d’arte e di identificare gli aspetti ricorrenti che
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caratterizzano la corrente artistica, al fine di comprenderla, categorizzarla e, dunque,
istituzionalizzarla.
In effetti, come qualsiasi neo-movimento, le prime apparizioni performative sulla scena
pubblica faticano a consolidarsi e ad essere riconosciute come integrate dai mondi dell’arte. Si
tratta di una condizione assolutamente prevista, a maggior ragione se la forma d’arte proposta
si propone volontariamente e consapevolmente come arte anti-establishment, come opposizione
radicale alle convenzioni del campo artistico. In un certo senso, la legittimazione e
l’istituzionalizzazione dell’arte concettuale e performativa venivano drasticamente rifiutate
dagli esponenti del movimento, che auspicavano, invece, ad un’identità ribelle – sebbene,
personalmente, ritenga che anche quest’ultima accezione fosse in qualche maniera considerata
inopportuna, dato che si tratta comunque di una forma di classificazione.
Ad ogni modo, sociologi e antropologi riconoscono nella Performance Art una nuova
opportunità di approfondire e ampliare la conoscenza.
Una prima e spontanea domanda di ricerca che sorge riguarda la distinzione tra azione
performativa e azione teatrale.
Nonostante vi siano elementi che accomunano le due dimensioni, come la presenza di una
ribalta e di un retroscena, di una platea di spettatori, di un possibile attore che comunica tramite
il proprio agire – si può dire che la Performance scelga di adottare la struttura scenica che regge
il teatro – emergono delle differenze sostanziali tra le due arti.
Innanzitutto, ciò che appare più immediato notare è la differenza tra realtà e finzione. Se
nell’opera teatrale la messa in scena è recitata e gli artefatti utilizzati sono fittizi (come il sangue
o le armi), nella Performance Art si ha a che fare con atti realmente vissuti e affrontati
dall’artista, che, nel caso di azioni masochistiche, infligge ferite sul proprio corpo, senza filtro
alcuno. La sofferenza, il dolore, il grido si materializzano sulla ribalta come reazioni autentiche
alla manipolazione cruenta del corpo.
Un ulteriore elemento che distingue il teatro dalla Performance è la presenza del copione, il
quale nell’opera teatrale assume ruolo centrale, totem simbolico e indiscutibile, istituzione che
detta le norme di esecuzione dell’atto, senza il quale l’opera recitativa non si compirebbe.
Nella Performance Art il concetto stesso di copione viene accantonato. Il progetto segue l’idea
e gli obiettivi ultimi dell’artista, a cui cerca di adempiere al fine di diffondere i propri significati
anche se la sequenzialità degli avvenimenti viene lasciata aperta. Si prestabiliscono dei rituali,
ci si organizza preventivamente reperendo gli oggetti di scena necessari, ma l’imprevedibilità,
data anche dall’incerta reazione che può esprimere il pubblico nel momento in cui assiste, fa da
padrona – nonostante ciò, si sottolinea come in realtà nemmeno la previa decisione progettuale
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è da intendere come regola in assoluto. Sta sempre all’artista in questione e al suo intento
creativo decidere cosa proporre in scena, quali strumenti utilizzare, o se, effettivamente,
presentarsi egli stesso.
I sensi acquistano una funzione centrale e il performer deve accettare una condizione di
disorientamento, che tuttavia non deve sfociare nell’improvvisazione. Egli viene
condotto dal flusso delle sue sensazioni, che ha il compito di strutturare, dando luogo ai
meccanismi percettivi di operator and spectator [Valentini, 2016, p. 37]. Dato che
recitare rimane sempre un comportamento “costruito”, secondo Schechner, il training
necessario per diventare performer implica l’atto di memorizzare una partitura fatta di
gesti e di suoni, di schemi e di movimenti. Si è dunque di fronte a tre fasi: la
disgregazione in cui il soggetto supera le proprie resistenze, la costruzione in cui i
frammenti di comportamento si uniscono alle capacità del soggetto e la collaborazione
che permette di mettere in scena il comportamento. Lo spettatore viene inteso, dunque,
come «colui che ricostruisce un oggetto, lo fa rivivere e lo rinnova» [Valentini, 2016, p.
36]. Il performer, infine, raggiunge uno stato di liminalità in cui confinano arte e vita.
La performance, come il teatro, costituisce un luogo dove esperire e osservare, uno
spazio che non deve essere scena, bensì un environment non prestabilito che determina
la natura dell’evento cui si presta. (Teggi, 2020, p. 25)
Anche la presenza del pubblico si attualizza in maniera diversa, sebbene, superficialmente,
possa apparire come una presenza similare.
Il confine tra palcoscenico e platea che viene imposto dal teatro è assolutamente rigido. Salvo
situazioni previste dal copione, non è fornita la possibilità agli spettatori di invadere lo spazio
dell’azione teatrale ove risiedono gli attori, al che si produce un’evidente asimmetria di status
tra i due gruppi, che pone l’audience su di un piano inferiore a cui è destinato un margine
circoscritto di azione prettamente passiva. Lo spettatore è definito come tale proprio perché le
attese nei suoi confronti riflettono l’esclusiva concessione di osservare, di comunicare
certamente un certo feedback, ma senza possibilità di interagire direttamente con gli attori o di
entrare a far parte dell’opera. Si pensi, appunto, alla struttura delle sedute presenti all’interno
di un teatro: inchiodate a terra, che ostacolano la mobilità e gli spostamenti, a segnalare
chiaramente i limiti invalicabili entro cui il pubblico deve sostare, fino alla fine dell’evento.
Durante una performance art è richiesta una modalità diversa di fruizione dell’opera e di
interazione con essa e con l’artista. A seconda del progetto performativo ideato dal performer i
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confini e le norme spaziali che suddividono l’atto, dall’audience, variano, assumono forme
sempre diverse, talvolta durante il medesimo evento, in linea con lo scopo ultimo della
performance a cui si assiste.
È grazie all’organizzazione dello spazio e alla presenza o assenza di determinati artefatti che ne
emerge una certa definizione dell’evento, la quale è sia effetto, sia causa dell’ambiente e della
cornice che viene proposta. Le modalità con cui la performance viene interpretata e riconosciuta
collettivamente comporta la conseguente elaborazione identitaria dell’opera stessa, oltreché
della funzione e del ruolo dell’artista e del pubblico presente.
Il riposizionamento fisico del pubblico ha un effetto molto più incisivo del classico
“sfondamento della quarta parete” proprio delle convenzioni teatrali e provoca, inoltre,
un'inversione di ruoli ponendo il pubblico sul palco e il performer nella posizione
dell'osservatore. (Toscano, 2011, p. 88)
Toscano (2011) centra il nucleo che sta alla base della distinzione tra teatro e Performance. Se
nell’opera teatrale subentra un confine simbolico immaginario comunemente riconosciuto dagli
spettatori, che rimarca con autorità la separazione degli ambienti e delle norme d’azione cui le
due fazioni – quella degli attori e quella del pubblico – devono attenersi, al fine di non ledere
l’ordine che regge il framework, durante la performance si assiste ad una fluidificazione degli
spazi, arbitrariamente stabiliti dall’artista leader della situazione, che si pongono
istituzionalmente sulla scena solamente con valenza effimera e contingente. Senz’altro, il luogo
in cui viene ospitata la performance stabilisce un macro-livello di norme spaziali, a cui anche
il performer deve sottostare, come le leggi previste dal luogo museale, o da uno spazio pubblico
all’aperto – anche se quest’ultimo può essere scelto dall’artista appositamente per scardinare le
norme vigenti che lo regolano, proprio come critica sociale consapevole – ma il micro-frame
entro cui gli spettatori specifici si ritrovano a circondare l’azione viene gestito a discrezione
dell’artista, che esercita in tale maniera il suo potere sociale e il suo capitale simbolico.
Il museo, al contrario, diventa la frontiera del bello generico sigillato dalla sequenza
esposta di “capolavori”, luogo blindato da un alto tasso contemplativo del pubblico che
degusta la propria conferma nella tradizione sospesa alle pareti.
Per questo il museo è ancora un luogo di calca calma. Gioconda o Guernica, l’arte
catalizza attenzione, silenzio e ammirazione. Il pubblico generalizzato in folla viene
tranquillizzata dalla istituzione stessa, il museo, favoloso deposito della storia garantita
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in collezione che, per contattare il presente, fa prevalere l’Evento che documenti
l’attualità della ricerca. (Bonito Oliva, nd)
Il museo, per com’è generalmente inteso, è luogo di esposizione di opere d’arte statiche, anche
se negli ultimi anni si è aperto alle performance.
Inizialmente, coerentemente con le convenzioni artistiche più tradizionaliste, lo spazio museale,
in qualità di istituzione dell’arte, si è reso renitente nell’ospitare forme d’arte non integrata e
radicalmente avanguardistica, proprio perché retto da norme, aspettative e requisiti d’accesso,
che stabilivano determinati criteri che ne definivano l’identità e la credibilità. Il mantenimento
del riconoscimento collettivo non teneva conto esclusivamente dei mondi dell’arte e della rete
istituzionale del campo artistico, ma anche dell’approvazione dei pubblici, la cui influenza
determina il suo grado di legittimità – il conservatorismo museale salvaguardava dal rischio di
non essere più riconosciuto come luogo d’arte e di non adempiere più alla funzione garante
attesa dai visitatori, che entravano in un museo godendo di una particolare certezza, data dalla
prevedibilità di ciò che avrebbero contemplato all’interno.
Solo successivamente, con l’approdare del genere artistico performativo sulla scena sociale e
artistica e con il progressivo consolidamento reputazionale dei maggiori esponenti della
Performance Art, anche musei e gallerie si sono fatti inclusivi rispetto a tali opere.
L’impianto normativo che detiene un’istituzione artistica determina dal canto suo anche la
definizione dei pubblici a cui essa è rivolta.
La molteplicità dei gruppi fruitori è dettata non solo dagli interessi e dal capitale culturale
posseduto, che permette la comprensione e il consumo di determinati contenuti artistici, ma
anche dai prodotti e dalle modalità di esposizione che i principali mediatori propongono,
stabilendo a priori i destinatari di quei particolari oggetti d’arte.
Secondo Hauser (1977), la produzione e la ricezione artistica sono strettamente correlate
non solo perché l’artista crea rivolgendosi ad un fruitore, ma anche perché i contenuti e
le forme del suo linguaggio sono configurati in previsione della loro ricezione. Il
pubblico dell’arte non può essere definito come gruppo omogeneo, per il suo carattere
diffuso e amorfo. I motivi di ciò vanno ricercati nelle varie modalità di accesso del
pubblico all’opera: può darsi che questa sia incomprensibile a tutti; può darsi che alcuni
individui la comprendano e altri no; infine ci può essere il caso in cui tutti riescano a
leggerla e interpretarla. (Calligaris, 2005, p. 256-257)
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Bourdieu (1983) propone i concetti di capitale culturale e habitus, tramite cui esplica
l’influenza esercitata dal contesto socio-economico di appartenenza rispetto al gusto per
determinati prodotti culturali e alla loro comprensione. Da questo punto di vista è essenziale
riferirsi ai pubblici e non ad un pubblico esclusivo e generalizzato. Nonostante i tentativi di
democratizzazione dell’arte, continuano a sussistere forme di disuguaglianza sociale che
determina differenti possibilità di accesso rispetto a certe tipologie d’arte (Heinich, 2004). In
tal senso, esistono arti d’élite che non si prestano a tutti i tipi di fruizione, bensì solo ad una
cerchia scelta e ristretta; allo stesso tempo, i pubblici fruitori marginalizzati nei confronti di
determinati contesti artistici, non godranno della possibilità di entrare in contatto con essi,
privandosi delle risorse opportune destinate ad una loro comprensione e definizione.
La Performance Art ricerca un’interazione con i pubblici più casuali. Sebbene si presenti come
un genere di difficile interpretazione, è proprio il presupposto anti-establishment da cui si è
originato che gli permette di proporsi, senza timore alcuno, alla folla massificata fruitrice.
La Performance non si impegna nell’intercettazione di spettatori specifici, bensì accoglie chi
più si ritiene interessato a sperimentare il dialogo performativo, tant’è che entro i confini
dell’audience non si inseriscono solo appassionati autentici, ma anche curiosi, scettici, fan
dell’artista, intesa come icona pubblica, alla ricerca di soddisfare bisogni egocentrici ed esibire
la prova della propria partecipazione all’evento. Talvolta, il pubblico non si situa come già dato,
all’interno del frame dell’evento, ma subisce un processo di istituzionalizzazione progressiva e
forzata, quando ad esempio la performance si compie in un luogo non previsto, in cui gli astanti
si trovano casualmente a condividere lo stesso spazio come individui separati l’un l’altro, per
poi riconoscersi con il passare del tempo come gruppo consolidato e focalizzato su un centro
attentivo condiviso – si pensi, ad esempio, ad Imponderabilia (1977) di Marina Abramovic,
svoltasi all’ingresso della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna.
[…] la Body Art, nello specifico, non pone problemi perché incorre nell'osceno,
nell'orrido, nel disgustoso, ma perché impone un annullamento della modalità
tradizionale di fruizione che prevede una distanza estetica dell'osservatore che permetta
il giudizio e al contempo la possibilità di godimento di ciò che si fruisce. (Vasinton, nd,
p. 24)
È proprio l’intenzione di porsi come anti-tradizionalista del genere performativo a favorire la
formazione di una comunità di sostenitori che via, via ripongono la propria fiducia nella
Performance. La possibilità di sperimentare inedite modalità interattive con l’opera surclassa il
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timore e la dissonanza prodotta dal contenuto proposto e dà forma ad un carattere magnetico
capace di attrarre a sé spettatori al di là del loro capitale culturale, dei gusti estetici e del valore
che viene conferito all’artista o all’azione presentata (come le valutazioni sulle norme di decoro
e buon costume). La non-ordinarietà dell’opera ha la capacità di creare un legame estetico,
oltreché extra-culturale ed extra-corporeo in grado di caratterizzare l’evento e la situazione di
una potente natura sacra, mentre la distanza variabile che comunica una sorta di simmetria tra
performer e pubblico, permette il giusto equilibrio tra giudizio sociale ed estetico, e godimento
nell’assistere.
Nonostante, però, l’auspicato posizionamento sociale paritario tra artista e audience, che
talvolta può manifestarsi come una vera e propria inversione di ruoli, in cui l’artista diviene
osservatore e il pubblico diventa performer – si veda The Abramovic Method (2012) – le
aspettative di comportamento nei confronti dell’audience performativa rimandano sempre ad
un certo grado di deferenza verso la presenza dell’artista, che in quanto tale necessita di essere
salvaguardato, anche solo dal punto di vista reputazionale.
Ad ogni modo, ciò che viene ricercata e domandata è una reazione e una partecipazione attiva
da parte del pubblico.
In un'ipotetica contrapposizione tra forme artistiche “statiche” e “dinamiche”, l'artista
che realizza performance si colloca quindi dal lato della “dinamica” e la sua “opera” è
rivolta a una ricezione reattiva e non “contemplativa”. (Toscano, 2011, p. 33)
L’opera dispiegata come azione implica un movimento di attenzione che travalica il confine
che divide artista e pubblico. Il vicendevole scambio comunicativo che si instaura permette
all’idea performativa di tradursi in esiti esperienziali che si modellano dinamicamente tra le due
polarità, stimolando un reciproco adattamento di codici, aspettative e mezzi affinché l’incontro
emotivo tra artista e spettatori si realizzi e giunga insieme all’obiettivo finale.
Se compito dell’arte, specialmente quella contemporanea, è quello di massaggiare il
muscolo atrofizzato della contemplazione collettiva e di sviluppare nel pubblico nuovi
processi di conoscenza, allora esiste la possibilità di evitare la morte del pubblico e, al
contrario, di creare una interattività tra l’opera dell’artista e il suo fruitore. (Bonito
Oliva, nd)
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La visione critica di Achille Bonito Oliva sottolinea come l’odierna modalità di fruizione e
contemplazione dell’opera assecondata dai nuovi media, e la possibilità di fare esperienza
artistica riducendo al minimo gli sforzi, sterilizzi la concezione tradizionale di pubblico e,
conseguentemente, anche dell’arte in sé, la quale diventa mero oggetto di consumo, privato dei
suoi significati sostanziali. La Performance soccorre tale fenomeno imponendo la necessaria
presenza fisica e situata del pubblico, che si vede costretto a partecipare con consapevolezza e
impegno, proprio perché l’evento è effimero, ha una durata limitata e non fornisce possibilità
di riproduzione temporale e spaziale. Il pubblico, quindi, comprende come l’irripetibilità
dell’opera determini la sua esclusività e il suo valore intrinseco, definendo la propria
partecipazione come un privilegio e un’occasione da non lasciarsi sfuggire.
La natura intersoggettiva del corpo mette in rilievo quanto sia fondamentale il consenso
dello spettatore: il pubblico deve essere coinvolto in un'esperienzialità collettiva che
porti di rimando a rivalutare il proprio quotidiano e il proprio comportamento; è
necessario che il gesto abbia una reciprocità poiché all'artista è indispensabile che il
pubblico cooperi per avere una conferma della propria identità. Al contempo, al
pubblico è indispensabile quella protezione estetica che l'artista offre per poter vivere
un'intensità di reazioni che altrimenti sarebbero bloccate da determinate condizioni
educative e culturali [Vergine, 2000, p. 25]. È in atto quello schema per cui «il soggetto
attende dall'altro che gli dica ciò che si deve desiderare. […] Il desiderio è
essenzialmente mimetico, è ricalcato su un desiderio modello» [Girard, 1980, p. 136].
(Vasinton, nd, p. 20-21)
L'ambivalenza tra simmetria e asimmetria dell’interazione rimane una costante all’interno
dell’esperienza performativa. Senza dubbio, il pubblico e l’artista si servono a vicenda, sono
complementari e necessari l’un l’altro, manifestando le caratteristiche tipiche dello scambio
interazionale che segue il modello goffmaniano di reciproco adeguamento tra interlocutori.
L’artista ha bisogno di un pubblico al fine di ottenere conferme rispetto alla sua identità e alla
sua reputazione, oltreché per far sì che il suo scopo si realizzi, attraverso l’esalazione dei propri
messaggi verso l’esterno; d’altra parte, gli spettatori si ritrovano a dover elaborare e adeguare
le informazioni provenienti dal performer e dall’opera, per poi fornirne un feedback e
sanzionare positivamente o negativamente l’artista, a seconda del grado di adempimento alle
aspettative.