primo indizio per assegnare la qualifica di romanzo al libro di Saviano. A
questo modo di narrare vanno ricondotte le parti nelle quali Saviano parla dei
bilmente uno dei più incisivi e
coinvolgenti della letteratura contemporanea.
non riuscivo più a capirlo.
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i
suoi ricordi di infanzia in compagnia del padre.
Ma c’è di più. Basta aprirlo il libro di Saviano per rendersi conto di quanto sia
fortemente romanzesco. Il suo incipit è proba
Il container dondolava mentre la gru lo spostava sulla nave. Come se stesse
galleggiando nell'aria, lo spider, il meccanismo che aggancia il container alla
gru, non riusciva a domare il movimento. I portelloni mal chiusi si aprirono di
scatto e iniziarono a piovere decine di corpi. Sembravano manichini. Ma a terra
le teste si spaccavano come fossero crani veri. Ed erano crani. Uscivano dal
container uomini e donne. Anche qualche ragazzo. Morti. Congelati, tutti
raccolti, l'uno sull'altro. In fila, stipati come aringhe in scatola. Erano i cinesi
che non muoiono mai. Gli eterni che si passano i documenti l'uno con l'altro.
Ecco dove erano finiti. I corpi che le fantasie più spinte immaginavano cucinati
nei ristoranti, sotterrati negli orti d'intorno alle fabbriche, gettati nella bocca del
Vesuvio. Erano lì. Ne cadevano a decine dal container, con il nome appuntato
su un cartellino annodato a un laccetto intorno al collo. Avevano tutti messo
da parte i soldi per farsi seppellire nelle loro città in Cina. Si facevano trattenere
una percentuale dal salario, in cambio avevano garantito un viaggio di ritorno,
una volta morti. Uno spazio in un container e un buco in qualche pezzo di
terra cinese. Quando il gruista del porto mi raccontò la cosa, si mise le mani in
faccia e continuava a guardarmi attraverso lo spazio tra le dita. Come se quella
maschera di mani gli concedesse più coraggio per raccontare. Aveva visto
cadere corpi e non aveva avuto bisogno neanche di lanciare l'allarme, di
avvertire qualcuno. Aveva soltanto fatto toccare terra al container, e decine di
persone comparse dal nulla avevano rimesso dentro tutti e con una pompa
ripulito i resti. Era così che andavano le cose. Non riusciva ancora a crederci,
sperava fosse un'allucinazione dovuta agli eccessivi straordinari. Chiuse le dita
coprendosi completamente il volto e continuò a parlare piagnucolando, ma
Era giusto riportarlo nella sua interezza. Solo così siamo in grado d
comprendere la straordinaria efficacia narrativa e letteraria di questo attacco.
Di grande effetto è l’immagine del container che agganciato dalla gru
sembrava “stesse galleggiando per aria”. Ancora più efficace è quanto segue:
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ROBERTO SAVIANO, Gomorra, Mondadori, Milano, 2006, p. 11-12
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dai portelloni iniziarono a cadere decine di corpi. Immagine cruenta e
sconvolgente per il lettore, che subito viene attenuata dall’impressione che
«sembravano manichini». Ma, immediatamente dopo, la realtà viene sbattuta
sotto gli occhi del lettore: a terra le teste si spaccano come crani veri. «Ed
erano crani». Dal container escono uomini, donne e ragazzi. Il lettore pensa
siano vivi, ma il narratore in una lapidaria frase minima sbatte: «Morti». Poi è
descritta tutta l’atrocità, senza più ripensamenti narrativi. Tutto è spalmato in
faccia al lettore nella sua crudeltà. Sono immagini fortemente letterarie, che
lasciano poco spazio al giornalismo. Metafore narrative tipiche di un romanzo,
zo, in opposizione all’omertà
che qui risaltano all’occhio dei lettori in maniera sconvolgente e decisa.
Poi nel finale d’incipit due espressioni forti, che rimandano ad altrettanti modi
di pensare la realtà campana. La prima: «Era così che andavano le cose». Tutto
deve andare così, perché è stato deciso cosi e non ci si può opporre. La
mentalità di tutta una regione schiava delle cosche camorristiche. La seconda,
la chiusa dell’incipit: «non riuscivo più a capirlo». È Saviano a parlare. A non
riuscire a capire come di tutto ciò non se ne parli. È il non capire che lo
porterà a scrivere il proseguo del roman
napoletana del «così devono andare le cose».
Da aggiungere che lo stile nel quale egli narra è fortemente coinvolgente. È
uno stile tipicamente giornalistico investito, però, dell’impronta romanzesca.
Frasi brevi, dirette, ma realistiche. Periodi che avvolgono il lettore in tutt’uno
con il narratore. Quasi a sentirsi al fianco di Saviano, mentre quei corpi, tutto
ad un tratto, piovono dal container. D’altronde, sembra di essere su un set
cinematografico. Saviano ci porta in un film. La pellicola si apre con le
immagini cruente dei corpi che cadono, sbattuti in faccia a noi che assistiamo
a queste scena. Sentiamo il rumore della gru che si muove. Il portellone che si
apre e i corpi tutto ad un tratto cadono. Nessuno che grida, poi lo stacco
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violento su Saviano e il gruista che colloquiano. Sullo sfondo gli operai che
rimettono dentro al container i corpi come fossero merce. La scena trova la
sua perfetta conclusione nello sguardo serioso e cupo di Saviano che assiste
mondo nasce e si chiude qui. E ciò che entra qui, non ha
a speranza. Il desiderio che l’atto di reazione di Saviano non resti
egativa. Il finale è la speranza rappresentata da Roberto Saviano
prima parte, che ci
immergiamo nei bassifondi dell’economia camorristica.
alla scena.
L’autore ci racconta la scena di una pellicola. E il lettore è li, a leggere e
ricrearla nella sua mente. Una cupezza cinematografica si abbatte sulla scena
del porto. Il lettore viene trasportato in un luogo senza tempo. Saviano non ci
dice se è mattina, pomeriggio o notte. Ancora più di impatto è il fatto che
siamo al porto di Napoli, ma il mare non appare mai nei nostri occhi. Il porto
sembra chiuso, circoscritto in questa alone di non tempo e di non spazio.
Come a dire che il
possibilità di fuga.
La struttura del libro è tipicamente romanzesca. Il suo, quello del narratore-
protagonista, è un viaggio iniziatico. Il romanzo ha una trama, con un suo
inizio, un suo punto più basso in cui tutto sembra dover andar male, e infine
una sua ripresa, dettata dalla reazione del narratore, che rimane li a raccontare
e a testimoniare lo sfasciume di una terra intera. Il finale rimane aperto, ma
lascia un
isolato.
Dunque, come detto, il romanzo non ha conclusione. Non c’è fine, né
positiva, né n
ancora vivo.
Il libro ha inizio nel porto di Napoli, luogo dove tutto sembra aver avvio e
una fine. Qui partiamo per il «viaggio nell’impero economico e nel sogno di
dominio della camorra»
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. È da qui, dall’inizio della
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Ivi
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Attraversiamo prima il porto di Napoli, poi seguiamo Saviano che si intrufola
in loschi affari per cercar di comprendere la malavita cinese. Stringe rapporti
con Xian, affarista della mafia cinese. È nel secondo capitolo che il lettore si
sente assalito da un certo sconforto. Dinanzi alla triste storia di Pasquale,
eccellente sarto del napoletano costretto a lavorare per 600 euro al mese.
Nel terzo e nel quarto capitolo, Saviano ci racconta la camorra, il sistema,
come viene chiamato in Campania. Ci racconta fatti, personaggi, inchieste. Ci
narra la guerra di Secondigliano, come fosse una di quelle guerre celebri delle
quali riceviamo notizia dalla tv, e del ruolo delle donne all’interno del sistema.
Dunque il nostro, al fianco dell’autore, è un cammino in discesa, che ci porta a
toccare con mano la cupezza maggiore.
Passiamo dall’inerzia, dall’arrendevolezza e dalla sconfitta di Pasquale, alla
guerra di Secondigliano. Questo il punto più infimo di tutto il viaggio
nell’impero economico della camorra. Da qui ne usciamo toccando il fondo, il
funerale della quattordicenne Annalisa Durante.
La prima parte del romanzo, possiamo notare, non ha simboli di reazione.
Non c’è redenzione dal magma di illegalità. Anche il narratore viene ad
immischiarsi con la camorra. Partecipa a qualcosa di cui ignora la reale
importanza, ma poi viene colpito dai sensi di colpa. Anche Saviano, dunque, è
coinvolto. Sporcato, macchiato, dal sistema.
Nella seconda parte, invece, si riemerge dai bassi fondi della malavita
napoletana per arrivare in superficie. È nello stesso romanzo che troviamo
questa esplicativa frase.
L'economia ha un sopra e un sotto. Noi siamo entrati sotto, e usciamo sopra.
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ROBERTO SAVIANO, Gomorra, cit., p.21
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Nella seconda parte, dunque, siamo sopra. Ci stiamo muovendo verso la parte
imprenditoriale della camorra. Dove il sistema malavitoso si congiunge con
l’economia legale. Punto di congiunzione tra le due sezioni del libro è
Kalashnikov. Ed è una narrazione autobiografica a mediare le due fasi della
narrazione. Si tratta del ricordo del padre che insegna a Roberto bambino
come usare la pistola. Saviano è coinvolto nel marciume della sua regione. Ci è
dentro: perché ci è nato, perché per indagare ne viene coinvolto. Ci viene
raccontato il sogno realizzato dell’amico Mariano: il suo viaggio fino in Russia
per conoscere colui che ha progettato il Kalaschnikov.
È dal racconto autobiografico che si risale. Risaliamo l’economia camorristica.
Risale anche Saviano, in un suo ideale percorso di riabilitazione che lo porterà
a denunciare tutto il putridume.
È la morte di Francesco Iacomino a far scattare in Saviano qualcosa:
Fu quando morì Francesco Iacomino però che compresi sino in fondo i
meccanismi dell'edilizia. Aveva trentatré anni quando lo trovarono con la tuta
da lavoro sul selciato, all'incrocio tra via Quattro Orologi e via Gabriele
D'Annunzio a Ercolano. Era caduto da un'impalcatura. Dopo l'incidente erano
scappati tutti, geometra compreso. Nessuno ha chiamato l'autoambulanza,
temendo potesse arrivare prima della loro fuga. Allora, mentre scappavano,
avevano lasciato il corpo a metà strada, ancora vivo, mentre sputava sangue dai
polmoni. Quest'ennesima notizia di morte, uno dei trecento edili che
crepavano ogni anno nei cantieri in Italia si era come ficcata in qualche parte
del mio corpo. Con la morte di Iacomino mi si innescò una rabbia di quelle che
somigliano più a un attacco d'asma piuttosto che a una smania nervosa
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.
La rabbia avvolge Saviano. La voglia di far qualcosa. Di vendicare l’ennesima
vittima di questo sistema malato. Ma l’unica cosa che riesce a Saviano è quella
di andare a Casarsa, sulla tomba di Pier Paolo Pasolini. Non va certo ad
invocare un Dio letterario, oppure un mistico personaggio in grado di
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Ivi, p. 232
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redimere la sua anima dall’asfittico sistema camorristico. L’autore si reca sulla
tomba di Pasolini per ricercare il potere della parola:
Mi andava di trovare un posto. Un posto dove fosse ancora possibile riflettere
senza vergogna sulla possibilità della parola. La possibilità di scrivere dei
meccanismi del potere, al di là delle storie, oltre i dettagli. Riflettere se era
ancora possibile fare i nomi, a uno a uno, indicare i visi, spogliare i corpi dei
reati e renderli elementi dell'architettura dell'autorità. Se era ancora possibile
inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale, l'affermazione dei
poteri, senza metafore, senza mediazioni, con la sola lama della scrittura.
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È sul treno per Pordenone; arriva a Casarsa. È lì che comincia a rimbombarli
nella testa l’Io so di Pasoliniana memoria. Pasolini aveva scritto «Io so e non
ho le prove»
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del male dell’Italia. È stata la Dc, è stato il petrolio.
Saviano imita Pasolini, ma a dir il vero dice di più: «Io so e ho le prove. Io so
come hanno origine le economie e dove prendono l’odore». È il cemento il
petrolio del mezzogiorno. «Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero
economico nato nel Mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni».
Saviano raggruppa in un unico capo d’accusa le attività della camorra:
speculazione edilizia, caporalato, sversamento di rifiuti, droga, sub appalti per
le griffe del Nord, omicidi rituali.
Dall’altra parte, certo, ci sono i buoni, gli onesti, i Don Peppino Diana, ma
come per Pasolini c’è la parola, che scova, lega, intreccia e tramanda le
responsabilità. Pasolini era divenuto il poeta civile: colui che parla per l’Italia la
quale dovrebbe essere quella che non è. Saviano ha scelto il ruolo del
prosatore civile dell’Italia che dovrebbe essere: tutto il contrario della Gomorra
raccontata nel suo libro.
Dunque, Saviano, ricollegandosi alla lezione pasoliniana, riscopre una parola
in grado di aggredire la realtà. «La parola letteraria proprio perché svincolata
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Ivi, p. 233
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PIER PAOLO PASOLINI, Cos’è questo golpe? Io so, in «Corriere della sera», 14/11/1974
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