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non rimanga invece solo una “scuola di criminalità” (Lovati, 1988). Si ritiene, altresì,
che solo attraverso politiche adeguate, capaci di promuovere l‟apertura e la
cooperazione tra istituzione carceraria e territorio, possa prender forma il valore
rieducativo e risocializzante della pena previsto dalla normativa, che, altrimenti,
rischierebbe di non realizzarsi in quell‟istituzione totale per antonomasia che è il
carcere.
Proprio in questa direzione, nel 2005 la Regione Lombardia ha avviato la
sperimentazione di un nuovo progetto, delineando la figura innovativa dell‟Agente di
rete. Compito di questo operatore dovrebbe essere quello di fungere da raccordo tra
l‟interno del carcere e l‟ambiente esterno ad esso, laddove avverrà il reinserimento
sociale del detenuto. In realtà, la Regione ha lasciato un notevole grado di autonomia
alle varie istituzioni carcerarie nella realizzazione di questo progetto, giunto a
risultati assai variegati nelle diverse realtà penitenziarie lombarde. Tuttavia,
l‟esperienza della Casa Circondariale di Bergamo, oggetto di questo studio, pare aver
dato buon esito, tanto da riconfermarne la sperimentazione per il secondo triennio
consecutivo, con un ulteriore incremento del monte ore previsto (addirittura
raddoppiato) e del relativo budget. In tale contesto, l‟Agente di rete si presenta come
figura di collegamento tra istituzione carceraria e territorio, operando in entrambi i
settori: all‟interno del carcere, in collaborazione con gli operatori, vengono infatti
incontrati i detenuti, fin dalla prima accoglienza, per conoscerne la situazione
specifica e identificarne i bisogni; attraverso questa analisi conoscitiva, di concerto
con gli altri operatori penitenziari, viene quindi impostato un programma di
reinserimento, coinvolgendo altresì i soggetti del territorio chiamati a collaborare alla
realizzazione di progetti individualizzati; in questo frangente, particolare attenzione
viene riservata all‟inserimento lavorativo e abitativo, al fine di dotare la persona
detenuta degli strumenti necessari per il suo percorso di risocializzazione.
Nell‟esperienza analizzata, la sperimentazione della funzione di Agente di rete pare
dunque configurarsi non solo come il tentativo di un‟attuazione concreta e effettiva
del dettato costituzionale sancito dall‟articolo 27, ma anche come una possibilità di
costruzione di quel sistema integrato di interventi e servizi sociali delineato dalla
legge 328/2000, orientato a comporre reti locali per il reinserimento sociale delle
persone in esecuzione penale.
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Il testo sarà costituito da due parti, la prima più teorico-descrittiva e la
seconda di carattere metodologico-pratico, dedicata nello specifico all‟analisi e alla
valutazione della sperimentazione dell‟Agente di rete nell‟esperienza bergamasca:
Parte I - Attraverso l‟analisi della letteratura e della normativa specifica si
approfondiranno l‟origine e l‟evoluzione dell‟istituzione penitenziaria, nonché le
finalità attribuite alla pena alla luce delle convenzioni internazionali in materia, della
legislazione nazionale e regionale. Si cercherà, in tale percorso, di far emergere
l‟urgente necessità di aprire il carcere al territorio per superarne l‟impostazione
totalizzante, che inficia la possibilità di riscatto insita nella finalità rieducativa della
pena.
Parte II – Particolare attenzione sarà dedicata all‟approfondimento della
sperimentazione dell‟Agente di rete, cercando di metterne in luce obiettivi,
destinatari, attori coinvolti, modalità operative, attività svolte, nonché metodi di
monitoraggio e verifica. Nel rapporto carcere-territorio della realtà bergamasca,
attraverso la documentazione disponibile e la realizzazione di interviste, si cercherà
di ricostruire la rete che si attiva attorno alla persona detenuta per seguirne il
percorso di reinserimento sociale: si cercherà di identificare gli attori coinvolti, gli
eventuali dispositivi di concertazione previsti e i progetti/interventi realizzati e/o in
corso d‟opera, anche al fine di proporre una valutazione della sperimentazione finora
realizzata presso la Casa Circondariale di Bergamo, nel quadro della relativa
legislazione di riferimento.
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Parte I - Carcere e società, oltre la pena
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1) Stato, controllo sociale e devianza: breve storia
dell’istituzione carceraria
Generalmente, si è abituati a pensare al sistema penale come a un sistema di
esclusione e può essere che l‟esclusione costituisca di fatto l‟esito reale di tale
sistema. Tuttavia, alle sue origini, esso non era stato pensato per tale funzione; al
contrario, il carcere in particolar modo, era stato immaginato come un meccanismo
di inclusione e incorporazione all‟interno di un contratto sociale condiviso. In altre
parole, il progetto penitenziario costituiva innanzitutto il progetto di produzione di
cittadini in grado di operare il proprio autocontrollo, condizione indispensabile per
l‟edificazione di un sistema basato sull‟autogoverno (Melossi, 2002).
La dottrina del contratto sociale, che andò a costituire il modello fondamentale
mediante il quale l‟età dell‟Illuminismo poté concepire l‟ordine della Polis, si
produsse a partire dalla dissoluzione della società medievale. I termini principali di
tale contratto trovarono infatti origine nella crisi dell‟ordine del medioevo, retto da
un pensiero fortemente teocratico; lo Stato e gli Individui vennero così a costituire i
cardini del nuovo ordine sociale basato sul contratto.
Uno dei contributi basilari per lo sviluppo di tali teorie fu certamente quello di
Thomas Hobbes, che nella figura del Leviatano identificava lo Stato come garante
della pace e della difesa dei cittadini, avendone ricevuto mandato dai cittadini stessi
attraverso un patto reciproco di cessione di quella libertà d‟azione indiscriminata che
aveva fino ad allora regnato nella forma dell‟homo homini lupus. In altre parole, la
teoria del contratto sociale formulata da Hobbes ed esemplificata dalla metafora del
Leviatano postulava che la moltitudine degli uomini si fosse unita, e al tempo stesso
sottomessa, in un atto collettivo, costituendosi in forma di Stato e trasferendo ad esso
il potere di rappresentanza, soprattutto al fine di garantire la sicurezza della società
nella sua dimensione interna ed esterna.
I successivi sviluppi della nozione di contratto sociale inaugurata da Hobbes si
indirizzarono in direzione degli esiti più democratici della teoria e particolarmente
significativa, da questo punto di vista, fu la concezione elaborata da John Locke.
L‟elemento fondante di tale pensiero era costituito dal concetto di ricchezza,
considerata indicatore della capacità e attitudine dell‟individuo a esplicare i diritti
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derivanti dalla proprietà, dunque, indice della capacità di partecipare razionalmente
alla gestione degli affari comuni. Era quindi sulla base della mancanza di tale
razionalità che individui non proprietari come donne, schiavi, minori, non
appartenenti alla razza bianca e quanti altri erano giudicati incapaci di entrare nel
patto sociale e venivano di fatto esclusi, in modo più o meno drastico, dal godimento
dei diritti tipici di ogni soggetto di diritto proprio di una determinata società.
È a questo punto che, secondo Melossi (2002), la teoria del contratto sociale conosce
una curiosa inversione: quello Stato che era stato costituito in forza di un supposto
contratto dei suoi soggetti si pone ora il compito di costituire a sua volta i propri
soggetti, cioè di renderli razionali secondo quei parametri che si andavano all‟epoca
affermando: lavoro, ascetismo, vita metodica e disciplinata; detto altrimenti, quel
particolare “tipo antropologico” che si supponeva essere alla base del contratto
sociale e che diveniva crescentemente soggetto attivo di potere - ossia il maschio
bianco adulto, proprietario e possibilmente protestante - doveva essere esteso ad aree
sempre più vaste della popolazione.
Si potrebbe dunque affermare che i processi di razionalizzazione e di
democratizzazione che ebbero luogo nei secoli a seguire furono una sorta di
progressiva “colonizzazione” da parte di questa particolare concezione della vita nei
confronti di aree sociali, classi e culture che in qualche modo ad essa erano ancora
sottratte. A tal proposito, una serie di istituzioni sociali vennero concepite, a
cominciare dal XVI secolo, come strumenti, dispositivi, modalità di costituzione di
soggetti razionali secondo il processo sociale sopra illustrato: si tratta, in altre parole,
dell‟origine del penitenziario. Secondo Melossi (2002) di vera e propria invenzione
si tratta; infatti, sino al XVI secolo, il carcere non era stato altro che un luogo di
restrizione della libertà inteso ad assicurare che l‟imputato non si sottraesse al
giudizio o alla pena già decisa, che poteva consistere in una punizione corporale,
piuttosto che una sanzione pecuniaria, o ancora un gogna pubblica se non addirittura
in una pena capitale. Fu solo con l‟avvento della modernità che il carcere divenne
luogo deputato all‟esecuzione della pena detentiva, il cui scopo era la privazione
della libertà per un periodo di tempo determinato; quella libertà che era alla base del
contratto sociale, dunque al centro dell‟organizzazione della società.
Evidentemente, era solo in questo tipo di società che poteva accadere che la pena
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venisse concepita come privativa della libertà, poiché tale privazione non avrebbe
invece avuto alcun senso in società basate sulla schiavitù o il lavoro servile.
È dunque nel quadro di questo processo di disciplinamento e razionalizzazione che si
situano le invenzioni sociali dell‟epoca rivolte alla creazione del nuovo soggetto
protagonista della società che si va edificando; i principali strumenti di controllo e
organizzazione sociale, cioè quelle istituzioni che in ultima analisi avrebbero dovuto
dipendere dall‟assenso dei cittadini in forza del contratto sociale, assumono esse
stesse una funzione di “soggettivazione”, ossia di costituzione di quei soggetti.
Secondo questa chiave di lettura, scopo, tra le altre, dell‟istituzione carceraria
sarebbe quindi la formazione di soggetti liberi e autogovernantesi, in grado cioè di
governare se stessi nel percorso dal contratto sociale alla democrazia.
Sono questi, anche, gli individui dotati di libero arbitrio delle teorie penali
illuministiche, prime tra tutte quelle di Cesare Beccaria, sostenitore del principio di
legalità e dell‟utilità dell‟istituzione carceraria, deputata, secondo l‟autore, non solo
a rappresentare nella prassi tale principio, ma anche a trasformare coloro che vi
passano attraverso in “macchine repubblicane” (Melossi, 2002). Nel trattato Dei
delitti e delle pene, pubblicato nel 1764 e destinato a divenire forse il più famoso
testo della storia del diritto penale e della criminologia, Beccaria critica infatti
fortemente l‟irrazionalità del diritto penale dell‟epoca, così come il ricorso alla
tortura e alla pena capitale, sostenendo la necessità di separare nettamente il diritto
dalla teologia e dalla morale: per Beccaria l‟uomo è provvisto di libero arbitrio e può
scegliere di compiere azioni criminali che come tali vanno sanzionate dalla norma
penale, la cui pena dovrà essere la minima necessaria e proporzionata ai delitti. Se,
quindi, lo stato detiene il diritto di punire coloro che si discostano dal contratto
sociale, è altrettanto importante per Beccaria capire come punire: la pena non dovrà
essere semplicemente afflittiva, ma la sua stessa minaccia dovrà essere utilizzata a
fini preventivi, imprimendo a livello sensoriale nei potenziali criminali un‟immediata
associazione tra delitto e pena, mentre il carcere costituirà la punizione più adeguata
in quanto dovrà aiutare i colpevoli a divenire contraenti più consapevoli del contratto
sociale. Scorgiamo, quindi, al volgere del XVIII secolo, il sorgere dei due elementi
cardine del sistema penitenziario moderno: la funzione deterrente della pena e il fine
rieducativo/trattamentale della punizione, al fine di prevenire la recidiva.
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Alla fine dell‟Ottocento Emile Durkheim, colui che si può forse considerare il padre
fondatore della sociologia moderna, nei suoi studi sulla sociologia della devianza,
giungeva a conclusioni ancor più raffinate sulla funzione della pena nella società
moderna: la funzione fondamentale della pena, secondo Durkheim, non sarebbe tanto
quella di prevenire una criminalità potenziale, quanto una funzione di controllo,
insita nella rappresentazione stessa della criminalità e della pena, che si rivolge
generalmente a tutte le persone oneste, garantendone la coesione. In altre parole, la
criminalità deve ritenersi normale in una società, poiché funzionale alla sua unione,
in quanto rispondente all‟esigenza di circoscrivere un‟area morale nella quale la
maggior parte della società si riconosce e che è alla base della sua identità di gruppo.
La pena è, quindi, il modo in cui si segnala alla società, in concreto, ciò che è lecito
ciò che non lo è; all‟interno di tale processo, un ruolo particolarmente importante è
svolto dal criminale, poiché esso incarna il nemico pubblico, cioè colui che con la
sua azione aiuta il sistema del controllo sociale a disegnare i confini di
quell‟orizzonte comune di senso che non sarà possibile superare (Mead, 1917).
A questo proposito, la metafora che campeggia all‟interno dell‟ opera Sorvegliare e
Punire di Michelle Foucault (1976), quella del “Panottico” di Jeremy Bentham, è
troppo esemplare per non essere qui almeno brevemente ricordata.
Bentham aveva derivato dal fratello Samuel un concetto tecnologico che questi
avrebbe sviluppato in Russia per gli arsenali navali del principe Potemkin. La
struttura del Panottico consisteva in una torre di guardia centrale riservata al
guardiano del carcere, mentre i carcerati erano collocati in un anello distribuito su
più livelli attorno alla torre. Concetto fondamentale di tale struttura architettonica era
la possibilità del guardiano di vedere i condannati senza essere visto: questi ultimi,
infatti, grazie ad un sistema di tende, non potevano sapere se venivano effettivamente
controllati, ma permaneva in loro il timore di essere sorvegliati e ciò li avrebbe spinti
comunque all‟autocontrollo. L‟idea di fondo, quindi, non era quella di una
sorveglianza permanente, bensì la possibilità di incutere nei detenuti il timore di
essere controllati in modo da svilupparne la capacità di autocontrollo, trasformandosi
in sorveglianti di sé stessi:
“Il Panopticon di Bentham è la figura architettonica di questa composizione. Il
principio è noto: alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre
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tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell'anello; la
costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della
costruzione; esse hanno due finestre, una
verso l'interno, corrispondente alla
finestra della torre; l'altra, verso
l'esterno, permette alla luce di
attraversare la cella da parte a parte.
Basta allora mettere un sorvegliante nella
torre centrale, ed in ogni cella
rinchiudere un pazzo, un ammalato, un
condannato, un operaio o uno scolaro.
Per effetto del contro luce, si possono
cogliere dalla torre, stagliantisi
esattamente, le piccole silhouettes
prigioniere nelle celle della periferia. Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui
ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile. Il
dispositivo panoptico predispone unità spaziali che permettono di vedere senza
interruzione e di riconoscere immediatamente. Insomma, il principio della segreta
viene rovesciato; o piuttosto delle sue tre funzioni - rinchiudere, privare della luce,
nascondere - non si mantiene che la prima e si sopprimono le altre due. La piena
luce e lo sguardo di un sorvegliante captano più di quanto facesse l'ombra, che, alla
fine, proteggeva. La visibilità è una trappola. […] Di qui, l'effetto principale del
Panopticon: indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il
funzionamento automatico del potere. […]. Bentham si meravigliava che le
istituzioni panoptiche potessero essere così lievi: non più inferriate, catene, pesanti
serrature; basta che le separazioni siano nette e le aperture ben disposte. Alla
potenza delle vecchie «case di sicurezza», con le loro architetture da fortezza, si può
sostituire la geometria semplice ed economica di una «casa di certezza»”. (Foucault,
1976, p.69). Ma il "Panopticon", nota l‟autore, non deve essere inteso solamente
come un edificio immaginario: esso è un meccanismo di potere ricondotto alla sua
forma ideale, è in una figura di tecnologia politica che si può e si deve distaccare da
ogni uso specifico; ogni volta che si avrà a che fare con una molteplicità di individui
Figura 1 - Il Panapticon di J. Bentham
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cui si dovrà imporre un compito o una condotta, lo schema panoptico potrà essere
utilizzato. Foucault lo definisce una sorta di «uovo di Colombo» nell'ordine della
politica, poiché esso è in grado di integrarsi ad una funzione qualsiasi (di educazione,
di terapia, di produzione, di castigo) facendo in modo che l'esercizio del potere non si
aggiunga dall'esterno, come una costrizione rigida o come qualcosa di pesante, sulle
funzioni che investe, ma che sia in esse sottilmente presente per accrescerne
l'efficacia.
2) La funzione preventiva del sistema penale
La prevenzione del delitto rappresenta una delle principali funzioni che sono state
attribuite all‟intero sistema penale nei suoi diversi organi e apparati. Storicamente,
infatti, il ricorso alle sanzioni penali è stato giustificato, come si è visto, oltre che con
una serie di considerazioni di tipo retributivo (al male del delitto deve conseguire il
male della pena), anche attraverso una serie di argomentazioni di tipo preventivo: in
quest‟ottica, l‟erogazione delle pene riduce l‟appetibilità dei reati attraverso la
prospettazione di una sanzione punitiva per un determinato comportamento che si
desidera evitare nella collettività; si tratta della cosiddetta “prevenzione generale”.
Per converso, si definisce “prevenzione specifica” quell‟effetto che l‟applicazione
delle norme penali produce sul singolo autore di reato, nel senso di una diminuzione
della sua propensione a commettere delitti.
La giustificazione della legge penale attraverso la sua funzione generalpreventiva ha
subito alterne fortune. Dopo essere stata in auge con la scuola classica del diritto
penale, alla fine del XIX secolo è stata in parte soppiantata da nuove impostazioni,
maggiormente orientate alla prevenzione speciale, secondo le quali la pena deve
adattarsi alle esigenze di ogni singolo individuo e deve essere diretta alla sua
rieducazione e reinserimento sociale (Bandini, 1991).
Le nuove tendenze centrate sulla funzione riabilitativa della pena, nel corso del
Novecento, hanno fatto ampiamente ricorso agli strumenti delle scienze psicologiche
e sociali, che andavano via via emergendo ed affermandosi. In base ad esse il
delinquente veniva considerato un soggetto da “trattare” attraverso programmi
individualizzati, tentando di incidere su quelli che, in base alle concezioni
scientifiche del momento, erano considerati i fattori eziologici responsabili del
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comportamento criminoso. Tuttavia, con la comparsa negli anni Settanta dei primi
segni di sfiducia nei confronti dell‟ideologia del trattamento, le teorie
generalpreventive tornarono a godere di una nuova fortuna, specialmente negli Stati
Uniti. Verso la metà degli anni Settanta, l‟interesse della criminologia per tale settore
condusse alla realizzazione di numerose ricerche empiriche volte ad indagare
l‟effetto deterrente delle sanzioni penali. La maggior parte delle ricerche in questo
campo, spiega Bandini (1991), ha cercato di valutare l‟efficacia della pena, cioè di
verificare se la minaccia o la concreta applicazione delle pene servano effettivamente
a dissuadere i consociati dal commettere reati.
Gli studi trasversali, realizzati cioè comparando tra loro due o più zone geografiche
simili e differenti solo per il tipo di legislazione penale, hanno rilevato una
correlazione inversa tra certezza della pena detentiva e numero dei delitti, ma lo
stesso non si è verificato tra severità delle pene e numero di reati compiuti, nemmeno
nel caso della pena di morte. Studi di tipo longitudinale pervengono sostanzialmente
a conclusioni negative rispetto all‟effetto deterrente delle sanzioni penali, mentre
studi di carattere soggettivo basati sulla somministrazione di questionari e interviste
confermano risultati non dissimili a quelli raggiunti con le indagini trasversali. Nel
complesso, la ricerca empirica sembra aver dimostrato che la certezza della
punizione, più che la sua severità, appare in grado di trattenere i consociati dal porre
in essere comportamenti devianti.
Per quanto riguarda la dimensione trattamentale, particolare importanza rivestono le
ricerche che hanno contribuito a mettere in evidenza i pesanti effetti del carcere sulle
condizioni psicologiche dei soggetti: nel 1940 Clemmer elaborava,
pioneristicamente, il concetto di prisonizzazione, che egli stesso definiva come
l‟assunzione dei comportamenti, delle consuetudini, delle usanze e della cultura
generale del penitenziario. Da allora, analisi sempre più attente e dettagliate sono
state condotte da sociologi e criminologi su questo processo che porterebbe alla
formazione di un‟organizzazione informale propria del modo dei detenuti, con valori
e atteggiamenti propri, destinate a creare una frattura tra le prospettive delle autorità
penitenziarie e quelle della subcultura carceraria (Bandini, 1991).
Il dibattito sulle determinanti di tale fenomeno non sembra aver ancora trovato, ad
oggi, un soluzione definitiva; tuttavia è ormai un dato acquisito che l‟esperienza
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detentiva sia, per sua natura, criminogenetica; in particolare si ritiene che vi sia una
correlazione diretta tra processo di prisonizzazione, comportamento antisociale e
fallimento dopo il rilascio. Particolare attenzione deve dunque essere rivolta
all‟ambiente carcerario e alle modalità di realizzazione della pena, che dovrebbe
consistere in un trattamento rieducativo del condannato, nelle forme più appropriate
al caso specifico, al fine di agevolarne la risocializzazione e farne un cittadino
rispettoso della legge. Ciò non significa, si badi bene, cercare di ottenere detenuti
obbedienti e disciplinati, ma persone attive e responsabili; per questo ampio spazio
dovrebbe essere riservato alla formazione professionale, all‟educazione scolastica,
all‟attività lavorativa, ecc.
In questo filone trattamentale si inseriscono anche le cosiddette misure alternative,
quali l‟affidamento in prova al servizio sociale e la semilibertà, introdotte in Italia nel
1975 con la riforma dell‟ordinamento penitenziario, a cui si è poi aggiunta la
detenzione domiciliare nel 1986. Anche le misure alternative sono state oggetto di
numerose ricerca atte a verificarne l‟efficacia ai fini del reinserimento sociale, le
quali sembrano dimostrare che tali misure sono sì consigliabili per evitare gli effetti
negativi del carcere, ma non contribuirebbero in maniera diretta ad aumentare le
possibilità di reinserimento delle persone sottoposte a questa misura (Bandini, 1991).
D‟altra parte le misura alternative alla detenzione godono troppo spesso, presso
l‟opinione pubblica, di una fama negativa alimentata dai mass media, che tendono
frequentemente ad enfatizzare episodi di recidiva commessi in tali occasioni,
generando pregiudizi ingiustificati che squalificano l‟importanza di tali iniziative per
la risocializzazione del condannato (Leonardi, 2007).
In realtà, almeno per quanto riguarda l‟Italia, i dati forniti dall‟Osservatorio delle
misure alternative presso la Direzione generale dell‟esecuzione penale esterna del
Ministero della Giustizia, rivelano un quadro assai favorevole per le misure
alternative: se si rileva, infatti, la percentuale di recidive commesse dagli affidati ai
servi sociali si può facilmente notare che essa è solamente del 19%, contro un 81% di
affidati che conclude positivamente il proprio percorso. Inoltre, confrontando i tassi
di recidiva degli affidati e dei detenuti emerge chiaramente la netta maggioranza di
recidive per i detenuti: secondo una rilevazione dell‟ufficio statistico
dell‟amministrazione penitenziaria, nel 1998, su 5772 condannati scarcerati, più del