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Si cercherà di fare una panoramica sulle tipologie di sostanze psicoattive,
sulle modalità di consumo e i loro effetti sul soggetto e le eventuali
comorbilità con disturbi mentali.
E’ qui che subentra il concetto di Doppia Diagnosi che ha destato, in questi
anni, un particolare interesse che sembrerebbe riguardare non solo i clinici
ma, più in generale, le persone e le organizzazioni che intervengono in
questo settore. È quasi come se, dopo decenni, ci si fosse accorti che non è
poi così facile curare in assenza di diagnosi e che, abbastanza
frequentemente, nelle persone che si rivolgono a Servizi che si occupano di
dipendenze e di abuso di sostanze, sono presenti disturbi, primari o
secondari, di tipo psichiatrico che devono essere compresi e affrontati.
Ritornando indietro nel tempo, le parole d’ordine ben presenti
nell’intervento sulle dipendenze patologiche erano “non medicalizzare” e,
ancor di più, “non psichiatrizzare”.
Oggi, queste espressioni, vengono utilizzate meno frequentemente ma le
conseguenze dei concetti che sottendevano sono ancora vive. Ciò può
provocare una vera e propria frattura culturale, ideale ed anche operativa in
diversi ambiti del sistema di intervento al punto di compromettere, talvolta,
la possibilità di intervenire nel modo più adeguato possibile su situazioni
che richiederebbero, logicamente, un continuum di azione “tra curare e
prendersi cura”.
“Spesso garantire la cura diventa un’azione dettata da considerazioni di
opportunità (ed anche di sicurezza sociale) piuttosto che dall’effettivo
riconoscimento dell’esistenza di una patologia”
1
.
Rispetto a molti settori della cura un soggetto diagnosticato, o meglio,
“etichettato” come alcolista o tossicomane diventa, così, improvvisamente
di competenza altrui: nel momento in cui esiste una “doppia diagnosi” la
1
Così definisce R. C. Gatti la cura dei tossicodipendenti: secondo Gatti infatti il mandato
sociale ai Servizi tossicodipendenze è sempre stato relativamente ambiguo: molto più
indirizzato a contenere i problemi e, forse, le persone, piuttosto che a curare e,
possibilmente, a guarire. Si vedano i commenti all’interno del sito www.droga.net, sito
sulle tossicodipendenze, sulle droghe e sul sistema di intervento preventivo, terapeutico e
riabilitativo a cura di Riccardo C. Gatti (Medico, Psicoterapeuta e Specialista in Psichiatria,
Direttore del Dipartimento delle Dipendenze della A.S.L. Città di Milano. Professore a
contratto, all’Università Statale di Milano Bicocca) (visitato il 27 novembre 2006).
2
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situazione peggiora. E’ qui che inizia il “rimbalzare” di pazienti tra
psichiatria e tossicodipendenze. Quando un soggetto presenta sia disturbi
psichiatrici che disturbi d’abuso di sostanze, le cose si complicano
maggiormente quando ciò si verifica nell’ambiente carcerario, tanto che
taluni sono arrivati a parlare di “Tripla Diagnosi
2
“ dove concorrono insieme
disordine mentale e tossicomania in una cornice custodialistica come quella
del carcere che non fa altro che accentuare i disagi e comportamenti
recidivanti.
La mancanza di esperienza condivisa, confronto, comunicazione e utilizzo
della diagnosi come strumento decisionale nella prassi operativa clinica,
finisce per rendere il processo diagnostico meno attendibile, meno valido e,
soprattutto difficilmente perfezionabile.
Addirittura il concetto di doppia diagnosi rischia di essere utilizzato come
una vera e propria … diagnosi (quel paziente è un “doppia diagnosi”)
avvitandosi su di sé in un atteggiamento mentale che chiude possibilità
anziché aprirne
3
.
Così come afferma Gatti, si crede che il termine “Doppia Diagnosi”,
dovrebbe essere abbandonato in quanto fuorviante rispetto ad una
condizione umana in cui la presenza di più patologie di diversa gravità nella
stessa persona non è poi così eccezionale da dover trovare un termine
particolare per definirla.
Per una serie di ragioni differenti, soprattutto di tipo culturale, costruendo
programmi per “Doppia Diagnosi”, non differenziandoli per le diverse
forme di patologia e di gravità che questo termine sottintende, si rischia di
impoverire le possibilità di intervento terapeutico-riabilitativo.
E ancora si crede che si dovrebbe abbandonare il termine “Doppia
Diagnosi” perché rischia di contribuire rapidamente alla costruzione di una
nuova categoria di utenza indefinita (quasi come se i “doppia diagnosi”
2
Ma alla fine la Tripla Diagnosi può essere sempre solo ed una. Sembra qui che sia la
medicina stessa a creare le malattie attraverso un’etichetta. La diagnosi crea a questo punto
la “causa” della cura. Cfr Moruzzi M. e Cipolla C. (2004) (a cura di), Telemedicina,
“Salute e Società”.
3
In altri ambiti della clinica, la compresenza di due patologie diverse non viene definita con
il termine di “doppia diagnosi”: ci sarà pure una ragione anche per questo.
3
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fossero tutti eguali) con Operatori, Servizi, Strutture e canali di
finanziamento dedicati, prima ancora che in questo settore si sia diffusa la
prassi di strutturare un corretto inquadramento diagnostico
multidisciplinare, validato e confrontabile, non strettamente limitato al solo
campo sanitario, per ogni persona che si accosta al sistema di intervento. Il
rischio è che la Doppia diagnosi diventi meno di una diagnosi.
4
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PARTE PRIMA: LA TEORIA
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Capitolo I
Doppia Diagnosi:
più o meno di una diagnosi?
Introduzione
Il concetto di Doppia Diagnosi rimanda alla netta separazione esistente tra
Servizi Psichiatrici e Servizi per le Dipendenze, scissione che si è creata con
la nascita dei servizi per le tossicodipendenze avvenuta in circostanze
storico-politiche particolari.
Se andiamo ad analizzare i percorsi istituzionali che hanno condotto alla
nascita dei servizi per l’assistenza ai tossicodipendenti e negli ultimi
decenni alla nascita dei Ser.T (Lg. 685/75 e 162/90), vediamo come questi
siano stati fortemente influenzati sia dal timore di patologie emergenti come
l’HIV, sia dalla spinta al controllo del “fenomeno sociale” della
tossicodipendenza, di per se stesso fenomeno allarmante e all’epoca della
sua iniziale diffusione, poco conosciuto nei suoi risvolti psicopatologici.
Ciò può spiegare perché i servizi per le tossicodipendenze si sono non di
rado orientati, nonostante una dimensione organizzativa di équipe medico-
psico-sociali, su un approccio centrato in modo prevalente sull’utilizzo del
trattamento sostitutivo
4
o su un invio in comunità terapeutica ed una
conseguente ridotta attenzione alla dimensione psicopatologica (tra l’altro il
D.M.. 444/90, non garantisce la presenza nell’organico la figura dello
psichiatra). Nello stesso periodo i servizi per la salute mentale si trovavano
nel pieno di un percorso di presa di distanza da un mandato di controllo
(movimento di deistituzionalizzazione, L. 180/78) e stavano sviluppando la
loro pratica terapeutica prevalentemente orientata al trattamento della
4
Ovvero il trattamento dei tossicodipendenti con metadone o buprenorfina in sostituzione
della sostanza stupefacente abusata.
6
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psicosi. La creazione di servizi che si occupano di dipendenze patologiche
separati dai servizi psichiatrici, appare il prodotto di una modalità scissa di
affrontare il problema della salute mentale: da una parte i Ser.T., investiti di
un mandato di controllo forte, nati con debole attitudine terapeutico-
diagnostica e dall’altra i Servizi di Salute Mentale con un’attenta dialettica
interna sulle problematiche del mandato di controllo e della
deistituzionalizzazione.
Infine possiamo notare come, i pazienti che afferiscono ai Servizi per le
Tossicodipendenze, appaiano portatori di problematiche connesse
all’impulsività [Degli Stefani, 2000: 58].
Si può facilmente osservare che l’impulsività tende ad indurre risposte
istituzionali di controllo e ciò potrebbe spiegare il fenomeno della
“espulsione” operata dalla psichiatria istituzionale nei confronti di quel
segmento di psicopatologia che è correlato ai disturbi da uso di sostanze.
La presenza di due soggetti istituzionali che si trovano frequentemente a far
convergere la loro operatività comporta una serie di difficoltà, alcune delle
quali sono connesse all’oggetto dell’intervento, altre più generali sono
collegate ai differenti percorsi storici e alle differenze di formazione e di
linguaggio.
La non convergenza delle definizioni tra gruppi istituzionali diversi, porta
un certo livello di malinteso che, insieme alle difficoltà e alle ansie sollevate
dal contatto con la patologia, ostacolano la corretta comunicazione e
causano “dissidi apparentemente insanabili”. Tale problema può essere
affrontato o ridotto mediante l’elaborazione di uno schema di riferimento
condiviso [Fischetti et al., 1992: 54-72], il che si ottiene, oltre che con la
fatica del confronto quotidiano, mediante percorsi di formazione comune.
Possiamo anche notare che i servizi di salute mentale e quelli per le
tossicodipendenze, configurano sul territorio due offerte terapeutiche
apparentemente ben distinte tuttavia, solo una parte degli utenti che
afferiscono ai servizi è chiaramente definibile in base al tipo di problematica
presentata. Esiste cioè una parte importante di pazienti che, per il tipo di
manifestazione sintomatologica e per il decorso, possono presentare
7
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alternativamente le caratteristiche di utilizzatori del servizio di salute
mentale o di quello per le tossicodipendenze, inoltre alcuni pazienti
presentano problematiche di gravità tale da non poter essere adeguatamente
trattati da un solo servizio [Biondi, Di Mauro 2001: 35].
La principale conseguenza è che esiste una zona di sovrapposizione tra
l’utenza delle due istituzioni, una interfaccia non ben definita, portatrice di
problemi di appartenenza e di competenza, da cui nasce una non chiarezza
dei limiti di responsabilità e degli obblighi istituzionali che diventa terreno
generatore di conflitto. Infatti è possibile che di fronte ad utenti
particolarmente difficili si inneschi il meccanismo dello scarico della
responsabilità, con tentativi di attribuire la competenza del trattamento non
tanto sulla base delle necessità del paziente, quanto piuttosto nel tentativo,
più o meno consapevole, di evitare la presa in carico
5
.
Per comprendere tali fenomeni è utile considerare che il paziente con la sua
sofferenza, è portatore di un nucleo emozionale e che l’operatore e
l’istituzione di cui fa parte, hanno la funzione di un contenitore per tale
sofferenza. Quando l’intensità dell’emozione (rabbia, dolore, impotenza
ecc.) portata dal paziente è alta “l’operatore tende ad attivare altri operatori
per una sorta di insostenibilità del caso che però non confessa a se stesso e
tende a considerare inesistente” [Correale, 1991: 105-115].
Quindi nel caso di pazienti gravi, si attiva la tendenza a cercare di
“distribuire” l’emozione tramite il coinvolgimento di più operatori in una
sorta di “acting di gruppo”. Maggiore è la gravità del caso, maggiore sarà
questa tendenza e la presenza di una “terra di nessuno” facilita questi
meccanismi di “scarico”
6
.
Inoltre, quando ci si occupa di Doppia Diagnosi dobbiamo considerare il
problema della tipologia dei pazienti, cioè dobbiamo considerare che si
tratta in genere di pazienti con gravi disturbi di personalità [Cancrini et al,
2000: 27].
5
Queste osservazioni sono state tratte dal sito www.ristretti.it, consultato in data 19/11/06.
Il è sito curato dal Centro di Documentazione Due Palazzi, del Carcere di Padova e dalla
Federazione Nazionale dell’informazione dal carcere
6
SI vedano le rassegne stampa riportate nel sito www.ristretti.it, nella sezione “Carcere e
Salute”.
8
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Pazienti di questo tipo, per il loro funzionamento mentale, sono portatori di
alta potenzialità conflittuale, si tratta di pazienti con bassa percezione delle
proprie difficoltà, con tendenza alla scissione, per cui mostrano aspetti
contraddittori di sé inducendo divisioni tra i curanti (alleato – nemico;
buono – cattivo).
Infine va ricordato che è caratteristico di questo tipo di pazienti porsi in
rapporto effettuando richieste di aiuto in modo contraddittorio o perverso,
per esempio mancando agli appuntamenti dopo aver caricato l’operatore di
preoccupazione o svalutandolo nel chiedere cose impossibili. Tali modalità
di relazione, ben conosciute agli operatori dei servizi per le
tossicodipendenze, oltre ad essere molto faticose inducono reazioni di
rifiuto.
Trattare casi con Doppia Diagnosi, significa misurarsi con situazioni che si
collocano sulla “linea di confine” istituzionale, per questo deve essere
effettuato un lavoro di definizione dei ruoli e delle funzioni dei soggetti
istituzionali coinvolti. La responsabilità della cura, quando sono coinvolte
più istituzioni, non può rimanere indefinita, come succede nel caso di una
generica “collaborazione”. Un servizio e all’interno di esso un operatore,
deve assumersi la responsabilità prevalente del caso e quindi il ruolo di
garante dello svolgimento del progetto terapeutico mentre l’altro servizio
viene attivato su richiesta, in qualità di consulente.
Il servizio responsabile è titolare del progetto terapeutico e del suo sviluppo,
all’interno di esso un operatore può assumere la funzione di case manager
mentre il servizio consulente è responsabile nel proprio ambito di
consulenza (diagnosi e trattamento) ed ha un ruolo più circoscritto, orientato
alla soluzione di un problema. Tali ruoli e funzioni sono complementari e
possono essere ridefiniti tenendo conto anche della specifica situazione
locale e delle risorse disponibili, come per esempio la presenza o meno di
uno psichiatra all’interno del Ser.T.
9
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1. La Doppia Diagnosi
Il termine anglosassone dual diagnosis o dual disorder, tradotto come
“Doppia Diagnosi” e spesso usato non correttamente, risulta essere
conseguenza del sempre più diffuso uso del sistema diagnostico statistico
DSM
7
dell’American Psychiatric Association organizzato in cinque assi
valutative.
Il termine, però, nel suo significato profondo indica da una parte una
condizione clinica di associazione fra disturbo correlato a sostanza e altra
psicopatologia, dall’altra indicando, nella separazione di due fenomeni (in
realtà strettamente collegati), il tentativo di comprendere, semplificandolo,
un fenomeno molto più complesso [Carrieri, Catanesi 2004: 19].
La concezione dicotomica derivante dal termine “Doppia Diagnosi” si
evidenzia a vari livelli: clinico, socio-culturale, legislativo-istituzionale. Sul
piano clinico l’ambiguità è evidente nella considerazione che questi soggetti
sono una competenza dei soli servizi per le tossicodipendenze; la
separatezza è ancora più evidente sul piano socio-culturale con, da un lato, il
riduttivismo farmacologico
8
e, dall’altro, interventi di ordine educativo-
riabilitativo, spesso lontani da ogni presupposto clinico-psicopatologico. La
separatezza tra i due fenomeni è stata, poi, ratificata in Italia dalla Legge
685/75
9
che sanciva una distinzione di fatto tra i soggetti tossicodipendenti e
quelli con disturbi psichiatrici e, più tardi dalla legge n. 162 del 1990
10
, che
separava chiaramente queste due categorie di pazienti.
Negli ultimi tempi si parla sempre più spesso, soprattutto nei paesi europei,
di una coesistenza di quadri i cui elementi si articolano l’un l’altro in quadri
clinici che non sono una semplice concatenazione di casualità. Alla luce di
queste osservazioni è preferibile l’uso del termine “comorbilità” con cui
7
Ovvero Diagnostic Statistic Manual
8
Tendenza a risolvere problematiche psico-sociali con terapie farmacologiche.
9
Legge 22 dicembre 1975, n. 685 Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope.
10
Legge 26 giugno 1990, n. 162. Aggiornamento, modifiche ed integrazioni della legge 22
dicembre 1975, n. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza.
10
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intendiamo la presenza di più di uno specifico disturbo, evidenziabile in una
stessa persona, in un certo intervallo di tempo.
Il termine “Doppia Diagnosi” può risultare piuttosto ambiguo per la
complessità diagnostica dei soggetti che presentano un quadro di
comorbilità: nella maggior parte dei casi le varie condizioni
psicopatologiche si influenzano reciprocamente e i quadri risultano molto
complessi.
Il termine comorbilità, indica una coesistenza di psicopatologie senza far
riferimento a modelli biologici o etiologici, ma cerca di riunire
epistemologicamente e organizzativamente, ciò che in senso legislativo
(legge 685/75 e DPR 309/90) e in senso ideologico è stato sempre separato.
La dipendenza patologica da sostanze, infatti, assume per sua natura una
connotazione di particolare complessità. Essa nasce dalla convergenza nel
singolo consumatore:
- degli effetti farmacologici delle sostanze d’abuso;
- della vulnerabilità psico-biologica del paziente;
- dell’influenza di numerosi fattori socio-ambientali.
Edwards et al. [1981: 225-242] in un lavoro per l’Organizzazione Mondiale
della Sanità, hanno sottolineato che tra disturbi mentali e uso di sostanze
possono intercorrere tre diversi tipi di associazione: a) i disturbi mentali
causano l’assunzione di sostanze, b) i disturbi mentali conseguono all’uso di
sostanze, c) tra disturbi mentali ed uso di sostanze esiste solo
un’associazione casuale. Queste sono naturalmente, e credo debbano
rimanere tali, delle categorie a cui riferirsi per le quali sintetizzare e
semplificare una correlazione che come sappiamo è ben più complicata.
Thornicroft [1990: 25-33] dice invece di non utilizzare modelli semplicistici
di associazione causale, del tipo che una certa sostanza “provoca” un dato
quadro mentale, inoltre egli ritiene in accordo con altri che un’associazione
epidemiologica fra l’uso di una determinata sostanza e lo sviluppo di una
psicosi possa essere spiegata sulla base delle seguenti spiegazioni: a) la
sostanza può produrre una psicosi “ex novo”, b) la sostanza può rivelare una
psicosi latente, c) la sostanza può precipitare la ricaduta di una pre-esistente
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psicosi, d) la psicosi può indurre ad una aumentata assunzione di sostanza,
e) la relazione tra sostanza e psicosi è spuria
11
, f) non vi è nessuna relazione
tra sostanza e psicosi.
La creazione di servizi integrati sembrerebbe la soluzione ideale per seguire
e trattare le due patologie. Il modello integrato sarebbe il più adatto a
pazienti con Doppia Diagnosi, che presentano forme acute o sub-acute di
disturbi psichiatrici maggiori e forme di dipendenza non stabilizzata.
L’uso di sostanze può nascere in risposta al disturbo psichiatrico. Ci sono
pazienti con disturbo psichiatrico primario (capita spesso nella schizofrenia)
che assumono sostanze a scopo auto-terapico, per alleviare la sofferenza
psichica causata da una psicopatologia; le sostanze compensano i deficit
nell’organizzazione difensiva dell’Io del tossicomane, rappresentano un
sostegno all’identità precaria del tossicomane, garantiscono una certa
modulazione affettiva, favoriscono la fuga-evitamento dei conflitti e
facilitano l’espressione delle proprie capacità e l’inserimento sociale. Ci
sono anche pazienti con disturbo da uso di sostanze primario che sviluppano
sintomi psichiatrici secondari durante l’astinenza o l’intossicazione; infatti
l’uso di sostanze può causare la comparsa di una sintomatologia psichiatrica
del tutto simile ad una psicopatologia primaria.
Le sostanze, con i loro effetti acuti e cronici, sono in grado di esacerbare i
sintomi psicopatologici e contribuiscono a mantenere la resistenza alla
terapia.
Si arriva poi spesso a constatare come i pazienti trattati farmacologicamente
per controllare quei disturbi psico-sociali (anomalie del comportamento),
che peggiorano in genere in seguito all’uso di sostanze, vadano spesso a
cercarne in maggior quantità per antagonizzare gli effetti del lavoro
terapeutico. Esiste dunque un’automedicazione riferita soprattutto agli
effetti legati ai farmaci utilizzati con questi soggetti (effetti collaterali) ed
un’automedicazione legata alle conseguenze (depressione, appiattimento,
deriva sociale ecc.) che certe terapie – soprattutto i neurolettici e il
metadone – inducono in queste popolazioni di utenti. Il problema della
11
Ovvero quando esiste correlazione apparente, ma i due fenomeni non sono direttamente
collegati.
12
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Doppia Diagnosi è di forte attualità perché in queste situazioni complesse ha
dominato la tendenza ad effettuare un’unica diagnosi basata sul quadro
clinico dominante: o disturbo psichiatrico o disturbo da assunzione di
sostanze. Ciò spesso ha comportato un approccio terapeutico unidirezionale
con risultati inferiori a quelli attesi. Inoltre i disturbi da assunzione di
sostanze in passato sono stati spesso considerati più un problema di
devianza sociale che non una sindrome psichiatrica, mentre al giorno d’oggi
vengono considerati a tutti gli effetti un disturbo psichiatrico. Non
dimentichiamo infine che, data l’ampia diffusione nella popolazione
generale dell’uso proprio o improprio di farmaci e sostanze lecite o illecite,
in tutti i quadri psichiatrici si pone il problema delle condizioni
subsindromiche
12
di assunzione di sostanze.
1.1 Doppia Diagnosi: problema e priorità della sanità pubblica
L’Italia ha una lunga tradizione di riforme dei servizi in cui forse la
dimensione etico-politica ha sempre dominato a discapito della ricerca
scientifica ed empirica.
La riforma psichiatrica del 1978, riconosciuta come una delle più radicali e
innovative, nonostante i suoi indiscutibili risultati, si è portata dietro una
serie di polemiche e disservizi tutt’oggi verificabili e riscontrabili.
12
Generalmente viene definito subsindromico (o anche “sottosoglia”) ogni disturbo che
non abbia i requisiti minimi richiesti per essere inquadrato in una delle categorie
diagnostiche dei moderni manuali di frequente uso nella pratica clinica. vengono
definite “al limite”, sotto la “soglia” patologica, senza cioè “evidenti”, “gravi”
manifestazioni psicopatologiche e che dimostrano una realtà clinica apparentemente
trascurabile sul funzionamento generale dell’individuo. Tuttavia nei casi in cui la
sofferenza soggettiva, non si associ ad alterazioni biologiche o organiche conclamate,
può essere elaborata comunque una diagnosi psichiatrica e la scelta è costruita sulla
base dei comuni criteri operativi, definiti clinicamente come ad esempio: la
presenza/assenza di sintomi caratteristici, la durata della sintomatologia, il rapporto tra
disagio psichico e compromissione di una o più aree di funzionamento lavorativo,
scolastico, familiare o sociale. Esistono infatti delle condizioni di sofferenza soggettiva
che, per varie ragioni, non giungono a configurarsi né come malattia somatica, né come
disturbi psichiatrici con significatività clinica. Una condizione di “malessere” non
sostenuta da alcuna causa organica può non avere significato psichiatrico, poiché non
sono soddisfatti i criteri diagnostici di nessun disturbo in assenza di criteri minimi
necessari (tipo di sintomi, numero di sintomi, loro intensità e durata). Si parla appunto,
in questi casi, di alterazioni “subsindromiche” o “sottosoglia”.
13