2del Golfo Partenopeo e del territorio che comprende le terre vesuviane e le terre
flegree che dai tempi di Plinio, è denominato “Campania Felix”.
Senza dubbio, il paesaggio appena descritto, trascorsa la fase aulica della “Coppa
d’Oro”, in seguito alla generale crisi della romanità prima, e all’inizio delle
incursioni saracene dopo, subì un processo di generale degrado ed impoverimento.
È possibile, tuttavia, rintracciare in questo periodo, così ricco e complesso, una
costante destinata a mantenere vivo l’interesse per questo luogo: la pratica dei
bagni puteolani che, già importantissima in età classica, perdurò per tutto il
medioevo.
2
L’analisi della bibliografia relativa a queste isole, pur nella sua vastità,
mostra, almeno all’occhio di chi persegue gli obiettivi di uno studio, squilibri e
carenze. Squilibri nel senso che le opere di letteratura e poesia predominano
rispetto a quelle che potremmo definire di saggistica; e che tra queste ultime, i
titoli che si riferiscono alle impressioni di viaggio, a momenti, personaggi,
situazioni di vita isolana sovrastano rispetto ai testi e alle monografie che, con
metodi e risultati più propriamente scientifici, hanno indagato sulla storia e sul
territorio. Ciò vale soprattutto per il lungo arco temporale, che è il Medioevo.
Il viaggiatore medievale, infatti, il pellegrino precisamente, non è portato
all’osservazione e alla descrizione: egli ha una visione del mondo come
un’esperienza eminentemente spirituale.
Il territorio sfugge alla sua curiosità o vi rientra unicamente come veicolo,
exemplum di verità trascendentali. Non è un caso, infatti, che la tappa per
eccellenza dei viaggiatori medievali sia Roma.
3
La visita ai Campi Flegrei, invece,
2
Per una trattazione dell’ argomento si veda C. Russo Mailler, La Tradizione medievale dei Bagni
Flegrei, in “Puteoli” III, 1979, pp.141-153; nel testo si fa riferimento a E. Percopo, I Bagni di
Pozzuoli, poemetto napoletano del XIV secolo, in “Archivio Storico per le Province Napoletane” n
° XVII, 1886, pp.597-750. Cfr. anche E. Pontieri, Baia nel Medioevo, in I Campi Flegrei
nell’archeologia e nella storia cit., pp.377-410; R. Annecchino,I Bagni di Baia nel Quattrocento.
Appunti Storici, Napoli 1985; R. Di Bonito/R. Giamminelli, Le Terme dei Campi Flegrei, Milano/
Roma 1992.
3
Sul viaggio a Roma durante il Medioevo si veda, in particolare, E. e J. Garms, Mito e Realtà
nella cultura europea. Viaggio e idea, immagine e immaginazione, in Storia d’Italia, Annali 5,
Torino 1982, pp. 563-662.
3costituiva una fugace sosta in una terra dalle virtù prodigiose o, ancora meglio,
una tappa inserita nell’itinerario per raggiungere la Terra Santa.
4
I primi contatti delle isole partenopee con la cultura ellenica si ebbero nell’età del
bronzo (II millennio a. C.), quando la formazione di una società culturalmente
aperta e dinamica favorì gli scambi ed i rapporti fra popolazioni anche di aree
molto lontane.
5
Come dimostrano le suppellettili ritrovate a Polla, Paestum, Ischia
e Vivara, a partire dal XVI secolo a.C. le isole e le coste dell’Italia meridionale
rientrarono nelle rotte commerciali dei Micenei che, coerentemente al loro
modello di sviluppo, realizzarono una fitta rete di rapporti tra mondo egeo e
civiltà italiche. La presenza micenea nell’Italia meridionale divenne costante e la
frequenza di questi traffici commerciali determinò un radicale sconvolgimento del
sistema economico preesistente: ci fu un passaggio da un sistema economico a
carattere rurale ad un altro aperto alla nuova dimensione dello scambio mercantile
marittimo.
I Micenei intendevano soprattutto migliorare la rete dei collegamenti commerciali
che, partendo dalle Puglie, con approdi sulla costa calabra e nelle isole Eolie e
Flegree, permetteva loro la supremazia nel Mediterraneo. In questa linea di traffici
mercantili est-ovest si inserì l’isolotto di Vivara
6
, geologicamente collegato a
Procida da un istmo sottomarino. Vivara, quindi, nel periodo compreso tra il XVI
e il XIV secolo a.C., fu un approdo preferito a Procida e subì, prima di questa, un
processo insediativo che ribaltava il rapporto gerarchico ora esistente fra le due
isole. Alla grande ricchezza di testimonianze della vivace evoluzione urbana di
4
Cfr. Itinerarium Bernardi Monachi Franchi, in Itinera Hierosolomitana et descriptiones Terrae
Sanctae etc., edd. T. Tobler e A. Moliner, 1, Genevae 1880, pp.309-320. “Gli arrivi e i paesaggi
attraverso gli strati dell’Italia Meridionale, pur nella varietà della loro composizione etnica e
politica, confermano la tesi della funzione mediatrice tra Oriente e Occidente che essa svolge
durante il Medioevo. Vi si giungeva per due vie: dalla strada adriatica che portava ai porti pugliesi
e, attraverso il passo del Piano delle Cinquemiglia, a Capua, oppure da Roma per la via Appia fino
a Capua. Da questa città partiva la via Campana, ancora oggi riconoscibile, diretta a Pozzuoli”,
così C. Russo Mailler, op.cit.,p. 142.
5
Cfr. B. D’Agostino, La Campania nell’età del Bronzo e del Ferro, Atti della XVII riunione
scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze 1975.
6
Sull’ argomento si veda: J. Beloch, Campania, Napoli 1989, pp.13-18; Napoli antica, catalogo
della mostra, Napoli 1985, pp. 35, 50. Nel volume sono inoltre schedati moltissimi resti ceramici
provenienti da Vivara.
4Vivara in questo periodo storico, corrisponde una quasi totale assenza di notizie su
coevi insediamenti a Procida. Questo indurrebbe a pensare che Vivara, poiché
territorialmente meno estesa di Procida, fosse più adeguata alle necessità e ai
modelli insediativi dei Micenei.
In seguito, a partire dal XII secolo a.C., il quadro economico muta con la
riduzione della presenza egea nelle isole, il loro progressivo indebolimento
economico e lo spopolamento di Vivara.
Se presenze umane databili intorno al XV secolo a.C. sono state accertate in varie
zone del territorio flegreo, è a partire dall’VIII secolo a.C. che l’area subisce la
principale trasformazione territoriale, divenendo cuore della colonizzazione greca
in Campania. Inizialmente ne furono interessate le isolette costiere
7
; non abbiamo
testimonianze concrete che ci possano far ricostruire la situazione procidana in
questo contesto, ma possiamo ipotizzarla direttamente collegata con quella
ischitana, con un territorio quasi del tutto spopolato e pochi, piccoli insediamenti
agricoli concentrati lungo la costa.
Procida, benché citata raramente ed in modo contrastante nei testi dell’epoca
8
,
essendo così vicina a quell’area che i Romani chiamarono “Coppa d’Oro”, risentì
quasi certamente del benessere di quest’ultima. È molto probabile, infatti, che
l’isola sia stata abitata stabilmente dai Romani che la ricordano come “luogo di
delizie” per la fertilità della sua terra e la squisitezza dei suoi frutti.
A partire dal III secolo d.C. si registrò in Campania, come in tutta l’Italia
meridionale, una profonda crisi economica, provocata dalla più generale crisi
politica della struttura economico-amministrativa romana. Anche le isole furono
coinvolte in questa situazione di decadimento. L’interruzione dei collegamenti
commerciali e le prime invasioni dei barbari, Visigoti e Vandali, impedirono ogni
rapporto con la terraferma. Procida, in questo periodo, risulta dipendente dalla
Ducea napoletana, successivamente chiamata “Liburia Ducale”, che si estendeva
7
J. Beloch, op.cit.
8
Per alcuni autori l’isola in questo periodo è famosa per la fertilità del suolo; altri invece, come
Stazio, per descrivere l’isola usarono l’aggettivo di “aspera” o “inculta”; Giovenale la dichiara
“misera e solitaria dimora”.
5da Cuma al Vesuvio, comprendendo anche le isole. Con l’espansione della Ducea,
la zona flegrea venne divisa nei due comitatus di Pozzuoli e Cuma. A quest’
ultimo appartenne l’isola di Procida che, già devastata dalle incursioni dei barbari,
cominciò a subire le prime incursioni saracene
9
.
Queste devastarono nell’845 d.C. la città di Miseno, i cui abitanti, per volontà del
duca di Napoli, si rifugiarono a Procida, ritenuta più sicura per la presenza della
rocca della Terra da cui si aveva il controllo sul mare. Quindi la nostra isola,
anche se per un breve periodo, divenne un punto di riferimento per le popolazioni
che abitavano le coste circostanti, ormai abbandonate.
Ben presto anche Procida fu soggetta alle devastanti incursioni barbare e anche
qui tale presenza provocò una radicale trasformazione del paesaggio. Le case
rurali sparse nella campagna e quelle sulle spiagge, furono presto abbandonate e
la popolazione avvertì l’esigenza spontanea di rifugiarsi sull’unico punto
naturalmente difeso: la Terra.
Nel periodo alto-medievale si assiste ad una serie di fenomeni complessi ed
articolati che portano ad un nuovo regime di potere, nel quale la Chiesa viene a
definirsi quale fulcro della vita politica.
In termini generali, a Procida, si assiste al progressivo degrado dell’economia
mercantile, resa impraticabile dalla persistenza delle incursioni determinate dalla
avanzata mussulmana
10
.
È rilevante, durante questa fase storica, la funzione organizzativa delle grandi
abbazie, specialmente benedettine, e dei centri monastici basiliani ai fini della
9
G. Cassandro, Il ducato bizantino, in Storia di Napoli, Napoli 1969, vol. II, tomo I; M.
Parancandolo, Procida dalle origini ai tempi nostri, Benevento 1893, pp. 144-150; E. Pontieri,
Baia nel medioevo, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, XV. Per notizie sulle
incursioni saracene nel mezzogiorno cfr. N. Cilento, L’Italia meridionale longobarda, II ed.
riveduta e accresciuta, Milano/Napoli 1971.
10
M. Barba/ S. Di Liello/ P. Rossi, Storia di Procida, Napoli 1994, p. 168. Con la conquista
saracena, iniziata nell’ 827, soprattutto in Sicilia e anche nell’ Italia meridionale, sono introdotti
nuovi tipi di colture derivanti dalla presenza araba; “Si apre un periodo di innovazioni tecniche e
colturali particolarmente fruttuoso, con lo sviluppo di nuovi insediamenti e di importanti opere
idrauliche ed irrigue, e con l’ introduzione o diffusione di nuove colture, come quelle del riso, del
pistacchio, della canna da zucchero, e particolarmente degli agrumi e di molte piante officinali e
da giardino: tutti processi che, ancora oggi, hanno lasciato larghe tracce della terminologia
agricola araba nelle parlate della Sicilia, e di qui sovente, per l’ Italia tutta”.
6produzione agricola e dell’introduzione di nuove tecniche ereditate dalla
tradizione classica e dai testi agronomici dell’antichità.
A causa dei saccheggi e delle devastazioni, con il relativo degrado dei centri di
vita, si assiste al riemergere di tipi di stanziamento già utilizzati in epoca
preromana. Così i borghi posti sulle alture e i luoghi naturalmente difesi
assurgono a centri di popolamento ed organizzazione del paesaggio agricolo.
Anche a Procida, in pratica, si realizza un tale tipo di struttura socio-economica,
con una concentrazione della popolazione sulla Terra Murata e con il relativo uso
dei suoli agricoli ai piedi dell’ altura
11
Nell’isola si perseguì una politica di accorpamento delle terre e una conduzione
accentrata dei poderi agricoli, che venivano ripartiti tra gruppi di massari, secondo
l’istituzione del diritto enfiteutico
12
. Ritroviamo a Procida un tale assetto
territoriale durante tutta l’epoca feudale, sino al XVI secolo, periodo nel quale
l’isola fu governata dalle dinastie dei da Procida (dal secolo XI al 1339) e poi dai
Cossa (sino al 1529), insieme con la presenza degli ordini monastici.
La Terra Murata costituì per lungo tempo l’unico nucleo abitato dell’isola, il cui
territorio fu adibito prevalentemente a coltivazioni. L’area agricola, “juso” o
anche “ajuso”, corrisponde, dalle origini, alla parte centrale per lo più
pianeggiante.
Questa distinzione che indica nella Terra il luogo urbanizzato, la vera e propria
città, perdura sino alla metà del XVII secolo e diventa meno marcata con lo
sviluppo dei borghi. A partire da quest’epoca, in coincidenza con la fine delle
invasioni dei pirati mussulmani
13
, i luoghi abitativi saranno preferibilmente scelti
più in vicinanza del mare, ed è da questo momento che Terra Murata diviene
progressivamente una zona, comunque rappresentativa, ma meno inserita nella
dinamica dello sviluppo economico e sociale di Procida.
11
E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961.
12
I Cistercensi furono i precursori di tale organizzazione territoriale, ma si tratta di un sistema che
trova ampia diffusione nel tempo, anche presso altri ordini religiosi. E. Sereni, o.c..
13
M. Parascandola, o.c.; E. Pontieri, o.c.; G. Cassandro,o.c..
7Storia, natura ed economia sono, quindi, i fattori intrecciati che hanno
condizionato il sistema insediativo dell’isola. L’ambiente naturale, limitato ma
vario, è stato, per i procidani, forza ostile e fonte di sussistenza in un tempo;
l’adeguamento alla realtà della natura si accompagna agli eventi storici e alla
capacità degli isolani di volgere le casualità del territorio a proprio utile.
Nelle pagine che seguiranno si intende identificare lo spazio geografico medievale
di Procida. Sarebbe, inoltre, illogico parlarne, non facendo riferimento a Miseno
e a Monte di Procida. Territori, questi, storicamente legati per ragioni, prima
socio-politiche, poi culturali. Si vuole dunque fornire un primo inquadramento
topografico dei territori in questione durante la fase dell’Evo Medio, procedendo
altresì ad un censimento delle evidenze strutturali che risultino pertinenti, sebbene
talvolta in misura parziale, all’epoca di nostro interesse.
8CAPITOLO I
§ 1 - Le incursioni barbare e Procida ducale
§ 2 - La Pieve e l’Abbazia Benedettina
§ 3 - L’età feudale a Procida
§ 4 - Dopo Giovanni da Procida
§ 5 - Misenum altomedievale
§ 6 - Le invasioni longobarde
§ 7 - Le invasioni saracene
§ 8 - La Chiesa miseno-montese
§ 9 - Il borgo miseno-montese all’inizio del bassomedioevo
91 - Le incursioni barbare e Procida ducale
Dal quinto all’ottavo secolo i barbari portarono “col ferro e col fuoco” la
desolazione nelle terre d’Italia. I Visigoti di Alarico (409-410) portarono strage
ovunque. Devastarono la Campania; Napoli fu salva, ma le isole di Procida ed
Ischia non furono risparmiate né dai Visigoti né dai Vandali di Genserico (455)
14
.
Nel 489 l’Italia fu invasa dagli Ostrogoti al comando di Teodorico che nel 493
uccise Odoacre, salito al potere quale re d’Italia nel 476. Durante la signoria degli
Ostrogoti, così come in età imperiale, Procida e le altre isole campane
appartennero al territorio napoletano
15
.
Teodorico creò i “Comiti o Conti”, governatori civili delle città
16
. Alla città di
Napoli che visse, in quegli anni, un fiorente commercio marittimo, fu destinato un
Conte di primo ordine; Napoli, dunque, costituì con il suo territorio, una Contea.
Ai centri meno importanti e più piccoli veniva inviato un amministratore di grado
inferiore che ne curasse la giustizia.
Dopo il crollo del regno ostrogoto, Napoli fu assoggettata all’impero bizantino e
rimase alle sue dipendenze fino agli scorci del secolo ottavo.
Dopo la morte di Giustiniano (565), durante l’esarcato di Longino, successore di
Narsete, l’imperatore Giustino II decise di cambiare l’ordinamento delle città
campane. Napoli, Gaeta, Amalfi, Sorrento ed altre città ebbero, quale supremo
magistrato civile, un duca, cosicché le precedenti contee di primo ordine
divenivano ducee
17
. A ciascuna città della ducea di Napoli il duca destinava un
conte in qualità di governatore, capitano e giudice di prima istanza.
Il glorioso Municipium miseno-montese, a seguito delle decadenza che attraversò
l’impero romano, era divenuto contea al tempo di Teodorico (493) ed era stata
14
M. Parascandola, Cenni storici intorno alla città ed isola di Procida, Napoli 1892; V. Glejieses,
Storia di Napoli dalle origini ai nostri giorni, S.E.N., Napoli 1978.
15
Procida ed Ischia anche ai tempi di Teodorico “furono membra di Napoli, e papa Gregorio I
attesta che, in accordo con ciò che fu stabilito dai “passati Principi”, essa sola ne era padrona.
(Greg. Reg. X, 52 ).
16
V. Glejieses, o.c.; G.Galasso,Il regno di Napoli, in Storia d’Italia, Napoli 1992, vol. XV.
17
Con tale riforma scomparivano dagli atti ufficiali i nomi di presidi, consolari e correttori, che
erano stati conservati dai Goti, e le mansioni delle magistrature soppresse furono conferite al duca.
10
confermata come tale da Giustiniano (553) e da Giustino II (567). Il conte della
nostra città, secondo le norme del tempo, non aveva competenze militari, ma era
supremo amministratore e giudice di primo grado, nell’ambito di tutta la sua
giurisdizione distrettuale, compresa Procida, che era una dipendenza della nostra
contea
18
.
A Procida non vi fu mai, che sappiamo, un conte propriamente detto, per cui è
ipotizzabile che il duca di Napoli inviasse direttamente nell’isola un
amministratore, o il territorio isolano lo si comprendeva nel distretto della contea
di Miseno. La prima ipotesi non regge alla critica storica, perché non se ne ha
alcun indizio, mentre, ad esempio, per l’isola di Ponza è documentato che l’Ipato
(duca) di Gaeta da cui dipendeva vi mandava un patrizio con poteri discrezionali.
Governava Napoli il duca Maurenzio (592-602), quando il patrizio napoletano
Teodoro, concessionario di vigneti nell’isola di Procida, si recava a Roma e si
rivolgeva al papa Gregorio I (590-604), implorando giustizia contro il conte di
Miseno, Vettano; questi gli avrebbe usato violenza, mediante l’illecita richiesta di
un contributo annuo di venti urne di vino, quale canone sui fondi rustici che egli
deteneva nell’isola di Procida. Teodoro asseriva che in passato egli aveva donato
per carità, per due anni di seguito, al conte predecessore, Comitazio, la medesima
misura di vino e che il nuovo conte, Vettano, pretendeva come se fosse un tributo
dovuto. Il papa incaricò Maurenzio, duca di Napoli, perché si occupasse delle
questione e appurasse la verità.
Abbiamo testimonianza di tale disputa in una lettera di papa Gregorio I, e
precisamente nell’epistola LXIX- libro IX
19
.
Ne riporto soltanto la parte di nostro interesse.
“Gregorius Maurentio magistro militum.
18
G. Jatta, Discorsi sulla ripartizione civile ed ecclesiastica sull’ antico agro cumano, misenese,
baiano, puteolano e contese, Napoli 1843. “Il conte non era elettivo, ma era designato dal vescovo
locale, il quale, aveva sede a Torre di Cappella e aveva il potere di controllare l’operato del
governatore, difendendolo contro le eventuali ingerenze del pontefice”.
19
Gregorii Registri, tomo II- parte I, IX,69, in Monumenta Germaniae historica, Ed. L. M.
Hartmann, Hannover 1893.
11
Valde mirati sumus, ut vobis in Neapolitana civitate positis, venire ad nos pro
quibusdam causis Theodorus vir memorandum presentium portitor, cogeretur,…..
…..Praeterea indicavit nobis supradictus portitor, Vectano qui Comes fuit in
Misenati castello, propterea quod eum nobilem fuisse noverat, et paupertate nimia
laboraret, vigenti urnas vini per duos annos de insula Prochyta, quae ei vicina
erat, misericordiae intuitu se fuisse largitum, et nunc eas de eadem insula
successorem ipsius tamquam debitas violenter exigere. Et quoniam hoc ne de
cetero tentari debeat, postulat prohiberi, Gloria vestra curat addiscere. Et si hoc
quod queritur, veritate subsistit, et haec ante consuetudo non fuit, huiusmodi
gravamen iustitia suadente compescat, et studeat ut pietatis administratio in
prefata insula onus preiudicii non imponat….”
Dalla lettera di Gregorio sembra, dunque, potersi ritenere che l’isola, sebbene
facesse parte del territorio di Napoli, per l’amministrazione e la giustizia fosse
soggetta al Conte di Miseno.
Sul declinare dell’ottavo secolo il Ducato di Napoli si era assicurato una propria
autonomia: aveva duchi o consoli propri, eletti dal voto popolare, non più mandati
dall’imperatore di Costantinopoli. Da allora la ducea napoletana fu detta anche
Liburia ducale o Campania
20
.
Tuttavia, altre incursioni avrebbero ben presto portato nuove rovine. Nell’anno
812 una grossa armata di Saraceni giunse nel Mar Tirreno; l’anno successivo una
seconda armata di quaranta navi approdò sulle coste della Liburia.
Procida ne fu colpita in un periodo compreso tra l’845 e l’880, durante il quale
anche la città di Miseno fu saccheggiata e distrutta. Fu in tali circostanze che il
territorio misenate, per volontà del duca di Napoli, venne aggregato alla nostra
isola nella quale gli abitanti di Miseno trovarono rifugio
21
.
20
V. Glejieses, o.c.; M. Schipa, Storia del ducato napoletano, Napoli 1895; S. D’Aloe, Storia della
Chiesa di Napoli, 1869, Vol. I, Cap. XI.
21
G. Jatta, Discorsi sulla ripartizione Civile e Chiesastica dell’antico agro Cumano, Misenese,
Baiano, Puteolano e Montese, Napoli, 1843.
12
Molti storici hanno ritenuto che, per effetto di queste incursioni, Procida fosse
rimasta spopolata per qualche tempo
22
, ma esistono sufficienti ragioni per ritenere
che l’isola non fosse stata del tutto abbandonata.
Infatti gli abitanti furono costretti a lasciare le precedenti dimore, dislocate lungo
le coste, per costruirne di nuove, collocate su alture e punti naturalmente difesi
23
.
È molto probabile, del resto, che l’origine del borgo di Terra Murata, rimonti
precisamente a questa fase storica.
In seguito all’aggregazione di Miseno al territorio procidano, furono soppresse
anche la Sede Episcopale e la diocesi (cui faceva riferimento la nostra isola) ed è
opinione diffusa, presso numerosi storici della zona flegrea, che da quel momento
l’intero territorio fu sottoposto alla giurisdizione del Vescovo di Napoli. La quasi
totalità dei beni immobili della Chiesa Misenate, come attesta Giovanni Diacono,
fu, dal duca Sergio, concessa alla Chiesa napoletana
24
. I beni restanti, è probabile
che passarono alla Chiesa di Procida, dal momento che due secoli dopo, così
come i Signori che ebbero in feudo la nostra isola vantavano possedimenti nel
territorio di Miseno, anche l’Abate della Chiesa Procidana vantò dei diritti sulla
pesca nel mare circostante l’isolotto di San Martino, che apparteneva al territorio
misenate
25
.
22
È storicamente accertato che le isole Campane si spopolarono in seguito alle devastazioni e le
numerose deportazioni.
23
Prima di allora, non si avvertì mai la necessità di abitare su punti elevati. L’autore della
Chronicon Vulturnensis, Lib. II, scrive che nelle nostre regioni, durante il pontificato di Ludovico
il Pio (814-820), vale a dire prima dell’arrivo dei Saraceni, erano rari i castelli e che il territorio era
disseminato di villaggi e chiese: “Eo siquidem tempore rara in his regionibus Castella habebantur,
sed omnia Villis et Ecclesiis plena erant. Nec erat formido aut metus bellorum, quondam alta pace
omnes gaudebant usque ad tempora Saracenorum”. Federici, Chronicon Vulturnense, Roma 1925.
24
“Athanasius Episcopus sedit annos XXII, menses VI, dies XXIV. Eodem quoque tempore
Misenatis Ecclesia, peccatis exigentibus, a Paganis devastata est, cuius omnes pene immobiles
res, hoc Praesule supplicante Genitor eius Sergius Neapolitano concessit Episcopio.” Chronicon
Episcoporum S. Neapolitane Ecclesiae, auctore Joanne Diacono, in Monumenta ad Neapolitani
ducatus historiam pertinentia, B. Capasso, Napoli 1892, vol. I.
25
M. Parascandolo, Procida dalle origini ai tempi nostri,Benevento 1893.
13
2 - La Pieve e l’Abbazia Benedettina
La tradizione narra che sul finire del terzo secolo d.C. Procida accolse la
sepoltura della martire Restituta
26
e ai primordi del quarto secolo, durante le
persecuzioni dell’imperatore Diocleziano, Miseno e Cuma, già chiese vescovili,
accolsero quelle dei martiri Sosio e Massimo. Sembra si possa ritenere che anche
la nostra isola, in questi primi secoli, avesse la sua plebe o pieve con il suo
sacerdote plebano o pievano; tuttavia, il primo documento che ci attesti la
cristianità di Procida risale alla fine del sesto secolo (595) e si tratta della nota
lettera di papa Gregorio Magno rivolta al duca Maurenzio. Per altro, un’ulteriore
lettera dello stesso pontefice
27
testimonia la presenza della cristianità sull’isola in
tempi ben precedenti tramite una confortante affermazione qual è “Prochyta
semper christiana fuit…”.
Esistono opinioni divergenti circa l’appartenenza della Pieve di Procida. Secondo
alcuni storici essa ha sempre fatto parte della Chiesa di Napoli, già prima della
distruzione di Miseno. Esiste poi l’opinione secondo cui la Pieve procidana fosse
stata unita alla Chiesa cumana e che in seguito alla desolazione di Cuma e
all’aggregazione della sua Chiesa a quella di Napoli, anche la Pieve dell’isola sia
passata alla giurisdizione episcopale napoletana
28
. Infine, alcuni storici, tra i quali
Luigi Parascandolo, ritengono che Procida era pertinente alla diocesi di Miseno,
del resto più vicina territorialmente
29
. Questa è l’ipotesi più verosimile e con la
quale concorda la maggioranza degli studiosi. Fin da allora, Misenati e Procidani
si influenzarono reciprocamente e lo stesso culto dell’Arcangelo S. Michele,
protettore dell’isola, lo divenne anche per Miseno.
26
S. D’Aloe, o.c..
27
Gregorii Registri, tomo I- parte II, VII,71, in M.G.h., Ed. P. Ewald, Hannover 1887.
28
B. Chioccarelli, De Episcopis Neapolitanis, 1867.
29
Tale diocesi comprendeva Monte di Procida e giungeva fino ad un luogo chiamato Chiesa, tra la
palude Acherusia (Fusaro) e il castello di Baia. Sembra si possa ritenere che la località sia
identificabile con Cappella, comune di Bacoli. Scotti M.E.- Scialoja A.M., Dissertazione
corografico-istorica delle due antiche distrutte città Miseno e Cuma. Napoli 1775.