3INTRODUZIONE
Un noto approccio nell’ambito dello studio della politica estera britannica propone
l’analisi di quest’ultima attraverso la lente dei cosiddetti “three circles of interest”. Il
primo a utilizzare tale espressione fu Winston Churchill, ma l’idea che essa sottende è
comune sia al Labour Party che ai Conservatives
2
; l’idea, cioè, che la politica estera
britannica sia ben rappresentata dall’immagine di tre cerchi concentrici, costituiti dal
Commonwealth, l’alleanza atlantica e l’Europa.
Anche dopo la decolonizzazione, la Gran Bretagna ha cercato di mantenere in vita il
legame con le ex colonie, sia per ragioni economiche, sia perché il Commonwealth
costituiva un canale preferenziale di comunicazione con i Paesi del terzo mondo.
Un’altra priorità nell’ambito della politica estera britannica dal secondo dopoguerra in
poi è stato il mantenimento di buoni rapporti politico-economici con il resto d’Europa:
la Gran Bretagna, perso il proprio impero coloniale, non si è più potuta permettere una
politica di ‘detachment’ rispetto al processo di integrazione europea.
Ciononostante, il Regno Unito ha sempre mantenuto, rispetto a tale processo, posizioni
piuttosto moderate, poiché, pur non potendo voltare le spalle all’Europa, ha sempre
avuto interesse a mantenere la sua ‘special relationship’ con gli Stati Uniti, che i
ministri britannici hanno sempre considerato il campione della democrazia, sia dal
punto di vista economico che da quello militare.
Negli ultimi decenni, con l’affievolirsi dei legami con le ex colonie e il progressivo
indebolimento e infine lo smembramento dell’URSS, l’agenda estera della Gran
Bretagna ha subito, come prevedibile, numerose trasformazioni.
Se precedentemente il mantenimento dei “three circles of interest” era stato un obiettivo
perseguito tout-court, di fronte allo sviluppo di una rete di interdipendenza complessa
tra stati, allo svuotamento di significato del Commonwealth, al processo di integrazione
europea, molte cose sono cambiate.
Si potrebbe dire che dei tre cerchi considerati dal secondo dopoguerra in poi come centri
di interesse vitali per la Gran Bretagna solo due, l’alleanza atlantica e la membership
europea sono sopravvissuti alla fine della guerra fredda. Evidentemente, è proprio
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The three circles of British Interest, discussion between Professor F.S. Northredge and Dr. James
Barber, Open University tape D203/30, 1972
4l’equilibrio precario tra l’Atlantico e l’Europa a informare oggigiorno la politica estera
britannica.
Margareth Tatcher , “the Iron Lady”, sceglierà, in politica estera, di privilegiare il
rapporto con gli Stati Uniti di Ronald Reagan, pur riconoscendo l’importanza,
economica se non altro, della membership britannica nella Comunità Europea.
Tony Blair, le cui posizioni erano inizialmente anti-europee, si è in seguito rivelato il
maggior promotore di un ruolo comunitario forte per la Gran Bretagna.
La scelta di scendere in campo senza esitazioni al fianco degli USA nel 2003, rivela
però che il legame con gli Stati Uniti, cementato anche dai buoni rapporti personali tra
Blair e il presidente americano George W. Bush, è ancora una volta l’elemento decisivo
nelle scelte britanniche in materia di politica estera.
Gli Stati Uniti, usciti vincitori dalla guerra fredda, hanno oggi insieme ai loro partner un
ruolo fondamentale per quanto attiene alla creazione di un nuovo ordine mondiale.
Contrariamente a quanto si auspicava nel periodo immediatamente successivo alla
caduta del muro di Berlino, gli Stati Uniti sembrano oggi voler proporre un modello di
ordine mondiale basato sulla politica di potenza e non sulle Nazioni Unite.
La guerra in Iraq, che rende manifesta, tra le altre cose, la ricerca, da parte
dell’amministrazione USA, di una vittoria sul campo, è parte integrante di tale strategia.
Una strategia che, tuttavia, si è rivelata fallimentare sotto molteplici punti di vista.
Veniamo adesso alle questioni fondamentali che ci si propone di affrontare nel corso di
questo elaborato.
Ci si domanda prima di tutto se Blair sia riuscito, com’era nelle sue intenzioni, a tenere
in piedi il famoso ‘ponte’ sull’Atlantico (la metafora è dello stesso premier britannico)
in occasione della crisi irachena, o se la crisi irachena abbia piuttosto dimostrato “the
weakness of the British government’s position within the international order and the
failure of its strategy to build a bridge between the USA and the EU”
3
Ci si propone inoltre di esaminare criticamente l’approccio ideologico del New Labour
in riferimento alla politica estera britannica degli ultimi anni, e di valutare in tale ottica
le mosse più importanti del governo Blair.
3
Jim Buller, Foreign and European Policy in Steve Ludlam and Martin J. Smith (edited by) Governing
as New Labour: policy and politics under Blair, Palgrave Macmillan (2004) p. 206
5Il primo capitolo è dedicato per intero alla ricostruzione degli eventi e delle scelte
politiche che hanno portato le truppe della coalizione guidata dagli Stati Uniti ad
invadere l’Iraq.
Nel secondo, ci occuperemo invece dell’ideologia del New Labour e dei rapporti del
governo britannico con l’Unione Europea, gli Stati Uniti, l’ONU.
Il terzo, infine, affronta il problema del binomio giustificazioni-ragioni della guerra in
Iraq, proponendo un bilancio provvisorio dell’impatto della stessa su Blair, sul suo
partito, sull’opinione pubblica britannica.
La chiave di lettura proposta per l’argomento affrontato è duplice: da un lato
cercheremo di mettere in risalto le differenze e le analogie che dividono e uniscono i
due principali attori occidentali nella vicenda irachena; dall’altro, terremo sempre
presente, nell’assessment delle iniziative politiche e militari del governo Blair,
l’aderenza o meno delle stesse al quadro ideologico del New Labour.
7CAPITOLO I
Escalating War: dalla guerra al Terrorismo alla guerra in Iraq
All’aprirsi del Terzo Millennio la comunità internazionale viene scossa dai tragici
attentati terroristici dell’ undici settembre 2001; data cruciale, questa, destinata a
diventare una pietra miliare nella storia del mondo occidentale.
Gli eventi dell’ 11/9 hanno un impatto estremamente significativo sull’intero sistema
politico internazionale. E’ inutile dire che i cambiamenti più radicali interessano
l’amministrazione americana e la sua politica estera, per cui appare necessario
innanzitutto esaminare sinteticamente l’impatto che il 11/9 ha avuto sugli USA e
l’intera amministrazione Bush.
In seguito, tenteremo di analizzare le reazioni del governo Blair in relazione alla
guerra al terrorismo lanciata da Bush, e di ricostruire il più fedelmente possibile il
ruolo giocato dallo stesso Blair nella escalation che porterà le truppe della cosiddetta
“Coalition of the Willing”, guidata dagli Stati Uniti, ad iniziare il 20 marzo 2003 le
operazioni militari contro l’Iraq di Saddam Hussein.
1. La politica estera dell’amministrazione Bush prima e dopo l’11 settembre
Sin dalle prime settimane di vita dell’amministrazione Bush, appare chiaro agli studiosi
e agli osservatori internazionali che l’eredità della precedente amministrazione Clinton,
soprattutto per ciò che riguarda la politica estera,verrà presto dimenticata (ABC,
‘Anything But Clinton’ è il significativo acrostico che diventa ben presto il motto
dell’amministrazione Bush).
Effettivamente, il nuovo esecutivo mostra già, durante la campagna elettorale del 2000,
una visione completamente diversa del ruolo degli USA nell’arena internazionale.
Tale visione è inizialmente influenzata dai presupposti tipici del realismo classico; il
paradigma statocentrico, com’è noto, si fonda sull’assunto che “il mondo è anarchico,
ovvero politicamente frammentato, senza un’autorità sopraordinata agli stati: è lo
schema del ‘sistema di Westfalia’ dove ciascuno stato è superiorem non
8recognoscens”
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. Gli stati, secondo tale paradigma, sono e rimangono gli unici attori
significativi nell’arena internazionale, e come tali perseguono i propri interessi,
stabilendo le loro priorità in base al potere (economico, militare) di cui dispongono e del
quale si servono per affermarsi a scapito degli altri stati.
Durante la campagna elettorale, Condoleezza Rice illustra chiaramente le posizioni
della futura amministrazione repubblicana per ciò che attiene alla politica estera.
Secondo il team di consiglieri ed esperti di politica internazionale di cui George W.
Bush si servirà una volta vinte le elezioni
5
, gli Stati Uniti, dalla fine della guerra fredda,
non hanno ancora trovato una precisa collocazione a livello internazionale.
A Clinton, secondo Rice, è mancata tanto un’idea precisa dell’interesse nazionale,
quanto la capacità di implementare una strategia unitaria per promuovere tale interesse.
“Clinton – Scrive Rice – (…) has signed agreements that are not in America’s interest”
6
.
Come sottolineano Daalder e Lindsay, “Bush said throughout the campaign that the
United States needed clear foreign policy priorities. He did not say, however, that
foreign policy was his top priority.”
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La politica estera dunque, prima della mattina dell’undici settembre 2001, non è una
delle più alte priorità per l’esecutivo USA. Ciò nonostante, nei primi mesi del 2001
vengono prese dal alcune significative decisioni al riguardo: Bush si allontanerà
notevolmente dall’Europa con svariate mosse che testimoniano la sua volontà di
svincolare gli USA rispetto a organizzazioni internazionali e trattati limitanti la sua
libertà d’azione.
E’ questo il caso dell’ABM (o Comprehensive Test Ban) Treaty del 1972, dal quale
Bush manifesta la volontà di recedere, oppure quello del trattato di Kyoto sul
riscaldamento dell’atmosfera terrestre, che, nel marzo 2001, durante una colazione di
4
Cit. A. Papisca – M. Mascia, Le relazioni internazionali nell’era dell’interdipendenza e dei diritti
umani, Padova : CEDAM (2004), p. 55
5
Com’è noto, Bush giunge alla presidenza con scarsissima esperienza in fatto di politica estera, ragion
per cui in tale ambito fondamentale sarà l’influenza che sulle sue decisioni avranno consiglieri quali i
cosiddetti ‘Volcans’, gli otto esperti repubblicani selezionati da Bush per coadiuvarlo nella politica estera:
Condoleezza Rice, Paul Wolfowitz, Richard Perle, Richard Armitage, Stephen J. Hadley, Robert
Blackwill,Dov Zakheim, Robert Zoellick (a tal proposito ved. Ivo H. Daalder and James M. Lindsay The
Bush Revolution: The Remaking of America’s Foreign Policy, The Brookings Institution, May 2003, p. 4-
5)
6
Condoleezza Rice, Campaign 2000: Promoting the National Interest, Foreign Affairs, January/February
2000, p. 2
7
Ivo H. Daalder and James M. Lindsay op.cit., p. 13