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INTRODUZIONE
Il presente lavoro si propone l’obiettivo di studiare da un punto di vista narratologico le principali
componenti strutturali di uno dei testi più rappresentativi del fantastico novecentesco italiano, il
romanzo La pietra lunare di Tommaso Landolfi. Pubblicata per la prima volta presso Vallecchi nel
1939, alle soglie del secondo conflitto mondiale, l’opera capitale della «maturità giovanile»
1
dello
scrittore passò in sordina senza destare grande interesse nella critica del tempo e ricevette le
meritate attenzioni soltanto a partire dalla fine degli anni settanta, quando la figura e l’attività
letteraria di Tommaso Landolfi iniziarono ad essere rivalutate e fatte oggetto di approfondite
ricerche. Allo stato attuale dell’arte, complici anche la maggiore fruibilità rispetto alle prove più
sperimentali e la particolare felicità del risultato, la surreale vicenda di formazione narrata ne La
pietra lunare è diventata una delle creazioni più celebri all’interno del vasto e composito universo
landolfiano. Nonostante ciò mancano ancora approcci di analisi sistematici a questo importante
romanzo e il nostro intento è appunto quello di provare a porre rimedio a tale mancanza.
Nel primo capitolo del lavoro è innanzitutto presentato il profilo generale dell’autore, ci si sofferma
sugli episodi più significativi della sua parabola biografica e intellettuale e si ripercorrono le tappe
della sua produzione letteraria, mettendone in luce le principali costanti tematiche e toccando alcune
delle problematiche affermatesi nella ricezione critica (la dialettica tra confessione e travestimento,
la presenza o meno di una cesura e di due distinti Landolfi, il rapporto tra gioco e letteratura). Uno
spazio consistente è inoltre dedicato all’esposizione delle radici concettuali e ideologiche da cui
scaturiscono le modalità letterarie dello scrittore, con particolare attenzione alle riflessioni teoriche
intorno al potere e ai limiti del linguaggio che costituiscono il vero fil rouge di tutta l’opera
landolfiana. La sezione si conclude con una breve ricognizione della storia redazionale ed editoriale
de La pietra lunare.
L’analisi del testo è condotta seguendo le indicazioni fornite dagli studi teorici sul fantastico del
critico strutturalista Tzvetan Todorov e confrontandone il paradigma con le caratteristiche delle
diverse parti, a livello di storia e discorso: il secondo capitolo prende in esame gli strumenti
impiegati dallo scrittore per costruire il piano enunciativo dell’opera, mentre il terzo ruota attorno al
mondo fittizio interno alla narrazione e alle entità che in esso si muovono. In primo luogo si
procede dunque ad illustrare quali siano i tratti costitutivi del narratore impostato da Landolfi,
riscontrandoli nella tendenza a frantumare di continuo la diegesi mediante un’azione pervasiva di
commento e ritrattazione che ha lo scopo di incrinarne la credibilità. Tra le strategie destrutturanti
1
A. Zanzotto, Nota introduttiva a T. Landolfi, La pietra lunare, Rizzoli, Milano 1990, pp. 7-30, qui p. 9.
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adottate dalla voce narrante sono osservati da vicino gli inserti metalinguistici e metanarrativi, le
digressioni pseudo-trattatistiche, gli appelli rivolti al lettore e la riproduzione parodica del discorso
dei personaggi. Si considerano quindi le variazioni del punto di vista ed è sottolineata la centralità
del ruolo occupato dai meccanismi della percezione nell’economia del romanzo, con particolare
riferimento al tema dello sguardo, inteso come facoltà privilegiata per l’esplicarsi dell’indole
voyeuristica e visionaria tipica del poeta e soggetto a ripetuti momenti di crisi durante il processo di
regressione ai primordi vissuto dal protagonista. Vengono inoltre esaminate le oscillazioni della
velocità narrativa, i fenomeni concernenti la disposizione temporale degli eventi e i rapporti di
durata tra storia e racconto.
Il terzo capitolo presenta in un quadro d’insieme le due schiere di personaggi che animano i poli
contrapposti della realtà paesana e del sottomondo lunare, rilevandone la comune staticità
caricaturale e rimarcando come l’intento satirico si realizzi sempre in Landolfi attraverso la
deformazione dell’aspetto anatomico. Ampio spazio è dedicato alla misteriosa figura di Gurù: sono
analizzati la sua natura a metà tra l’umano e il bestiale e la conseguente costruzione per tratti
antitetici, il suo ruolo di guida iniziatica e madre per il protagonista e il suo profondo legame con
una forma di linguaggio arcaica e poetica. Segue poi uno studio della dimensione spaziale che, oltre
a ripercorrere i luoghi emblematici dello scrittore (il palazzo, la montagna, la caverna), mette in
risalto i numerosi debiti de La pietra lunare nei confronti del romanticismo tedesco. L’ultimo
paragrafo verte infine sul livello linguistico-stilistico e tenta un’approfondita disamina delle
soluzioni caratteristiche dell’eccentricità landolfiana, soffermandosi non solo sul piano lessicale, ma
anche sui costrutti della sintassi e le figure retoriche riconoscibili nel romanzo.
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CAPITOLO 1
1.1. Profilo di Tommaso Landolfi
Se si considera il fatto che tutta l’opera landolfiana, al di là dell’ormai canonica suddivisione in due
fasi antitetiche operata dai primi esegeti
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, esibisce come costante fin da Maria Giuseppa il fitto
intrecciarsi di mitopoiesi ed istanze autobiografiche, non può stupire che uno scrittore come
Landolfi, in perenne lotta con la realtà, abbia voluto ammantare la sua vita dell’alone indistinto
della letterarietà. Carlo Bo, suo sodale e sostenitore entusiasta, riporta il perentorio parere di
Eugenio Montale, il quale «diceva che Landolfi era diventato il personaggio di se stesso, uno dei
suoi personaggi»
2
: ma, in un complesso gioco di specchi tra finzione e realtà, Renato di
Pescogianturco Longino, Ottavio di Saint-Vincent, Landolfo VI di Benevento e quasi ogni altro
protagonista della narrativa landolfiana sono a loro volta plasmati sullo stampo dell’uomo e si
nutrono della stessa materia splenetica e saturnina cui indulgeva il loro artefice nel tratteggiare la
propria maschera di aristocratico e tenebroso maudit. Quale sia poi la misura di veridicità da
attribuire a questa compatta teoria di alter ego letterari è stata questione a lungo dibattuta e spesso
motivo di giudizi poco lusinghieri
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, ma sembra ormai appurata l’autenticità del nucleo di fondo che
innerva e sorregge le acrobazie finzionali e le pratiche di camuffamento dello scrittore. In Landolfi
si scorgono insomma i segni di un’impostura onesta e mendace allo stesso tempo: la letteratura
come menzogna di secondo grado, che adopera «maschere attraverso le quali lo scrittore finisce con
lo svelare se stesso in modo paradossalmente sincero»
4
.
Nel saggio che chiude la raccolta antologica da lui curata, Italo Calvino traccia le ascendenze del
personaggio Landolfi riconducendolo al modello del dandy di fine Ottocento alla Des Esseintes,
caricato però «in direzione autoironica e depressiva»
5
, il che lo distinguerebbe a un primo sguardo
dalle pose superomistiche tipiche di D’Annunzio, uno degli innumerevoli autori accostatigli dalla
1
Tra cui spicca E. Sanguineti, Tommaso Landolfi, in Letteratura italiana. I contemporanei, II, Marzorati, Milano 1963,
pp. 1527-1539. L’antitesi, si vedrà, è stata ampiamente smussata dalla critica più recente.
2
C. Bo, La scommessa di Landolfi, prefazione a T. Landolfi, Opere I (1937-1959), Rizzoli, Milano 1991, pp. VII-XVII,
qui p. XIV.
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Si passa dall’etichetta di «scrittore d’ingegno» coniata al suo esordio (P. Pancrazi, Tommaso Landolfi scrittore
d’ingegno [1937], in Id., Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, III, Ricciardi, Milano-Napoli 1967,
pp. 122-126, qui p. 123) alla diffusa taccia di manierismo fine a se stesso, fino al celebre ripensamento di Gianfranco
Contini, che dalle lodi tributategli nell’antologia Italie magique del 1946 giunse poi a bollarlo, con clamoroso equivoco,
come «ottocentista eccentrico in ritardo» (G. Contini, Letteratura dell’Italia unita: 1861-1968, Sansoni, Firenze 1968, p.
931).
4
G. Giacomazzi, Il gioco ambiguo dell’esistenza delle maschere di Tommaso Landolfi, in «Otto/Novecento», n. 2, 2008,
pp. 67-74, qui p. 68. L’autrice prosegue affermando: «Landolfi si confessa attraverso la finzione».
5
I. Calvino, L’esattezza e il caso, postfazione a Le più belle pagine di Tommaso Landolfi, Rizzoli, Milano 1982, pp.
415-426, qui p. 423.
6
critica nel tentativo di isolarne le specificità. Assai più fecondo si mostra invece il confronto con
quello che non è arduo individuare come il vero padre spirituale di Landolfi, a voler rimanere per
ora in Italia, ossia Giacomo Leopardi, da cui è mutuata innanzitutto la disposizione a impregnare la
propria opera di sfumature filosofiche. I parallelismi con il Recanatese non si limitano inoltre ad
investire la sfera ideologica, il comune pessimismo di matrice metafisica che in Landolfi tende
viepiù ad un cupo, disperato e misantropico nichilismo, o l’evidente rapporto di filiazione che lega
la forma di molti racconti landolfiani a quella delle Operette morali, ma toccano altresì le vicende
biografiche dei due nobili rampolli.
La parabola esistenziale di Tommaso Landolfi è in effetti scandita dal continuo ritorno agli amati
luoghi di Pico Farnese, il borgo selvaggio ai piedi dei monti Aurunci in cui lo scrittore viene alla
luce nell’agosto del 1908, da famiglia di antiche origini longobarde, e dai lunghi ritiri nell’antico
palazzo avito, vero e proprio rifugio e «Ricettacolo dei sogni»
6
, che vede l’incubazione di gran
parte delle sue fatiche letterarie e ne diviene motivo e cronotopo ossessivamente ricorrente. Il
grande trauma che segna l’infanzia e l’intera vita dello scrittore è la morte della madre Ida, piaga
mai rimarginata che colpisce Landolfi all’età di un anno e si riverbera in tutta la sua opera, fino ai
versi dedicati alla «madre-effigie, unica amante»
7
ne Il tradimento. Sin dai primi anni si profila
quindi l’incessante peregrinare che caratterizzerà la sua vita: il padre avvocato, spesso a Parigi a
caccia di opere d’arte, lo affida alle cure delle cugine Rosina e Fosforina Tumulini, a Roma, dove il
piccolo frequenta le elementari presso istituti privati, e poi a Montepulciano, periodo cui risalgono
le prime letture (Defoe, Salgari, Verne, Dumas) e prove poetiche. Nel 1919 il morbo spagnolo gli
strappa la cara cugina Rosina, appena ventenne, seguita a distanza di pochi mesi dalla nonna, e
l’introverso e solitario ragazzo deve affrontare l’esperienza del collegio al Cicognini di Prato, poi
proseguita a Roma nei tre anni successivi. Alla formazione scolastica ufficiale, mal sopportata e dai
risultati scadenti, il giovane Landolfi antepone presto l’esercizio dei propri idiosincratici interessi
letterari e linguistici, che lo spingono ad avvicinarsi ad una gran quantità di lingue straniere
(francese, spagnolo, poi arabo, polacco, ungherese, giapponese e svedese, mentre agli anni
universitari data l’incontro con quelle in cui eccellerà, il russo e il tedesco). Dopo due bocciature
Landolfi raggiunge un suo zio a Trieste, dove il profitto scolastico migliora e s’intensifica la
produzione di liriche in stile carducciano: qui egli legge D’Annunzio, Balzac, Maupassant e
Cervantes in lingua e si appassiona alle scienze occulte e alle teorie antroposofiche.
Conseguita da privatista la maturità dopo mesi di studio matto e disperatissimo nella dimora di Pico,
nel 1927 Landolfi si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università di Roma, per poi trasferirsi l’anno
seguente a Firenze, città con cui manterrà sempre un forte legame. Sono anni decisivi per la sua
6
Così recita il titolo di una delle liriche de Il tradimento.
7
T. Landolfi, Il tradimento, Adelphi, Milano 2014, p.73.
7
formazione culturale, grazie al clima vivace ed aperto del milieu fiorentino: disertando le aule
universitarie, Landolfi si vota alla lettura dei classici della letteratura europea, «prediligendo i
romantici, gli autori eccentrici, i decadenti, quelli dalle fosche, torbide atmosfere, i ‘maledetti’»
8
cui
sarà in seguito paragonato dalla critica, e stringe amicizia con il futuro teorico dell’ermetismo Carlo
Bo, nonché con Renato Poggioli e Leone Traverso, che catalizzano il suo interesse per gli autori
russi e tedeschi. A Firenze matura anche la smodata passione per il gioco d’azzardo che si
affiancherà d’ora in poi a quella per la scrittura, portandolo a sperperare i lauti mensili inviatigli dal
padre e a contrarre continui debiti. Terreno di una seppur illusoria possibilità di fuga dalle
costrizioni della realtà, luogo in cui tentare di attingere l’agognata dimensione del caso e
abbandonarsi alla «perdita di sé, come unica vincita possibile»
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, il gioco acquista agli occhi dello
scrittore significative tangenze con l’attività letteraria e sarà oggetto di profonde riflessioni,
venendo a rivestire una posizione centrale nel suo sistema di pensiero. Negli anni dell’università
Landolfi si cimenta inoltre nelle prime traduzioni (da Poe, Baudelaire e Jammes) e trascorre a Pico i
lunghi periodi estivi dedicandosi alla caccia e abbozzando racconti: il 1930 segna così il suo esordio
artistico, con la pubblicazione di Maria Giuseppa sulla giovane rivista «Vigilie Letterarie».
Nonostante la poca costanza negli studi, nel novembre del 1932 Landolfi si laurea in letteratura
russa con una brillante tesi sulla poetessa acmeista Anna Achmatova, che gli procura il massimo dei
voti. Dopo un soggiorno in Germania e la leva militare a Palermo, presto interrotta grazie alle
pressioni esercitate dal padre, alla metà degli anni trenta ha inizio la lunga serie di collaborazioni
critiche con periodici letterari che, assieme all’attività di traduzione, costituirà una parte non
marginale della sua vicenda intellettuale. Scrive così vari saggi su autori russi per «Occidente» e
«L’Italia Letteraria» di Armando Ghelardini, su cui pubblica inoltre il racconto Dialogo dei massimi
sistemi, inaugurando la strategia mai abbandonata di affidarsi alle pagine delle riviste prima di
raccogliere in volume le proprie opere. Tra il 1935 e il 1936 i suoi studi puškiniani lo portano
dapprima a Londra e poi alla volta di Praga, che però non riesce a raggiungere a causa delle
crescenti tensioni politiche tra i paesi europei: fermato alla frontiera austriaca, decide di ripiegare su
Padova, dove può contare sulla disponibilità dello slavista Ettore Lo Gatto. La prima raccolta di
racconti, edita dai fratelli Parenti a Firenze nel marzo del 1937 e intitolata Dialogo dei massimi
sistemi, mostra già al massimo grado di maturità la cifra stilistica eccentrica, la ricchezza di estro
creativo e il ventaglio di temi e motivi che costelleranno tutta l’opera di Landolfi: in particolare,
oltre ad uno spiccato gusto per l’assurdo, lo straniante e l’unheimlich veicolati dalla centralità
assegnata alla natura altra di animali e bestiole repellenti, nonché ai deliri fobico-maniacali di
8
I. Landolfi nella dettagliata biografia in apertura a T. Landolfi, Opere I (1937-1959), cit., pp. XXI-LXVI, qui p.
XXXVI.
9
I. Calvino, L’esattezza e il caso, cit., p. 417.