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Introduzione
Ha ancora un senso oggi parlare di cinema horror? Ha un senso
parlare di un genere che ha sempre affondato le proprie radici
nell’immaginario mentre assistiamo impotenti alla progressiva
dissoluzione dell’immaginario stesso? Per osservare la questione sotto
un’altra angolatura, ha ancora senso l’esistenza stessa di un genere che
ha sempre avuto lo scopo precipuo di fare paura allo spettatore se
ormai lo spettatore non sa più di cosa aver paura?
L’unica risposta che il panorama odierno riesce a fornire è di carattere
prettamente autoreferenziale: tra remake, sequel e prodotti
inevitabilmente di seconda mano, sembra che il cinema horror debba
cercare al proprio interno le radici stesse della paura. Quello che
abbiamo di fronte oggi è un genere di carattere intermediale in cui le
vette più alte vengono raggiunte dal cinefilo di turno più abile a
rielaborare codici già scritti. In pieno post-modernismo insomma
l’unica patologia che il cinema horror riesce a mettere in scena è la
medesima che lo affligge. Lo scopo del presente lavoro non è tuttavia
quello di ricercare le cause di tale astenia, non verrà formulata una
diagnosi e tantomeno una prognosi; non possiamo fare a meno di
osservare però quanto la storia clinica del nostro paziente, per
mantenere (mutuare...) una suggestione medica, sia lunga e travagliata.
Prima di arrivare al nodo centrale, ovvero la netta cesura operata dai
protagonisti del New Horror statunitense e Tobe Hooper in particolare,
nei confronti del cinema orrorifico precedente, sembra utile compiere
una breve escursione nel passato per comprendere esattamente
l’insieme di cause che hanno garantito alle metastasi del nuovo orrore
di espandersi e proliferare.
L’analisi parte, per intenderci, dal momento in cui, nell’immediato
dopoguerra, prende avvio una crisi che attraversa tutto il cinema, non
solo quello dell’orrore.
Nel primo capitolo viene focalizzata l’attenzione proprio su tale crisi,
fornendo un quadro generale del diffuso malessere della settima arte,
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aumentato dal progressivo mutamento dei costumi sociali, dalla
diffusione del medium televisivo e negli USA soprattutto, da
particolari scelte economiche, politiche e produttive. Viene presa in
esame anche l’esplosione della cosiddetta controcultura durante gli
anni sessanta e le relative sperimentazioni di carattere avanguardistico
che unite al concetto europeo di politique des auteurs influenzeranno
non poco i giovani registi americani della New Hollywood e la loro
revisione ideologica e formale del cinema tout court.
Il secondo capitolo, che, come il primo, conserva ancora un carattere
propedeutico, affronta la progressiva metamorfosi del genere horror
ed in particolare della produzione di serie B, successiva alla golden
age che va grosso modo dalla fine degli anni trenta alla metà degli
anni quaranta. Ad una decina d’anni di vuoto segue un periodo in cui
al successo strepitoso della fantascienza fa eco una riscoperta della
mostruosità in gran parte dovuta alla diffusione della generalizzata
paranoia dettata dalla minaccia comunista e dalla paura del nucleare.
L’eleganza delle produzioni Hammer di Terence Fisher e il
claustrofobico gotico delle produzioni AIP di Roger Corman ci
guidano per tutti gli anni sessanta mentre la guardia bassa della
censura consente lo sviluppo un cinema di basso profilo con soluzioni
sempre più estreme e sensazionalistiche. Proprio una breve
considerazione sull’exploitation cinema chiude la parentesi
introduttiva e lascia spazio al tema principale, come già anticipato, il
New Horror.
Il terzo capitolo si apre proprio con una riflessione sul carattere quasi
rivoluzionario di pellicole come Rosemary’s Baby, La notte dei morti
viventi, L’esorcista, nullon Aprite quella porta , L’ultima casa a sinistra,
Il demone sotto la pelle. Il comune denominatore di queste opere è la
tendenza ad una netta rottura con il passato e con la tradizione gotico
romantica, che ha ingabbiato il cinema horror tra le sue strette maglie
letterarie. La visibilità, la visionarietà, la violenza di un orrore sempre
più quotidiano, endemico e familiare deflagra in tutta la propria
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potenza attraverso il realismo di Romero, Cronenberg, Craven e
troverà in Carpenter uno dei più lucidi teorici.
Proprio a questi quattro autori sono dedicati degli specifici paragrafi
nei quali si cerca di evidenziare la specificità filmica di ognuno
attraverso le singole e personalissime interpretazioni delle tematiche
comuni al New Horror.
Infine, a Tobe Hooper, sono dedicati gli ultimi due capitoli, il quarto
ed il quinto, dove attraverso una rilettura delle pellicole del regista più
vicine al new horror si cerca di trovarvi un trait d’union.
Nel quarto capitolo in particolare, si affronta un’analisi dei temi
fondamentali, delle ossessioni del cineasta texano, a partire dalla
delirante rappresentazione dell’istituzione familiare nel celebre e
macabro quadretto di nullon Aprite quella porta fino alla famiglia
Freeling di Poltergeist cercando una soluzione critica alternativa a
quelle di matrice psicoanalitica spesso proposte. La volontà di base è
quella di una contestualizzazione socio-politica della rappresentazione
della famiglia nel periodo che va dall’amministrazione Nixon a quella
di Ronald Reagan osservando il declino inesorabile del tempio del
sogno americano.
La maniacale ossessione di Hooper per la messa in scena della
mostruosità offre invece lo spunto per un’analisi sulla tematica
fondamentale del corpo, entità di cui si temeva l’evanescenza durante
gli anni settanta ma che ha continuato a fungere da referente anche per
tutti gli anni ottanta fino alla definitiva scomparsa, nell’universo della
simulazione in cui oggi viviamo.
L’incorporeità, l’assenza di concretezza che spingono il cinema
horror contamporaneo verso l’autopsia con cui è iniziata la nostra
considerazione è in qualche modo anticipata nel discorso su
Poltergeist e sull’intrinseca falsità dei media contemporanei, la
televisione in primis e in generale sulla società dello spettacolo.
Scomodare l’intransigenza di Debord e Baudrillard per parlare della
produzione più mainstream e in qualche modo più conciliante di
Hooper può sembrare azzardato, ma quello che si vuole evidenziare è
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proprio il paradosso della strategia seduttiva e beffarda della società
dello spettacolo che sembra deridere il proprio spettatore mettendo in
scena il virus con il quale lo contagia.
L’ultimo capitolo, una sorta di appendice compilativa, contiene le
sinossi ragionate di una selezione (tendenziosa senza dubbio) dei film
di Tobe Hooper che può aiutare ad addentrarsi meglio nel macabro
tunnel dell’orrore che è il suo cinema, fatto di assolate province
popolate da un’umanità dolente, abitato da un’alterità che in qualche
modo è figlia delle nostre responsabilità e dominato da una
mostruosità che è, anzitutto, la nostra.
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1
Un rapido sguardo su Hollywood dalla crisi alla rinascita
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1.1 La crisi del sistema produttivo hollywoodiano
Il cinema Horror contemporaneo appare come un genere oltremodo
complesso ed elaborato; concede molteplici approcci alla sua lettura
ed è legittimo collocare titoli come La notte dei morti viventi (Night
of the living dead, George Andrew Romero, 1968), Rosemary’s Baby-
Nastro rosso a New York (Rosemary’s Baby, Roman Polansky, 1968),
Non aprite quella porta (The texas chainsaw massacre, Tobe Hooper,
1974) all’interno di quella serie di pellicole che delimitano una zona
di passaggio da una tradizione orrorifica tendenzialmente
soprannaturale, con tutta una gamma di cliché e stereotipi ben
consolidati, ad una nuova concezione del genere che prevede a livello
formale un mutamento stilistico debitore delle sperimentazioni
neoavanguardistiche e delle innovazioni tecnologiche.
Ma i film di Romero, Polansky e Hooper non nascono dal nulla; agli
inizi degli anni settanta infatti, periodo di affermazione del cosiddetto
New Horror, ha già da tempo preso avvio un processo di mutamento
nell’industria cinematografica americana che sotto la spinta di un
fatale decadimento da alla luce film seminali come Psyco (Psycho
1960) di Alfred Hitchcock, Che fine ha fatto Baby Jane? (What ever
happened to Baby Jane? 1962) di Robert Aldrich, Il bacio perverso
(The naked kiss 1963) di Sam Fuller, per citare alcuni esempi; dei low
budget con una grande carica di violenza, cupi, insani ed impietosi. A
questo proposito è utile una breve escursione storico - economica per
ricercare alla radice le cause di tale recessione poiché troppo
semplicisticamente si sono attribuite all’ingresso nel mercato del
medium televisivo le colpe della crisi cinematografica statunitense che
incomincia in realtà già dal secondo dopoguerra, dunque, ben quindici
anni prima della diffusione capillare della televisione nelle case degli
americani. L’industria cinematografica in questo periodo si trova,
impreparata ad affrontare due fenomeni che in concomitanza
contribuiscono a metterla in ginocchio: de-urbanizzazione e crescita
demografica. In una generalizzata situazione di ristrettezze
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economiche, palesemente contrastante con la prosperità del periodo
bellico, i reduci si trovano ad investire i loro risparmi in case di
proprietà lontane dal frastuono cittadino, in ambienti sani dove far
crescere i propri figli. Iniziano a popolarsi le periferie, il tasso di
natalità è elevato e le donne si sposano in sempre più giovane età.
Viene a mancare così il tipico spettatore cinematografico della middle
class che aveva fatto la fortuna delle majors. Tra gli americani colti e
benestanti si fa largo la tendenza a trascorrere il tempo libero in
periferia con la propria famiglia e così, inesorabilmente, le sale del
centro città scompaiono e vengono costruiti multiplex nei centri
commerciali e drive-in un po’ ovunque. Negli anni sessanta si contano
più di quattromila drive-in, numero consistente se si pensa agli appena
cento dell’immediato dopoguerra, ed è rilevante che gia nell’estate del
1956 il pubblico dei drive-in arrivò a superare quello delle sale al
chiuso. La televisione, che fa la sua comparsa effettiva negli anni
cinquanta, trova dunque una situazione favorevole alla propria
diffusione: gli americani preferiscono stare in casa e, in un periodo di
generalizzato malessere e di paure collettive, dal comunismo alla
guerra nucleare, il televisore sarà eletto quale mezzo di comunicazione
di massa principe nell’intrattenimento dei ragazzi del cosiddetto baby
boom.
Uno dei fattori che ha però avuto sicuramente più peso nel proliferare
della crisi è stata la serie di sentenze contro le majors a partire dal
rafforzamento delle leggi antitrust durante l’amministrazione Roosvelt
che nel suo secondo mandato cerca di arginare in ogni modo la
depressione economica. Dal 1938 al 1948, le grandi case Paramount,
MGM, Twentieth Century Fox, RKO e Warner Bros sono costrette a
vendere le proprie sale e perdono l’accesso diretto al mercato
cinematografico. Gli esercenti indipendenti aprono ovunque nuovi
circuiti, soprattutto drive-in che come già accennato in precedenza
sono l’unico tipo di sala decisamente in crescita nella scala di
gradimento del pubblico. Le majors continuano tuttavia a dominare
comunque il mercato produttivo e distributivo ed è compito loro
cercare di riportare spettatori nelle sale. Paradossalmente le grandi
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case cercano di investire nella televisione portando al cinema la
tecnologia televisiva, ma i tentativi sono fallaci anche a causa di una
sentenza della corte suprema che impedisce l’acquisto di licenze
televisive da parte di società colpevoli di violazione delle leggi
antitrust. Un’altra possibile soluzione al problema arriva ancora dalla
tecnologia: durante gli anni cinquanta infatti negli schermi trionfa il
Technicolor e in seguito vengono introdotte altre meraviglie quali
Cinerama, Vistavision, Cinema 3D e Cinemascope. Proprio
quest’ultimo prodigio tecnico sembra avere la meglio sugli altri se
abbinato ad accessori della Panavision e pellicole a striscia singola
della Eastman color che soppianteranno il Technicolor a tre pellicole
perché più pratiche e soprattutto più economiche; queste innovazioni
daranno la possibilità alle case Hollywoodiane di offrire un prodotto a
colori qualitativamente superiore allo sgranato bianco e nero delle
immagini televisive con dei costi relativamente contenuti.
A questo punto per riuscire a sostenere le spese comunque ingenti
delle maxi produzioni panoramiche le majors giungono ad un accordo
con le reti televisive ponendo fine alla spietata politica di
ostruzionismo con la quale avevano rifiutato alle emittenti la vendita
dei loro prodotti.
Il primo dei colossi ad offrire i propri film alla tv è la RKO acquistata
nel 1948 da Howard Hughes che non riuscendo a risollevarla dalla
grave crisi in cui si trova decide nel 1954 di vendere l’intera cineteca
alla General Tire & Rubber Company. L’incredibile quantità di denaro
fruttata dall’operazione convince prima le case minori, come la
Columbia, ed in seguito le altre Majors ad imitare l’operato di Hughes.
I film in televisione, inizialmente programmati nei fine settimana,
riscuotono un enorme successo di pubblico e a fine anni sessanta le
emittenti ABC, NBC e CBS trasmettono film tutte le sere con un calo
del 25% delle proiezioni al cinema. Ormai però gli archivi hanno ben
poco materiale inedito da offrire ed ha inizio la produzione dei
cosiddetti Tv movies, ovvero pellicole create appositamente per il
passaggio televisivo. Si compie così la metamorfosi dello studio
system hollywoodiano che ha generalmente saputo adattarsi, tranne il
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caso particolare della RKO che è stata costretta ad abbandonare il
mercato, ai cambiamenti nel gusto e nello stile di vita degli spettatori,
al conseguente mutamento delle città in agglomerati di sobborghi e
all’integrazione con il medium televisivo. Riassumendo, la grande
recessione economica hollywoodiana, causata un senz’altro dalla
concorrenza televisiva ma in misura maggiore dalla concomitanza di
leggi antimonopolistiche e da una progressiva alterazione dello stile di
vita degli americani, coincide con la sempre più netta opposizione tra i
valori esaltati dalla cinematografia classica ed una situazione politica
e culturale in vertiginosa evoluzione.
A questo proposito è giusto ricordare che negli anni cinquanta, oltre
che sulla elevata qualità delle maxi produzioni e sul trionfo delle
tecnologie, Hollywood punta su una strategia ulteriore per trattenere il
pubblico nelle sale: Il PCA ( Production Code Administration) subisce
delle modifiche affinché sia possibile trattare nei film temi “adulti”
come l’aborto, la prostituzione e la diffusione di stupefacenti, temi
tabù per un media popolare come la televisione. Questo è il periodo
dei grandi adattamenti dai romanzi, degli eccessi stilistici e di un certo
sensazionalismo. Le convenzioni dei generi vengono ribaltate e i
protagonisti delle storie divengono eroi privi di certezze. Come
suggerisce Richard Maltby: “ Nel cinema adulto degli anni cinquanta
le certezze eroiche diventano vittime del bisogno di sfidare le
convenzioni generiche in nome di una maggiore complessità
drammatica e del realismo psicologico. Questo cinema presenta
superficialmente figure più complesse e ambigue spesso consapevoli
del proprio scontento ma incapaci di elaborarlo, che fanno appello agli
spettatori con primi piani enfatici e ne chiedono la comprensione
amichevole per avere il loro sostegno alla fine del film”
1
. Il cinema di
intrattenimento, inoltre, diviene un veicolo per l’ideologia e la
propaganda: se già negli anni precedenti la guerra e durante tutta la
fase bellica il cinema americano esporta nel mondo intero valori di
onestà e responsabilità sociale, dopo la sostituzione di Will Hays con
1
Richard Maltby, Cinema, politica e cultura popolare a Hollywood nel dopoguerra, in Brunetta, Il cinema americano,
Torino, Einaudi, 2006
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Eric Johnston alla presidenza della MPAA (Motion Picture
Association of America) nel 1945, gran parte dell’ideologia trasmessa
da Hollywood si manifesta con l’esibizione di beni di consumo e nel
dopoguerra sarebbe ridicolo negare un particolare interesse delle
industrie cinematografiche per le vendite estere e per la diffusione
dell’American Way of Life. Intanto si concretizza nell’opinione
pubblica, dopo l’exploit del senatore McCarthy, la paura comunista e
tra il 1950 e il 1954, l’anticomunismo diviene la normale linea di
condotta con processi, sentenze e scottanti rivelazioni alla stampa.
Hollywood collabora con le procedure governative indagando sui
propri dipendenti e ancora Maltby ci viene incontro a proposito della
centralità attribuita a livello narrativo alla figura del delatore: “La
novità è che il maccartismo nel cinema presenta l’informatore come
una figura eroica”, ed è il caso di Terry Malloy, personaggio
principale di Fronte del porto (1954), che pur denunciando i propri
colleghi non viene caratterizzato come un traditore ma come una sorta
di eroe che conquista la propria integrità morale.
Dalla politica di contenimento del presidente Truman con la
campagna militare in Corea fino all’entrata diretta nel conflitto
Vietnamita contro le forze rosse di Ho Chi Minh gli stati uniti mettono
in atto, come si accennava, un vero e proprio programma investigativo
con il fine di scovare all’interno delle istituzioni pericolose
infiltrazioni ideologiche filocomuniste che avrebbero potuto in
qualche modo appoggiare l’estendersi dell’egemonia sovietica che
andava consolidandosi in tutta l’europa orientale. Le vicende di
Hollywood pesantemente inquisita nel nome della Red Scare sono
tristemente note: decine di registi, sceneggiatori e attori vennero
ostracizzati o costretti a denunciare i propri colleghi o addirittura
all’esilio in seguito alle indagini del Comitato per le attività
antiamericane HUAC che sosteneva che molti soggetti
cinematografici fossero inquinati da idee filocomuniste; fu il caso di
personaggi del calbro di Dalton Trumbo, Edward Dmytryk, Elia
Kazan e perfino Bertold Brecth. Non si deve eludere però un ulteriore
aspetto dell’anticomunismo: oltre la bieca pratica di controllo
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culturale si estende quella malcelata ostentazione di ottimisti valori di
progressismo di natura prettamente capitalistica, vera anima della
guerra fredda. La minaccia rossa, la paura di una possibile guerra
nucleare in ogni caso toccano da vicino l’opinione pubblica
innescando una sorta di meccanismo paranoico che avrà ripercussioni
nei più svariati settori del vivere comune. Lo spettatore medio, attirato
nelle sale da promesse di sogni in cinema scope si trova ad apprezzare
sempre di più la fitta produzione di pellicole riempitive con le quali le
grandi case di distribuzione completano le proiezioni dei loro sempre
meno numerosi titoli. Le piccole produzioni indipendenti infatti
acquisiscono spazio sempre maggiore in funzione della crisi
attraversata dalle majors; se le case indipendenti più grandi come la
United Artists, la Columbia o la Universal riescono ancora a
concorrere con le majors producendo colossal del calibro di Spartacus
(1960) alle case più piccole rimane il compito di riempire il doppio
spettacolo con prodotti a basso costo che riescano comunque a
catalizzare l’attenzione. Arrivano sugli schermi film senza divi che
trattano argomenti attuali e sensazionalistici (la cosiddetta exploitation)
che si producevano già dal periodo prebellico ma che acquisirono
visibilità in questo perido grazie alla lungimiranza degli esercenti che
scoprirono i sostanziosi profitti che queste pellicole potevano fruttare.
L’exploitation abbraccia vari generi, dall’erotico all’horror alla
fantascienza, genere quest’ ultimo che riesce a catalizzare l’attenzione
del pubblico in quanto racconta storie di terribili mutazioni post-
atomiche, di invasioni aliene. Per dire la verità anche la Paramount si
era interessata al genere con il produttore George Pal e che produsse
titoli quali Uomini sulla luna (1956), La guerra dei mondi (1953) e
L’uomo che visse nel futuro (1960) ma sono medio-piccole produzioni
come La cosa da un altro mondo (1951), L’invasione degli ultracorpi
(1955), Ultimatum alla terra (1951), L’esperimento del Dr. K (1958)
e Radiazioni BX: distruzione uomo (1957) che possono essere lette
come una chiara metafora della guerra fredda e della paranoia dell’era
atomica. Per quanto riguarda il filone erotico non si possono non
ricordare le esasperate parodie di Russ Meyer mentre per quanto
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riguarda l’horror verrà dedicato più avanti uno spazio più ampio in
quanto le produzioni della American International Pictures e di Roger
Corman e ancora di William Castle ed Herschell Gordon Lewis hanno
un ruolo fondamentale nello sviluppo del cinema horror
contemporaneo.
- 21 -
1.2 nulleoavanguardia, sperimentazione e Underground
L’esplosione della controcultura degli anni ’60 arriva dunque in netta
contrapposizione all’economia consumistica occidentale e al
neocolonialismo e le contestazioni giovanili hanno un ruolo
fondamentale seppure in un clima che è già in fase di mutamento.
Nelle università americane si protesta contro i vecchi valori
tradizionali (la cosiddetta american way of life) e molti studenti si
avvicinano alla nuova sinistra ispirata da un marxismo moderato in
opposizione al marxismo ortodosso sovietico. La politica giovanile
negli stati uniti si focalizza soprattutto sulla contestazione del ruolo
della propria nazione nel conflitto del Vietnam e si arriva alla vera e
propria resistenza, con un’opposizione attiva al reclutamento,
occupazione di edifici e scontri di piazza. La critica sociale, anche
sotto la spinta di teorici quali Reich e Marcuse, diviene dunque ampia
e incisiva. In ambito artistico, l’influenza di Bertold Brecht e del suo
teatro, per così dire, “anti-aristotelico” che cercava di combattere
attraverso tecniche di alienazione e straniamento l’empatia ipnotica,
incoraggiando piuttosto lo spettatore ad un distacco critico nei
confronti dei personaggi inizia a diffondersi. Ad un livello più
strettamente cinematografico già la fine degli anni ’50 segna un punto
di svolta e si comincia, in Europa, a parlare di nouvelle vague in linea
con le teorie di André Bazin e del manipolo di suoi seguaci, i giovani
critici dei Cahiers du cinema che esordiscono come registi con opere
importanti ed innovative come I quattrocento colpi (1959) di François
Truffaut, Fino all’ultimo respiro (1960) di Jean Luc Godard, Le Beau
Serge (1958) di Claude Chabrol per non dimenticare Le sign du Lion
(1959) di Rohmer e Paris nous appartient (1960) di Rivette. Si andava
prefigurando nella poetica di questi nuovi autori “un tipo di cinema
personale, nel quale la cinepresa potesse essere utilizzata con la stessa
semplicità e libertà con la quale il romanziere e il saggista usano la
penna stilografica. Un cinema, quindi, spontaneo, immediato e a bassi
- 22 -
costi, che potesse fare a meno delle macchinose procedure degli
studios e dell’artificiosa accuratezza formale della produzione
francese di qualità”
2
. Già nella fervente attività critica i giovani autori
francesi proponevano una nuova formula , un nuovo modo di vedere il
cinema; la politica degli autori, la loro parola d’ordine, imponeva una
visione finalizzata alla valorizzazione del regista-autore: regola,
questa, di facile applicazione nell’ambito nel quale si muovono registi
come Dreyer, Bresson, Antonioni in ragione delle affinità che legano
il cinema europeo con la cultura letteraria e artistica. Si complica
invece il discorso quando si tratta di affrontare le opere di registi
perfettamente integrati nel meccanismo produttivo hollywoodiano
come Ford, Hawks, Minnelli e Hitchcock: l’analisi si focalizza sulla
mise-en-scéne, sulla regia andando a concentrare l’attenzione sui
valori tecnico-formali del film tanto che secondo Costa il loro metodo
“può essere definito formalista e può essere avvicinato al metodo della
critica stilistica in letteratura e a quello iconologico nelle arti
figurative.”
3
Come già accennato le teorizzazioni di Bazin
4
ebbero molta
influenza sui nuovi critici e nei suoi studi sull’ontologia del linguaggio
cinematografico, sull’importanza del piano sequenza come rivelatore
dell’essenza del cinema, della riproduzione meccanica e del rispetto
per la soggettività dello spettatore ed infine nel diritto di quest’ultimo
ad un percorso di lettura dell’opera autonomo si può individuare “un
intento ricco di implicazioni e di sviluppi futuri, di adeguare il cinema
alle tendenze dell’estetica contemporanea che affida al destinatario del
messaggio estetico un ruolo attivo e che concepisce il testo come una
struttura aperta nella quale la funzione delle strutture tecnico-formali è
di moltiplicare i percorsi di lettura e di rendere ambiguo (cioè non
rigidamente prefissato) il senso”
5
.
Sulla stessa linea, è possibile leggere un mutamento della tradizione
cinematografica su scala mondiale, una serie di caratteristiche comuni,
2
Antonio Costa, Saper vedere il cinema, Bompiani, Milano 1985
3
Ibidem
4
Cfr. André Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano, 1973
5
Antonio Costa, op. Cit.
- 23 -
schematizzate da Micciché in quattro punti fondamentali
6
:
l’abbandono della struttura narrativa e di un intreccio romanzesco
tradizionale a favore di soluzioni più affini alle nuove tendenze
letterarie; abbandono di una sintassi filmica tesa ad occultare il
procedimento stesso di messa in scena sostituita da uno stile
antinaturalistico; utilizzo di metafore e allegorie in opposizione alla
messa in evidenza di un messaggio ideologico univoco veicolato da
personaggi positivi; esigenza di mutamento del sistema
produttivo/distributivo con cicuiti alternativi e indipendenti.
Questi tratti distintivi uniscono e accomunano esperienze sviluppatesi
in contesti lontani e differenti: dalla già citata nouvelle vague francese
al cinema dell’est socialista, dal Free cinema ai giovani arrabbiati del
Kitchen sink britannico, dalle esperienze, in vari paesi, del cosidetto
cinema diretto alle sperimentazioni avanguardistiche di Maya Deren,
Willard Maas e Marie Menken negli USA.
Proprio la spinta creativa e organizzativa di questi ultimi
sperimentatori consente di riallacciarsi ad un nodo fondamentale per
comprendere la natura del cambiamento del cinema, anche di quello
mainstream, negli stati uniti a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Già dalla
fine degli anni ’50 le scuole e le università si dotarono di
apparecchiature di registrazione e riproduzione in 16 mm: si trattava
di apparecchiature particolarmente maneggevoli adatte al
documentarismo, alle riprese in prima linea (venivano infatti già usate
a questo scopo durante la guerra) e soprattutto di più facile utilizzo. Si
diffusero macchine da presa anche tra i non professionisti e le
istituzioni iniziarono a curarsi del cinema sperimentale. Nacquero
cineclub, art festival e case di distribuzione indipendenti. I centri
cinematografici studenteschi erano assetati di prodotti alternativi al
cinema mainstream; è del 1962 la nascita della Filmaker’s
Cooperative del critico Jonas Mekas (già curatore della seminale
rivista newyorkese Film Culture) e del 1963 quella della Canyon
cinema cooperative. Le varie tendenze del primo cinema neo-
avanguardistico statunitense pagano un debito debito stilistico
6
Cfr. L. Micciché, Il nuovo cinema degli anni ’60, Torino, ERI, 1972
- 24 -
fondamentale all’avanguardia europea surrealista e dadaista prebellica
basti pensare a Meshes of the afternoon di Maya Deren o a Fireworks
di Kenneth Anger o ancora a Swain di Gregory Markopoulos ma
hanno il merito di portare sullo schermo dei temi, ad esempio
l’omosessualità, mai affrontati in modo esplicito e con tanta
freschezza. A questo proposito è utile ricordare le metafore della
visione di Stan Brakhage che con i suoi Anticipation of the night, Dog
star man e The act of seeing with One’s own eyes rivendica la natura
scevra da ogni pregiudizio dell’occhio dell’artista e concretizza il
concetto stesso di camera stylo riallacciandosi alle speculazioni della
nouvelle vague d’oltre oceano. Mentre la sperimentazione
cinematografica va consolidandosi anche negli altri ambiti artistici tra
anni ’50 e ’60 si assiste ad una rivoluzione dei codici: basti citare
scrittori come William Burroughs, artisti come la giapponese Yoko
Ono, le rappresentazioni del Living Theater o, su tutti, le opere del
musicista John Cage. I confini stessi tra le arti vanno dissolvendosi e
si assiste sempre più spesso a proposte intermediali. Tornando al
cinema, opere nate con i propositi più disparati vengono etichettate
come Underground e da questa etichetta il pubblico, o quantomeno la
maggiorparte di esso, si aspetta visioni morbosamente erotiche,
feticismo e l’abbattimento del limite di visibilità offerto dal circuito
hollywoodiano, aspettative peraltro soddisfatte da alcune famose
pellicole quali Scorpio Rising (1963) di Anger e Flaming Creatures
(1963) di Jack Smith. Parlando di underground e di sconfinamenti tra i
vari media non si può non tener conto di quanto l’arte di Andy Warhol
abbia influenzato l’idea stessa di cinema trasferendovi o meglio
aiutando ad estrinsecarsi le caratteristiche peculiari della cultura pop
che il mezzo cinematografico già di per se contiene a livello
ontologico. Le prime opere di Warhol, da Sleep (1963) a Eat (1963) a
Kiss (1963) fino ad Empire (1964) sono semplici registrazioni,
incredibilmente lunghe, con la macchina da presa pressoché immobile
che non fa altro che palesare agli occhi dello spettatore la
riproducibilità tecnica del mezzo cinema rimandandolo indietro nel
tempo, e nel cinema, alla tradizione dei Lumiere. Con le opere
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successive, My Hustler (1965),Vinyl (1965), The Chelsea Girls
(1966), nullude Restaurant (1967) per citarne alcuni, Warhol raggiunge
una sorta di compromesso narrativo ma da queste pellicole continua a
trasudare la tipica ambiguità delle sue opere pittoriche. Le tematiche
affrontate vanno dal masochismo all’omosessualità all’amore per
l’eccesso, secondo l’etichetta camp di Susan Sontag ma rimane in
ogni caso preponderante il senso di autoriflessività che impregna
questi lavori dai tratti dilettanteschi: Warhol “riconosce il film come
film e rompe così l’illusorio coinvolgimento dello spettatore con
l’azione (o la non azione) sullo schermo”.
7
7
David Bordwell e Kristin Thompson, Storia del cinema e dei film (II Vol.), Milano, Il Castoro, 1998