gioco e scontrarsi a volto coperto con agenti delle forze dell’ordine in tenuta antisommossa.
Quanto piuttosto che una tale situazione si sia verificata il giorno successivo all’entrata in
vigore di un nuovo decreto governativo teso a prevenire, limitare e reprimere la violenza
sportiva, rappresentando contemporaneamente un gesto di sfida alle autorità, un tentativo di
sovvertire l’ordine costituito ed un affronto alla comunità dei benpensanti, di coloro cioè che
vedono lo sport come una pura attività di svago, “un’isola felice” impermeabile a tensioni
sociali, trasformazioni economiche e rivoluzioni politiche e dove regnano sovrane le buone
maniere e i buoni sentimenti.
Al di là della coincidenza, più o meno casuale, tra approvazione della legge e turbolenza dei
tifosi(che di certo ha contribuito ad una maggiore notiziabilità del fatto di cronaca in
questione), quello appena citato è soltanto uno degli infiniti esempi che potremmo fare
riguardo la spasmodica attenzione riservata ormai da diversi anni da stampa, televisione e
mass-media in genere (non solo cioè dai quotidiani specializzati e dalle rubriche sportive) ai
disordini di cui si rendono spesso e volentieri protagonisti gli spettatori di una partita di
football. Attenzione che diventa massima quando a commetterli sono esponenti della
famigerata categoria degli “ultras”, la versione dura dei tifosi organizzati. Ma chi sono
esattamente gli ultras? Quando, come e soprattutto perché nascono a seguito delle squadre di
calcio italiane? Sono davvero così pericolosi come ci viene detto dai media? Sono veramente
necessarie delle leggi speciali per porvi rimedio? O il problema è forse meno urgente e grave
di quanto sembra e in realtà si tratta solo di una nuova, lunga ondata di “panico morale” che
ha investito il nostro paese negli ultimi decenni? E, prima ancora di interrogarci sulla natura
degli ultras, per quale motivo proprio il calcio ha tenuto a battesimo il fenomeno del tifo?
Perché questo gioco, e non un altro, è allo stesso tempo teatro di violenze di vario tipo ed
inesauribile fonte di identificazioni collettive, come appunto quella dei tifosi organizzati? E’
sempre stato così o è davvero esistita “un’epoca felice” del football(e dello sport tutto), in cui
gli unici attori presenti sulla scena erano gli atleti mentre gli spettatori rivestivano un ruolo
marginale senza interferire minimamente con quanto avveniva in campo?
Dare una risposta esauriente a queste e ad altre domande sarà l’obiettivo della presente
ricerca. Tuttavia, come vedremo, alcuni interrogativi resteranno tali o comunque aperti ad un
ventaglio di possibili soluzioni.
Questo in primo luogo perché gli studi sociologici e le ricerche empiriche sul fenomeno ultras
italiano sono poche e spesso frammentarie, mostrando una certa riluttanza ad indagarne la
dimensione socio-culturale e concentrandosi quasi esclusivamente sul problema della violenza
ad esso correlata. L’interesse del mondo accademico per il tifo e per il pubblico sportivo, ma
più in generale per il calcio, è infatti nel nostro paese storia recente e muove dalla morbosa
attenzione che stampa ed opinione pubblica hanno dedicato a due eventi particolari: la
tragedia dell’Heysel del 1985 e i Campionati del Mondo di calcio disputati in Italia nel 1990.
Solo la diffusa paura degli hooligans e l’allarme della società italiana per l’ordine pubblico e
la pace sociale sono riuscite a destare una certa attenzione per il tifo organizzato da parte dei
non addetti ai lavori ed a stimolare anche in Italia una serie di ricerche sul comportamento
degli spettatori, soprattutto sulle turbolenze degli ultrà, la cui esistenza rumorosa non poteva
certo passare inosservata in un periodo ormai lontano dalle contestazioni di piazza e che
voleva i giovani ormai pacificati. Ed è solo a partire da questi timori che alcuni ricercatori
sociali si sono accorti dell’effettiva dimensione del calcio(e per estensione dello sport) nella
società moderna, una dimensione sociale “densa” e strutturata, in grado non solo di
intrattenere quotidianamente milioni di praticanti, di appassionati e di spettatori, ma capace
anche di generare identificazioni collettive e conflittuali, di mobilitare ingenti interessi
economici e politici, di monopolizzare i palinsesti televisivi, di far nascere dei social problem
come quello, appunto, degli ultras. E per questo degna di un’attenzione sistematica che vada
oltre la semplice passione, oltre il gesto tecnico, oltre i novanta minuti della partita: in breve,
oltre il semplice aspetto ludico e ricreativo in cui il gioco del calcio è sempre stato confinato
dalle retoriche morali dei media e dalla reticenza del mondo accademico.
Esiste dunque un colpevole ritardo delle scienze sociali -non solo italiane- che fino a poco
tempo fa hanno “dimenticato” una delle fondamentali forme di aggregazione della nostra
società ed uno dei principali universi simbolici del nostro tempo, ignorando cioè più o meno
consapevolmente un intero sistema culturale(con tutta la sua ricca produzione di senso e di
significato) al tempo stesso autonomo e interdipendente dal contesto in cui è inserito e dagli
aspetti profondi della vita “seria”, della quale condensa e ritualizza umori, atteggiamenti,
tensioni e conflitti, fino talvolta ad anticiparne le linee di sviluppo futuro.
D’altronde, come concordano autorevoli sociologi del calibro di N. Porro, A. Dal Lago e R.
Moscati
1
, la scarsità di letteratura specifica sull’argomento è figlia della più generale, e ben
più grave, carenza di una sociologia dello sport, disciplina che non solo in Italia non ha grandi
tradizioni ma che anche all’estero ha faticato non poco a ritagliarsi uno spazio autonomo
nell’ambiente scientifico. Lo sport, che dalla metà dell’Ottocento gode nella nostra società di
un enorme interesse fino a divenire senz’ombra di dubbio il principale fenomeno sociale di
tutto il Novecento, è rimasto a lungo vittima dell’ostracismo e dello snobismo di gran parte
dell’opinione colta. Visto come manifestazione della tanto disprezzata cultura di massa e da
sempre messo in contrapposizione al più nobile concetto di lavoro(perpetrando cioè nel tempo
una tradizione accademica che filtra la vita sociale attraverso rigide compartimentazioni
dicotomiche: lavoro vs. tempo libero; mente vs. corpo; sfera della serietà vs. sfera del
divertimento; economico vs. non economico), il fenomeno sportivo è rimasto così per lungo
tempo privo di spiegazioni scientifiche. In questo modo “una delle dimensioni più rilevanti
della cultura popolare è stata abbandonata al gergo specialistico e autoreferenziale degli
addetti ai lavori(in particolare della stampa sportiva) e soprattutto ai pregiudizi ed agli
stereotipi prevalenti nel mondo intellettuale”
2
, tanto che storici e sociologi si trovano tuttora
un po’ in affanno quando tentano d’interpretare l’evoluzione di una data disciplina sportiva e
il suo ruolo nell’immaginario collettivo. Le categorie analitiche classiche sopra illustrate
infatti sembrano inservibili alla luce del mutamento sociale e culturale dell’ultimo secolo. Di
certo incapaci di descrivere il fenomeno sportivo occidentale, ingombrante quanto sfuggente
per la sua complessità, per il suo situarsi all’incrocio di ognuna di quelle dicotomie e per
l’essenziale tensione tra le ragioni dell’emozione e quelle della regolazione che esso
genera(disciplinando cioè in codici, regole e imperativi tecnici dei gesti arcaici come correre,
saltare, lanciare ecc. ecc.). Ed ugualmente superate appaiono sia quelle “miopi” teorie
sociologiche tendenti a svalutare l’attività ludica, considerandola troppo semplicisticamente
una manifestazione marginale della società moderna oppure un residuo arcaico, sia quelle
critiche sociali di orientamento marxista o riconducibili alla Scuola di Francoforte -e basate
dunque su presupposti ideologici- secondo cui lo sport(soprattutto quando di massa come nel
1
Cfr. N. Porro, Lineamenti di sociologia dello sport; A. Dal Lago, Descrizione di una battaglia; A. Dal Lago-R.
Moscati, Regalateci un sogno.
2
A. Dal Lago-R. Moscati, Regalateci un sogno, pag. 1.
caso del calcio) rappresenterebbe un esempio ideale di oppio dei popoli, un simbolo
dell’alienazione moderna e un’espressione perversa della società borghese. Tuttavia, anche
quando alcuni sociologi hanno riconosciuto il ruolo sociale dello sport moderno, questi si
sono interessati esclusivamente della sua progressiva razionalizzazione o della sua supposta
funzionalità sociale, tralasciandone sempre la dimensione culturale ed il ruolo assunto dagli
spettatori all’interno di questa(o facendo comunque prevalere la visione di un pubblico
sportivo come una massa amorfa, passiva, priva di volontà e facilmente manipolabile, così
come suggerito da Le Bon
3
).
Per Porro sarebbe dunque l’ora che le scienze sociali smettessero di guardare inermi un
fenomeno così invadente, coinvolgente e determinante come quello sportivo, cominciando
finalmente a darne una corretta lettura e ad elaborare delle serie conoscenze in merito. Tutto
ciò è però possibile solo se si abbandonano vecchi schemi concettuali ormai obsoleti e
approcci teorici che, nella migliore delle ipotesi, risultano datati. Prendendo invece coscienza
della reale consistenza sociale, culturale, politica ed economica dello sport moderno e del
significato che questo oggi assume per milioni di praticanti e di spettatori in tutto il mondo.
Così, in quest’ottica, lo sport può anche servire come “straordinaria lente del mutamento
sociale tout court, in quanto manifestazione espressiva, stile di vita, modello di
comportamento, veicolo comunicativo, ideologia, passione popolare, tecnologia, chiacchiera
quotidiana. Si tratta allora di approfondire l’intuizione di quei pionieri senza seguaci che, sulle
orme di Marcel Mauss, si sono spinti a descriverlo come un fatto sociale totale, capace di
mettere in luce la trama sotterranea che regola le relazioni collettive. Recuperando, anche, la
lezione dei classici della sociologia -da Durkheim a Weber- attenti a cogliere quella
sotterranea produzione del significato che gli individui e le comunità conferiscono alle
manifestazioni della vita collettiva. Anzi, indagando quali rappresentazioni collettive
sorreggano la straordinaria costruzione dell’immaginario sportivo”
4
.
Ad una simile interpretazione dello sport, e nello specifico del calcio, ricorre lo stesso
Alessandro Dal Lago, sociologo genovese la cui prospettiva sul più popolare dei giochi del
vecchio continente -interamente costruita a partire dal concetto di Mauss appena ricordato da
Porro- costituirà il punto di riferimento continuo della nostra ricerca sul fenomeno ultrà
3
Cfr. G. Le Bon, Psicologia delle folle.
4
Cfr. N. Porro, Lineamenti di sociologia dello sport, pag. 13.
italiano. Questo approccio infatti -che basandosi sul metodo etnografico ha come principale
obiettivo quello di descrivere la sottocultura sviluppatasi attorno al gioco del football grazie
all’utilizzo di strumenti d’indagine quali l’osservazione partecipante, le interviste non
strutturate e l’analisi di documenti scritti, visivi e sonori- si presta meglio di altri a sviscerare
la dimensione profonda del calcio, la sua complessità, il suo ricco apparato simbolico che
orienta i comportamenti degli attori(spettatori compresi), nonché a rivelare la continuità
esistente tra una determinata cultura e le sue manifestazioni sportive. Analizzando le
motivazioni dei protagonisti della scena calcistica Dal Lago, coadiuvato anche da Roberto
Moscati, riesce cioè non solo a mettere a nudo quelle metafore prevalenti nella nostra
società(conflittualità tra gruppi, lotta per la giustizia, dominio sessuale, senso d’identità,
importanza della vittoria, antitesi vita/morte) che uno sport di squadra come il football è in
grado di sintetizzare grazie alle sue specifiche dinamiche di gioco. Ma dimostra anche come
queste nella cornice simbolica di uno stadio vengano ritualizzate, radicalizzate e rese teatrali
secondo un processo parodistico che ne enfatizza e ne drammatizza i contenuti fino a rendere
culturalmente autonomo l’ambiente del calcio e quindi del tifo. Quest’ultimo allora deve
essere interpretato con categorie di un mondo a sé stante, dotato di un proprio codice di
comportamento, di proprie regole, di propri valori. E soprattutto di propri riti(insensati agli
occhi di non fa parte di questo “frame”), la cui comprensione diventa decisiva per dare una
spiegazione logica a quanto avviene ogni domenica sugli spalti di uno stadio e per rendere
intelligibili le rappresentazioni messe in scena dagli ultrà.
L’analisi dei rituali del calcio cui si dedica Dal Lago, e come lui Christian Bromberger -che
con i suoi lavori tornerà più volte a dar man forte alla nostra ricerca-, è dunque debitrice sia
delle opere di A. Schutz
5
sia dell’interazionismo simbolico di E. Goffman
6
. Il primo parla
delle attività ludiche pubbliche come delle province <<finite>> di significato(cioè di contesti
chiusi e autonomi) ed avanza una prospettiva metodologica che prevede una <<distanza
logica>> da quel corpus di conoscenze condivise o date per scontate che produce l’immagine
corrente della situazione(in questo caso il comportamento dei tifosi): da qui il rigetto di Dal
Lago delle retoriche dominanti sulla violenza calcistica e di quelle teorie che tendono
5
Cfr. A. Schutz, Sulle realtà multiple, in AA.VV., Saggi sociologici.
6
Cfr. E. Goffman, Frame Analysis. An Essay on the organisation of experience e E. Goffman, Modelli di
interazione.
frettolosamente ad etichettare gli ultras come dei criminali e dei devianti. Goffman invece,
introducendo il concetto di frame(cornice simbolica) -ovvero di una dimensione specifica
dotata di particolari regole di rilevanza e di accesso, unica e delimitata rispetto ad altre
situazioni- e definendo l’azione come una situazione in cui gli attori partecipano ad un rito
<<che dà i brividi>>, consegna le chiavi al sociologo genovese per entrare nell’universo dei
tifosi, per i quali prendere parte a queste <<azioni>>, celebrare questi rituali collettivi,
rendere visibili questi momenti eccitanti è il vero significato di una partita di calcio. L’unica
cornice, appunto, dotata di senso che permette loro di rappresentare pretese ed esigenze
altrimenti inespresse nella vita quotidiana, ormai completamente investita dall’incessante
processo di razionalizzazione emotiva.
E nell’orientamento di Dal Lago non possiamo non notare una certa somiglianza col lavoro di
Desmond Morris
7
, antropologo inglese che traccia un suggestivo parallelo tra le moderne
squadre di calcio(e i loro tifosi) e le tribù primitive e che ritrova nelle partite di football gli
stessi elementi e le stesse pratiche delle cerimonie religiose: comportamenti tribali, stregoni,
riti propiziatori, lo stadio come un tempio, calciatori idolatrati, superstizioni, inni dei tifosi
simili ai cori di chiesa, rituali che comportano un qualche tipo di sacrificio, sacralità del
territorio e così via.
Tuttavia, il debito più grande dell’approccio fin qui analizzato è nei confronti della Scuola di
Oxford e di quei ricercatori sociali come P. Marsh, E. Rosser e R. Harré che probabilmente
per primi hanno dato un’interpretazione diversa al fenomeno del teppismo calcistico ed a quei
comportamenti giovanili più “indesiderati”
8
. Per questi autori, gli atteggiamenti aggressivi e le
condotte violente che tendono a manifestarsi negli stadi di calcio con regolare frequenza non
sarebbero dei fenomeni selvaggi, sregolati, insensati o incontrollati, causati da una falla nella
struttura ordinata della società, né avrebbero le caratteristiche dell’anarchia e dell’impulsività,
come invece solitamente sostenuto dall’opinione dominante e dalla retorica dei media.
Tutt’altro. I giovani, considerando la loro vita sociale come una lotta per la dignità personale
in un contesto che puntualmente nega loro tale dignità, non solo ritengono la struttura
dell’ordine sociale priva di valore normativo e la routine quotidiana soltanto un mezzo atto a
svalutarli, ma reagiscono alla mancanza di senso, di aspettative e di possibilità identificatorie
7
Cfr. D. Morris, La tribù del calcio.
8
Cfr. P. Marsh-E. Rosser-R. Harré, Le regole del disordine.
costruendo ed organizzando un ordine proprio, in modo da rendere le loro esistenze
significative e trovare così una ragione di vita. Ed è proprio a partire dalle motivazioni e dalle
interpretazioni fornite da questi giovani al loro modo d’agire ed al loro atteggiamento
aggressivo che i sociologi di Oxford trovano sulle gradinate dello stadio un universo
simbolico autonomo, una realtà fatta di convenzioni e pratiche rituali(in genere giocate sulla
metafora bellica) all’interno delle quali vengono fissati valori, stabilite regole, determinate
gerarchie, offerte ricompense in termini di status e di identità. Un ordine senza dubbio
significativo solo per i tifosi-ultras(che hanno ora l’opportunità di vedersi conferita quella
dignità altrimenti negata nelle altre sfere della vita pubblica) ma pur sempre un ordine,
talmente vincolante e rispettato dagli aderenti a questo codice comportamentale da essere
mantenuto anche in quei casi(rari secondo gli autori) in cui da una violenza simbolica,
mimata, si passa ad una violenza reale.
Con un simile approccio al problema, i tre studiosi britannici hanno dato vita ad una
psicologia dell’azione che ha aperto la strada ad una nuova, importante prospettiva in
psicologia sociale, prospettiva in cui si è inserito a pieno titolo Alessandro Salvini, altro
ricercatore che con i suoi contributi ha dato un ulteriore, decisivo impulso alla comprensione
del fenomeno ultras italiano
9
. Salvini, riprendendo i concetti e i metodi della Scuola di
Oxford, sviluppa una teoria cognitivo-interattiva del comportamento aggressivo secondo cui i
tifosi non reagirebbero in modo diretto e passivo alle variabili ambientali, ma le loro azioni
sarebbero piuttosto il frutto di un lungo processo di apprendimento che consente loro di
mettere in pratica determinati comportamenti in funzione di precisi scopi remunerativi e
perfettamente in sintonia con la loro interpretazione della situazione. Il tifoso cioè, nel suo
periodo di apprendistato alla vita della curva, organizzerebbe una complessa struttura
cognitiva capace di rendere significativa(in modo affine al suo gruppo) ogni situazione dello
spettacolo sportivo e in grado di farlo muovere con competenza all’interno di un
sistema(interattivamente costruito con gli altri attori) ben definito ed ordinato di regole,
norme, valori, ruoli e significati condivisi. Anche per Salvini allora l’universo ultrà, piuttosto
che essere il regno del caos, esprimerebbe un elevato livello di razionalità e sarebbe così un
errore considerare gli ultras come individui eccessivamente soggetti all’imperio delle
9
Cfr. A. Salvini, Il rito aggressivo. Dall’aggressività simbolica al comportamento violento: il caso dei tifosi
ultras.
emozioni e privi di impulsi morali e inibitori. Anzi, ritenendoli coscienti e consapevoli delle
loro azioni, per giungere alla conoscenza della matrice cognitiva dei tifosi resta essenziale
secondo lo psicologo una spiegazione del comportamento che muova proprio dal punto di
vista e dalle ragioni degli attori stessi (tramite quindi resoconti, autobiografie e interviste di
profondità).
Dagli approcci teorici fin qui presentati(tutti riconducibili alla dottrina dell’interazionismo
simbolico) sembra distaccarsi almeno in parte Antonio Roversi, sociologo bolognese da
tempo impegnato nello studio del tifo organizzato, italiano e non, e autore di lavori che
risulteranno fondamentali nel corso della nostra indagine per approfondire alcuni aspetti
salienti del fenomeno ultras
10
. Roversi infatti, pur rappresentando le aggregazioni di tifosi
come delle vere e proprie nicchie sociali entro le quali si è riprodotta, col passare del tempo,
una specifica “comunità morale” costituita da giovani che condividono dei modelli culturali
egemoni ed unificanti, è piuttosto scettico riguardo la distinzione tra violenza simbolica e
violenza reale fatta da Marsh e colleghi e poi ripresa da Salvini e Dal Lago. Per lui
l’escalation di atti teppistici registratasi negli anni Ottanta e Novanta, e soprattutto il
degenerare delle forme attraverso cui gli ultras danno sfogo alla loro aggressività, deve
destare molta più preoccupazione di quanta invece non ne mostrino i sociologi appena citati,
che per Roversi sembrano minimizzare troppo la portata e gli effetti reali dei comportamenti
violenti. Ed una certa paura Roversi la nutre anche per le infiltrazioni delle organizzazioni
politiche(in modo particolare di quelle dell’estrema destra) nelle curve degli stadi italiani, che
nell’ultimo decennio avrebbero costituito un serbatoio di reclutamento per quei movimenti di
matrice razzista e xenofoba. Mentre, per Dal Lago, l’adesione di alcune frange ultrà alla
cultura della destra radicale deve essere ricondotta alla logica rituale dello stadio e
rientrerebbe ancora una volta in quel processo di “revisione” in senso parodistico delle
tematiche più ricorrenti nella vita “seria”, senza cioè implicare una reale militanza politica.
Ciò nonostante, Roversi condivide con tutti gli altri l’idea delle formazioni ultras come gruppi
nomici, altamente strutturati, caratterizzati da una propria cultura forte e comunque inclini ad
10
Cfr. A. Roversi, Calcio e violenza in Europa; A. Roversi(a cura di), Calcio, tifo e violenza; A. Roversi, Il
sociologo e l’ultrà, in V. Marchi(a cura di), Ultrà. Le sottoculture giovanili negli stadi d’Europa; A. Roversi,
Gente da stadio: tifosi organizzati e ultras, in R. Grozio(a cura di), Catenaccio & Contropiede; A. Roversi-G.
Triani(a cura di), Sociologia dello sport.
una certa ritualità nei loro comportamenti e nelle loro modalità espressive. E pure lui,
mostrando la natura interclassista del popolo delle curve e l’ordine normativo e simbolico cui
risponde questa comunità sociale, denuncia i continui attacchi criminalizzanti dei mezzi di
comunicazione e dell’opinione pubblica, che considerano tutti i tifosi organizzati come degli
ubriaconi, dei drogati, dei disadattati e degli emarginati. Per Roversi dunque il teppismo
calcistico, più che un semplice problema di ordine pubblico, sarebbe un problema giovanile
con più vaste implicazioni sociali, psicologiche e culturali e come tale dovrebbe essere
trattato, affiancando a repressive misure di polizia(valide nell’immediato) programmi di
intervento basati su una diversa ottica, proponendo lui stesso alcune possibili soluzioni di
medio e lungo periodo.
Altri costanti punti di riferimento del presente lavoro saranno poi i saggi del sociologo
Valerio Marchi, attento studioso del fenomeno hooligans inglese e profondo conoscitore del
movimento ultrà italiano, grazie anche alla personale esperienza maturata sui gradini della
Curva Sud romanista
11
. Marchi però, a differenza degli altri ricercatori fin qui presentati, oltre
a fare un raffronto tra la situazione d’oltremanica e quella del nostro paese inquadra il
teppismo calcistico(e, più in generale, la dimensione socioculturale del tifo) nella più vasta
“questione giovanile”, analizzando il ruolo giocato dalla figura adolescenziale nella società
moderna. Ricostruendo la scena sottoculturale inglese dell’ultimo secolo in relazione alla
violenza calcistica -che a partire cioè dall’epoca vittoriana giunge fino alle recenti
trasformazioni subite dall’hooliganismo negli anni Ottanta e Novanta- e tracciando un
parallelo con lo sviluppo del tifo calcistico italiano, strettamente correlato alle vicende
politiche che caratterizzano il periodo in cui nasce questo movimento, Marchi non solo ci
mostra le differenze(tante) tra i due modelli di tifo estremo, ma anche come in entrambi paesi
ogni stile di vita giovanile più turbolento sia sempre vissuto con una certa ansia dai media e
dall’opinione pubblica, aprendo ogni volta le porte a periodi più o meno lunghi di allarme
sociale e di panico morale.
In particolare, fa notare Marchi, mentre l’hooligan è più un’espressione della sottocultura di
matrice working class e trova le sue radici nei territori tipici del sottoproletariato inglese, il
movimento ultrà italiano ha una estrazione decisamente più interclasse e costituisce un
11
Cfr. V. Marchi, SMV: Stile Maschio Violento; V. Marchi(a cura di), Ultrà. Le sottoculture giovanili negli stadi
d’Europa e V. Marchi, Introduzione in D. Colombo-D. De Luca, Fanatics.
universo culturale autonomo e complesso, mutuando(almeno in un primo momento)
motivazioni, comportamenti, organizzazione, simbolismo e forme d’azione collettiva dalla
contestazione giovanile e dai movimenti politici sessantotteschi. Le uniche cose che sembrano
legare gli ultras ai loro corrispettivi britannici, oltre che gli atteggiamenti aggressivi e la
spiccata conflittualità -se non una vera e propria propensione alla violenza- sono allora il
senso di contrapposizione verso ogni forma di autorità costituita e il rifiuto di ogni tipo di
controllo esterno. Nonostante però le differenze strutturali ed organizzative dei due modelli,
stampa ed opinione pubblica impongono ad entrambi(così come era avvenuto per i punk, per i
rockers, per i capelloni e per molti altri stili giovanili) il ruolo di parafulmine, di Folks Devil,
di capro espiatorio su cui dirottare tutte le ansie e le paure della società contemporanea. In
pratica, sostiene Marchi, i giovani più irrequieti rappresentano una “via di fuga” sempre
valida per quello stato di paranoia collettiva che colpisce le classi dominanti (e
prevalentemente il ceto medio) soprattutto quando la violenza deborda dai suoi confini
naturali, o ritenuti tali, e finisce per abbracciare i ragazzi di ogni condizione sociale ed
economica.
L’attenzione rivolta da Marchi alla situazione inglese ed al teppismo calcistico di stampo
britannico porta di nuovo oltremanica la nostra rassegna sulla letteratura dedicata
all’argomento. Se infatti in Inghilterra vi è stata una maggiore analisi sociale del fenomeno
hooligans e rispetto all’Italia si è cercato di indagare in modo più approfondito le relazioni
esistenti tra sport e aggressività -fino ad arrivare ad una iper-produzione di saggi e teorie sul
tema in questione- ciò è dovuto non solo al fatto che la società anglosassone ha sperimentato
per prima il problema della violenza negli stadi, ma anche all’influenza di sociologi quali Eric
Dunning e Norbert Elias che, con i loro lavori pionieristici sull’evoluzione sociale e culturale
degli sport, hanno dato un forte impulso agli studi in materia e creato una tradizione di
pensiero facente capo all’Università inglese di Leicester
12
.
Come vedremo meglio più avanti, secondo la tesi di Elias e Dunning, che si soffermano a
lungo sulle differenze tra lo sport antico e quello moderno, la modernizzazione comporterebbe
una progressiva marginalizzazione degli eventi sportivi come celebrazioni pubbliche
12
Tra le opere dei due autori ricordiamo qua E. Dunning, The sociology of sport: a selection of readings; E.
Dunning-N. Elias, Sport e aggressività; N. Elias, Il processo di civilizzazione; N. Elias, La civiltà delle buone
maniere.
dell’aggressività. E questo processo si muoverebbe secondo due direttrici principali. Da una
parte limitando l’aggressività stessa, in quanto le società più sviluppate sarebbero sempre
meno tolleranti nei confronti delle manifestazioni pubbliche di violenza che accompagnano i
giochi popolari e i passatempi tradizionali dalla notte dei tempi. Così gli sport più violenti si
sarebbero lentamente sterilizzati mediante la neutralizzazione della loro violenza pubblica,
fino a diventare asettici o addirittura scomparire. Con la conseguenza che anche il pubblico,
da presenza più o meno attiva, si sarebbe trasformato in una massa di spettatori inerti e
passivi. Dall’altra parte razionalizzando la competizione sportiva, che progressivamente
avrebbe assunto il carattere di contrapposizione astratta e sublimata. Già dalla fine
dell’Ottocento si sarebbe così accresciuta l’importanza delle classifiche e dei punteggi,
nonché innescata quella spasmodica ricerca dei record che ancora oggi è il “movente”
principale di ogni disciplina. In questo quadro, solo i gruppi marginali della società, quelli
cioè meno sensibili ad una cultura ormai razionalizzata, troverebbero nelle manifestazioni
sportive pubbliche l’occasione di esprimere la loro aggressività e di lasciarsi andare a
comportamenti violenti. L’evoluzione sportiva tracciata dai due autori è quindi perfettamente
in linea con la ricostruzione del processo di civilizzazione occidentale operata dallo stesso
Elias: secondo il sociologo tedesco infatti la società moderna si incentrerebbe su un controllo
progressivo delle emozioni e tale controllo assumerebbe le forme dell’autocontrollo nelle
classi superiori e della repressione in quelle inferiori.
Tuttavia l’approccio di Elias e Dunning, nonostante sia un valido strumento per illustrare il
passaggio dai giochi popolari medievali alle moderne forme di sport e costituisca forse il
primo, vero tentativo di dare una spiegazione sociologica al fenomeno sportivo, presta il
fianco ad alcune critiche. Innanzitutto quella di non saper riconoscere il ruolo autonomo degli
spettatori delle competizioni agonistiche moderne, i quali invece svolgono una parte attiva e
nemmeno tanto secondaria nello spettacolo sportivo. In secondo luogo, Elias e Dunning
attribuiscono agli sport(soprattutto a quelli di squadra) una struttura mimetica ed una funzione
catartica che però, oltre a richiamare l’ormai superata teoria della “valvola di sfogo” (più volte
è stata infatti dimostrata l’inesistenza di una stretta correlazione tra frustrazione ed
aggressività), non riesce a spiegare alcuni comportamenti del pubblico sportivo moderno e
certe forme di violenza calcistica, come ad esempio quelle adottate dagli ultras e dagli
hooligans. Infine, per i due sociologi il teppismo da stadio sarebbe unicamente riconducibile
alla sottocultura proletaria e rappresenterebbe un’espressione tipica della rough working class
urbana. Ma come abbiamo detto in precedenza, se questo può essere un discorso valido per il
fenomeno hooligan inglese(soprattutto per quanto riguarda la sua genesi e la sue fasi iniziali),
una volta che si tenta di applicarlo al caso italiano questo viene seccamente smentito dalla
realtà dei fatti, dato che il movimento ultrà non è mai stato una derivazione diretta ed
esclusiva di una sola classe sociale.
Gli autori e le prospettive teoriche che abbiamo brevemente illustrato in questa introduzione
costituiranno la spina dorsale della ricerca sul tifo organizzato e sul fenomeno ultras italiano
che affronteremo nelle prossime pagine, le colonne portanti su cui costruire ed articolare il
nostro discorso su uno dei movimenti giovanili più longevi di sempre e il punto di partenza
per ogni tipo di considerazione in merito. Come avremo modo di vedere però la nostra analisi
si arricchirà anche di numerosi altri interventi. Saranno chiamati in causa molti studiosi,
ricercatori, sociologi, professori, letterati e scrittori più o meno illustri che con le loro
intuizioni entreranno direttamente o indirettamente nel presente lavoro e ci consentiranno di
fare un po’ più di chiarezza in una realtà per certi aspetti ancora oscura. Non mancheranno poi
le opinioni degli addetti ai lavori, gli articoli della stampa specializzata, i commenti di coloro
che per motivi professionali o interessi personali vivono sette giorni su sette l’ambiente del
calcio o comunque lo seguono da molto vicino. E nemmeno i giornalisti (sportivi e non),
spesso armati di stereotipi, luoghi comuni, retoriche morali sugli ultras e sulla violenza, dediti
a cronache surreali degli incidenti ed affetti da una cronica incapacità critica e di
approfondimento, resteranno fuori da questa indagine. Ma soprattutto si rileveranno
fondamentali gli apporti degli stessi protagonisti delle domeniche italiane, i racconti
autobiografici delle curve, le voci che si alzano da dentro il movimento per portare a galla gli
umori, i conflitti, le tendenze, le contraddizioni di un universo, quello ultras, contraddistinto sì
da una cultura forte ed omogenea, ma al suo interno anche assai variegato e frammentato.
Buona parte delle nostre fonti sarà così costituita da testi redatti dagli stessi ultrà, libri
autoprodotti, fanzines e periodici dei gruppi organizzati, interviste di profondità, documenti e
materiali vari messici a disposizione, più o meno intenzionalmente, da alcuni esponenti del
movimento. A cui dobbiamo aggiungere l’enorme quantità di notizie e d’informazioni
rintracciabili sui sempre più numerosi siti Internet dedicati al calcio ed al suo pubblico. Molti
club di tifosi, ultras o meno, hanno infatti recentemente affidato alla rete sia la loro
comunicazione interna al movimento sia quella col “mondo esterno”, da una parte creando dei
propri spazi autogestiti, delle proprie home page, dall’altra partecipando ai tanti forum di
discussione ed alle tante chat che negli ultimi tempi hanno affiancato agli scontri fisici tra
intere tifoserie una guerra telematica tra singoli “pseudo-ultras”.
Nonostante tutta questa documentazione autoreferenziale sia indubbiamente faziosa, quasi
mai obiettiva, talvolta inattendibile, riteniamo che una sua consultazione sia
indispensabile(come sostengono gli etnografi) per scandagliare meglio il fenomeno di cui ci
stiamo occupando, per comprendere fino in fondo le esigenze, le motivazioni, i principi e i
comportamenti di questi giovani tifosi: in pratica, per arrivare a capire cosa significa
esattamente “essere ultras” e cosa spinge ancora oggi migliaia di ragazzi ad aggregarsi nelle
curve degli stadi italiani.
Il presente lavoro si articola in due parti. La prima, intitolata “Calcio, tifo e violenza”, si
compone a sua volta di quattro capitoli. Nel Capitolo Uno, grazie soprattutto alla teoria
configurazionale di Elias e Dunning ed ai contributi di Stefano Pivato
13
, ricostruiremo il
fenomeno sportivo occidentale, ripercorrendo all’inizio le tappe che hanno portato alla
trasformazione dei giochi e dei passatempi tradizionali nelle moderne forme di sport, per poi
passare ai significati che quest’attività ha assunto nel corso del XX° secolo e le identificazioni
collettive che ha generato. Successivamente avremo modo di vedere come al gioco del calcio
si siano sempre associati dei comportamenti violenti da parte degli spettatori e, quindi, come
il pubblico abbia sempre giocato un ruolo attivo all’interno degli stadi. Mostreremo anche
come l’approccio etnologico di Dal Lago e Bromberger, tra gli altri, sia ben più indicato a
spiegare il fenomeno ultrà(e gli atteggiamenti aggressivi delle folle sportive in genere) di
quanto non riesca invece a fare la prospettiva della Scuola di Leicester.
Nel Capitolo Due tracceremo la storia del movimento ultrà italiano, dalla sua nascita agli
sviluppi più recenti, aiutati in questo dalle opere di Roversi, di Marchi e di Fabio Bruno
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.
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Cfr. S. Pivato, L’era dello sport e S. Pivato, Il pallone prima del football in P. Lanfranchi(a cura di), Il calcio e
il suo pubblico.
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Alle opere dei primi due abbiamo già accennato in precedenza. Fabio Bruno, ex-ultras, oggi giornalista e
ricercatore sociale, tornerà più volte nel corso del nostro lavoro. Qui però, a proposito della storia del movimento
ultrà, ci interessa ricordare F. Bruno, Storia del movimento ultrà in Italia in V. Marchi(a cura di), Ultrà. Le
sottoculture giovanili negli stadi d’Europa.
In particolare, sarà possibile notare come dal “bisogno di socializzazione” che spinge negli
anni Settanta i giovani tifosi ad organizzarsi sul modello dei movimenti politici
sessantotteschi si passa, nei decenni successivi, al “bisogno di apparire” delle nuove
generazioni, esigenza adolescenziale strettamente correlata all’avvento ed all’affermazione
della società dell’immagine. Un cambiamento questo che si ripercuoterà su tutto il
movimento, facendo aumentare a ritmo esponenziale i club ultras e favorendo il proliferare
dei “cani sciolti”, ovvero di quei piccoli gruppi(spesso anche singole persone) che, estranei
alla cultura della curva e non curanti del tacito codice di autoregolamentazione ultrà, sfruttano
soltanto la visibilità offerta dallo spettacolo calcistico per scopi ben diversi da quelli del tifo.
Proprio il codice di comportamento dei gruppi ultrà, meglio conosciuto come “mentalità
ultras”, sarà il principale oggetto di studio del Capitolo Tre. Qui vedremo, col decisivo
supporto di Salvini, Dal Lago e dei sociologi di Oxford, come quelle ultras siano aggregazioni
nomiche, altamente strutturate, capaci di esprimere peculiari valori, simboli, norme e
gerarchie, fino a costituire un universo culturale autonomo. E dimostreremo come il tifo,
anche nei suoi aspetti più violenti, risponda a delle proprie logiche rituali. Proprio gli ultimi
due paragrafi, in cui verranno esaminate la natura “sacra” della curva e le relazioni esistenti
tra le diverse tifoserie, ci illustreranno la propensione dei tifosi a ritualizzare lo spazio
pubblico dello stadio e ci dimostreranno come qualsiasi loro comportamento sia direttamente
imputabile allo schema dominante amico/nemico.
Nel Capitolo Quattro, infine, un’attenta analisi sarà dedicata ai rapporti con “l’esterno” del
movimento ultras(è soprattutto qua che ci serviremo dei testi, dei documenti e dei materiali
direttamente provenienti dall’ambiente del tifo organizzato, ferme restando le linee guida
degli autori fin qui citati). Oggetto di attenzione saranno i complessi legami intrattenuti con la
politica, con i media, con le società di calcio e con le istituzioni governative e sportive.
Vedremo così come i gruppi ultrà, dopo una prima, pesante eredità nei confronti delle
organizzazioni operaie e studentesche del ’68, siano arrivati a distaccarsi completamente dalla
dimensione politica, rendendosi autonomi da questa, per poi subire però nell’ultimo decennio
una nuova ondata di politicizzazione. E analizzando gli anni Novanta non sfuggirà certo alla
nostra osservazione lo “sbarco” del linguaggio da stadio in Parlamento, ovvero quel processo
che qualcuno ha ragionevolmente definito la “calcistizzazione della politica”, in
contrapposizione alla “politicizzazione del calcio” tipica dei primi anni Settanta.