Capitolo 1
Un antropologo in corsia
1.1 L’approccio etnografico: riflessioni preliminari, esposizione ed
obiettivi della ricerca
L’antropologia è la disciplina che ha promosso ed eretto la dimensione socio-
culturale dell’esistenza umana a oggetto di studio scientifico. Per lungo tempo gli
antropologi hanno indirizzato il loro sguardo verso le differenze culturali esistenti
tra i vari gruppi umani giudicandone erroneamente la complessità a partire dai
valori e dai principi propri del gruppo sociale di appartenenza, in altri termini
ponendo la propria cultura (quella euro-occidentale), come punto di riferimento
ideale per la comprensione del comportamento umano e della diversità culturale.
Per tutto il XIX° secolo quest’atteggiamento etnocentrico, unito ad una cieca
fiducia nel movimento positivista e nella corrente teorica del darwinismo sociale,
portò gli antropologi a descrivere un mondo diviso in due. Da un lato vi erano le
società complesse, evolute, cioè i “civili popoli occidentali”, dall’altro i cosiddetti
“popoli primitivi” caratterizzati da una struttura sociale semplice, in quanto
collocati ad uno stadio inferiore di evoluzione culturale. «A questi ultimi
l’antropologia si è presentata come una scienza intermediaria capace di produrre
per una parte del mondo, quella civilizzata, la conoscenza dell’altra» (Pavanello
2009). Oggi, con il rifiuto dell’etnocentrismo e della conseguente distinzione tra
società primitive e società civilizzate, gli antropologi parlano di varie forme di
complessità, in quanto ogni contesto sociale differisce da ogni altro nella misura
in cui gli individui o i gruppi che ne fanno parte lo percepiscono, conoscono e
costruiscono attraverso le loro azioni e pratiche quotidiane. Gli antropologi
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contemporanei sono chiamati a cogliere la laboriosità dei processi socio-culturali
non risalendo induttivamente a ipotetiche leggi universali ritenute alla base della
loro esistenza, né elaborando teorie da verificare in modo empirico, ma
osservando piuttosto la loro dimensione storica, cioè ricostruendo le dinamiche
storico-culturali che hanno portato un determinato fenomeno ad essere quello che
è. Dal punto di vista metodologico tale scopo viene raggiunto attraverso un’analisi
critica delle fonti unita ad un uso integrato delle tecniche quantitative e qualitative
di ricerca sociale, prediligendo tra queste il metodo etnografico e la ricerca sul
campo. La prassi etnografica consiste nell’osservazione prolungata
dell’antropologo nel contesto di ricerca e nella sua partecipazione attiva a stretto
contatto con gli attori sociali che ne fanno parte. In tale pratica è necessario, che
l’etnografo metta in gioco una sensibilità auto-riflessiva, in modo da percepire la
propria presenza sul campo ed operare un'analisi critica del proprio modo di
osservare.
In tempi recenti l’antropologia ha focalizzato la sua attenzione sui modi di
rappresentazione del “corpo”, della “salute” e della “malattia” presso le diverse
società umane, nonché sulle dinamiche sociali, storiche, culturali, politiche e
istituzionali ad esse legate. L’interesse verso la dimensione sociale prima ancora
che biologica dei processi di salute, malattia e cura e di come individui
appartenenti a società differenti elaborino diversi saperi, pratiche e modi di gestire
tali processi ha portato alla nascita dell’antropologia medica quale specifico
settore di ricerca. Sebbene si tratti di un ambito disciplinare estremamente
eterogeneo, il che rende difficile ogni tentativo di darne una definizione esaustiva
senza cadere in complicazioni concettuali, può essere tuttavia presentato come:
«lo studio dei modi e delle forme in cui nelle diverse società, gli esseri umani
vivono, rappresentano ed affrontano l’evento della malattia» (Pizza 2005: 11). In
Italia, tale denominazione si è affermata sia in ambito accademico che scientifico,
grazie alla fondazione nel 1988 della Società italiana di antropologia medica
(SIAM), ad opera dell’antropologo Tullio Seppilli. Va detto che la scelta di
affiancare l’aggettivo “medica” alla parola “antropologia” potrebbe spingere,
soprattutto i non addetti ai lavori ad equivoche interpretazioni dalle quali è bene
prendere le distanze. La scelta terminologica è, come accade per molte aree di
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ricerca, soltanto una convenzione, la cui funzione è esclusivamente quella di
indicare il campo tematico al quale viene applicata la ricerca antropologica
(Ibidem: 16). Infatti, sebbene sempre più antropologi decidono di svolgere le loro
ricerche in contesti occidentali e a stretto contatto con i professionisti della
biomedicina, l’antropologia medica non è, contrariamente a quanto lascia
intendere la sua denominazione, un sapere monolitico, né condivide l’approccio
teorico-metodologico della scienza medica occidentale ma è una disciplina
storico-sociale fondata sul metodo di ricerca etnografico. Agli occhi degli
antropologi le nozioni di corpo, salute e malattia vengono spogliate del loro
presunto carattere “naturale” e restituite alla storia, illuminando cioè le modalità
storico-culturali attraverso le quali tali nozioni, nonché il concetto stesso di
“natura”, sono state costruite sulla base di congetture ideologiche considerate in
un determinato momento storico come certe e indiscutibili (Pizza 2005: 11). La
sensibilità storicista delle scienze umane e il rigore scientifico proprio del campo
delle scienze naturalistiche trovano nell’antropologia medica uno spazio comune
in cui mettere in luce le complesse interconnessioni tra la dimensione biologica
dell’essere umano e la capacità di quest’ultimo di intessere relazioni, produrre
saperi, pratiche, tecnologie e rappresentazioni atte a descrivere e fronteggiare il
proprio stato di malessere.
L’interesse verso tali argomentazioni, maturato durante il mio percorso
universitario congiunto ad un’esperienza personale di malattia, mi ha spinto al
culmine del mio percorso di studi in discipline etno-antropologiche presso la
facoltà di Lettere e Filosofia dell’università La Sapienza di Roma, a rivolgermi al
prof. Alessandro Lupo e a presentare un progetto di tesi in antropologia medica
che avesse come tema centrale il cancro. Insieme abbiamo individuato come
possibile oggetto di indagine la dimensione socio-culturale delle patologie
neoplastiche, delle rappresentazioni di questo tipo di malattia sul piano culturale e
la sua gestione sul piano cognitivo, emozionale e sociale. La ricerca, durata sei
mesi, iniziata nell’Ottobre 2014 e terminata ad Aprile 2015, è stata condotta
presso il dipartimento di oncologia addominale dell’Istituto Nazionale Tumori di
Napoli, rispettando le regole e i criteri metodologici della prassi etnografica.
Nonostante l'insicurezza di chi si trova a svolgere la sua prima indagine sul
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campo, tra l'altro su un tema così delicato sia dal punto di vista umano che
scientifico come la malattia oncologica e le difficoltà da me incontrate nello
svolgere una ricerca etnografica in un contesto particolare come quello
ospedaliero, sono riuscito tuttavia a costruirmi, non senza fatica, una certa
legittimità che mi ha consentito di partecipare con sufficiente naturalezza alla vita
del reparto. Ciò è stato possibile grazie anche alla disponibilità e collaborazione di
tutto il personale medico-sanitario e in particolare del Prof. Giovanni Maria
Romano (direttore del dipartimento di oncologia addominale dell'I.N.T.), che ha
accolto il mio progetto di ricerca, previamente discusso in incontri più informali,
con apertura e curiosità intellettuale.
In concomitanza con l’attività di osservazione svolta presso il dipartimento, ho
realizzato 58 interviste, prediligendo la forma aperta (anche se impostate su un
temario preventivamente delineato), con domande rivolte ai pazienti, ai loro
familiari e al personale medico-infermieristico al fine di descrivere la variabilità
dei processi di costruzione sociale del malessere in relazione alle diverse posizioni
coinvolte. Complessivamente sono stati intervistati 19 pazienti, 19 familiari, 7
medici, 10 infermieri, 2 operatori socio-sanitari e il parroco della struttura (la
durata media dei colloqui è di circa 45 minuti per soggetto intervistato). Ogni
conversazione si è svolta nel rispetto della privacy degli interlocutori garantendo
l'assoluto anonimato delle informazioni raccolte e chiedendo esplicitamente il
consenso all'uso del registratore. Inoltre ho tenuto dei quaderni nei quali ho
cercato di documentare il lavoro del personale medico-infermieristico, mentre mi
rammarico invece, di non essere riuscito ad assistere in prima persona al giro delle
visite.
Nel tentativo di mettere in atto una reale osservazione partecipante, mi sono
immediatamente trovato ad affrontare una prima e importante questione che ha
certamente determinato, almeno nei primi due mesi della ricerca, il mio modo di
muovermi sul campo e di rapportarmi ai malati, ovvero la questione del “dire” o
“non dire” la verità in riferimento alla diagnosi di cancro. Per vissuto personale, in
quanto familiare stretto, figlio per la precisione, di un malato oncologico, ho fatto
il mio ingresso in ospedale preparato all’idea di trovare pazienti con un grado di
conoscenza parziale della propria situazione clinica. In Italia è ancora piuttosto
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diffusa, anche se in misura decisamente minore rispetto a qualche decennio fa, la
prassi di non comunicare direttamente al paziente la diagnosi di tumore,
soprattutto se la prognosi è negativa. Stando a quanto riferitomi dalla maggior
parte dei soggetti intervistati (pazienti, medici, familiari e infermieri), la
comunicazione della diagnosi avviene quasi sempre attraverso la mediazione di
uno o più familiari stretti che insieme al medico concordano le parole e più in
generale il linguaggio da adottare, arrogandosi in buona fede si intende il diritto di
decidere cosa dire e cosa non dire al diretto interessato. In altre parole vi è una
spontanea tendenza da parte dei parenti del malato a filtrare le informazioni
descriventi il suo effettivo quadro clinico, nascondendo quelle ritenute più
destabilizzanti sul piano emotivo. Tale pratica trova conferma in una ricerca, assai
più autorevole della mia, condotta dall’antropologa Deborah Gordon in un
ospedale di Firenze e pubblicata in un saggio del 1991, dal titolo Culture, Cancer,
and Communication in Italy. La studiosa americana riassume nel modo seguente
le logiche culturali che sottendono l’atteggiamento del “non dire la verità” in
riferimento alle diagnosi di tumore a prognosi incerta:
In order to understand not telling and not knowing in Italy, we must
first consider some of the cultural and social logic involved in this
practice, what may be considered the structure of hope in this cultural
context. While the perspectives of patients and lay persons are
incorporated in the following account, the views were often explored
more openly with health professionals, primarily physicians, and
family members who make the decisions. How much people who have
cancer actually share these perceptions when they become severely ill
is less certain. Essentially, the logic regarding not informing patients
of a cancer diagnosis with an uncertain prognosis is as follows: a) A
diagnosis of cancer = certain death and hopelessness awareness of
one’s diagnosis = hopelessness and death in the present. b) According
to physicians and family members, patients don't want to know. c) A
good death is living as normally and serenely as possible until one
dies without being aware of it, ideally suddenly. d) Telling the
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