The Obama-Ahmadinejad Relationship: a Critical Discourse Analysis
4
INTRODUZIONE
Soudeh ha un modo di comunicare prorompente, gesticola molto (“in fondo noi iraniani non
siamo poi tanto diversi da voi italiani, no?”) e lascia poco spazio di replica al proprio
interlocutore, che non può fare a meno di rimanere incantato dal suo sguardo magnetico. Si
trova in vacanza in Italia per pochi giorni e racconta della sua visita alla Città del Vaticano e
del gruppo di turisti con cui si è trovata a condividere il tour guidato alla Basilica di San
Pietro. Tra questi c’era un giovane soldato americano in congedo il quale, una volta venuto a
conoscenza della sua nazionalità, non si è sforzato di celare la propria diffidenza nei confronti
di una cittadina di un paese, l’Iran, che agli occhi degli americani ha rappresentato, negli
ultimi trent’anni, una delle maggiori fonti di minaccia per la propria sicurezza nazionale. Il
ricordo di quell’episodio è vivido nella mente di Soudeh, che descrive la scena con energia e
non cela un certo risentimento nei confronti di quel soldato, ma che soprattutto esprime il
senso di umiliazione provato sentendosi bersaglio di sguardi di condanna per eventi passati e
presenti per cui lei non ha alcuna responsabilità. Soudeh è cresciuta a Teheran ma avendo
proseguito gli studi universitari fuori dall’Iran, dove fa ritorno periodicamente per fare visita
alla sua famiglia, ha piena consapevolezza del modo in cui il proprio paese viene percepito
dai paesi occidentali e soprattutto dagli Stati Uniti. Questi ultimi e la Repubblica islamica
dell’Iran si trovano in perpetua rotta di collisione da circa trent’anni a questa parte, più
esattamente a partire dalla rottura delle relazioni diplomatiche ufficiali tra Washington e
Teheran, avvenuta nel 1979. Se si considerano quindi i termini in cui il governo americano,
attraverso i principali canali mediatici, ha presentato e continua tutt’oggi a presentare l’Iran
alla propria opinione pubblica, non stupisce più di tanto la diffidenza con cui quel soldato si è
rivolto a Soudeh. La Repubblica islamica dell’Iran nel corso dei decenni è stata, infatti,
definita in termini di “rogue state”, finanziatore di terrorismo di matrice islamico-sciita,
minaccia per Israele, fomentatore di antisemitismo e disturbatore degli equilibri mediorientali,
specie per quel che riguarda il processo di pace israelo-palestinese. Soprattutto, e con
maggiore enfasi a partire dall’inizio del nuovo Millennio, l’Iran è stato descritto in termini di
minaccia nucleare, paese che viola le norme internazionali in materia di non proliferazione
nucleare ed è stato per questa ragione annoverato dall’ex presidente americano G.W.Bush nel
cosiddetto “Asse del male” al fianco di Iraq e Corea del Nord. Tale persistente connotazione
Stefania Maccagno – Corso di Laurea Magistrale in Scienze Internazionali
5
negativa ha portato a una vera e propria demonizzazione dell’Iran, contribuendo a veicolarne
un’immagine perlopiù negativa, a conferma di quanto l’identità sia “eterogenesi instabile di
chi la pratica e la racconta” (Azar, 2011: 27). Con ciò non si intende certo dire che questa sia
l’unica immagine che si ha in Occidente dell’Iran, ma può a buon diritto essere ritenuta quella
più diffusa specie tra quel pubblico, sempre più folto, la cui fruizione delle notizie è fugace,
poco propensa ad approfondire questioni di politica estera su Internet o su riviste specializzate
e ancor meno a verificarne le fonti. Si presume, infatti, che il pubblico sia incline a sposare,
spesso inconsciamente, le idee ripetute più spesso, specie se provenienti da fonti considerate
autorevoli e quindi difficilmente messe in discussione. È altresì innegabile che un notevole
contributo a costruire un’immagine tanto negativa dell’Iran sia giunto dall’attuale presidente
della Repubblica iraniana, Mahmoud Ahmadinejad. Questi, con le sue continue, talvolta
grottesche, accuse all’Occidente, con la sua sferzante retorica anti-americana e anti-israeliana
e le sue irremovibili posizioni in merito al diritto dell’Iran di sviluppare un proprio
programma nucleare, ha indubbiamente voluto mantenere puntati su di sé i riflettori dei media
internazionali. Ciò avrebbe inevitabilmente indotto questi ultimi a proporre sempre più spesso
una superficiale e semplicistica equazione tra il presidente iraniano, da una parte, e l’Iran e gli
iraniani, dall’altra. Soudeh, che di tali dinamiche è ben consapevole, si sforza di decostruire
tale svilente amalgama e, mentre racconta delle bellezze e della ricchezza delle tradizioni
millenarie della propria terra, i suoi occhi neri e profondi si illuminano di orgoglio e amor di
patria. Questa luce è però smorzata da un misto di malinconia e rabbia quando, poco dopo, si
ritrova a parlare del presidente Ahmadinejad, “lo scimpanzé” (soprannome attribuitogli dai
suoi oppositori politici) e del contributo negativo che egli sta dando all’immagine dell’Iran,
alla sua popolazione e alla sua antica civiltà. La rabbia si trasforma poi in dolorosa
indignazione quando Soudeh rievoca il modo in cui il regime ha mostrato il suo volto più
spietato per sedare con violenza inaudita il movimento di rivolta popolare pacifica seguito alla
rielezione di Ahmadinejad nel giugno del 2009. Nonostante la brutalità con cui le autorità
hanno tentato di soffocarlo, in quell’occasione, il grido di libertà dei tanti giovani iraniani
pronti a sacrificare la propria vita per rivendicare il diritto al pieno esercizio delle proprie
libertà è riuscito, almeno temporaneamente, a spezzare quell’impropria equazione, mostrando
al mondo il volto giovane e assetato di democrazia dell’Iran, il vero Iran, che preme per
emergere e per ricevere degna considerazione, ed è assai distante dalle istanze di un regime
The Obama-Ahmadinejad Relationship: a Critical Discourse Analysis
6
capace invece di negare con fredda ipocrisia ogni evidenza di esercizio sproporzionato del
monopolio della forza.
Il senso di turbamento e la partecipazione emotiva nei confronti della lotta del popolo
iraniano, uniti alle riflessioni generate dall’incontro con Soudeh, hanno indotto chi scrive a
considerare il turbolento rapporto che intercorre tra gli Stati Uniti e l’Iran da nuove
prospettive. Ci si è posti l’obiettivo di approfondire quel processo di concettualizzazione che
ha portato ad attribuire alla Repubblica islamica la connotazione negativa esposta sopra, nella
consapevolezza che quest’ultimo non sia “un paese monocromo, [ma vada] declinato a colori
e in questi ultimi anni è diventato ancora più variopinto” (Sabahi, 2009: XVI). Si è tentato di
differenziare il più possibile le fonti per cercare di discostarsi da una visione che si è vista
essere prevalentemente condizionata dagli scopi di chi detiene il potere politico e mediatico,
nel caso in questione gli Stati Uniti. All’interesse per le vicende iraniane si è così unito quello,
alimentato da studi precedenti, per la figura di Barack Obama e in particolare per quelle
abilità di comunicatore che gli hanno permesso di diffondere efficacemente la propria
promessa di cambiamento, divenendo Quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti. Si è
così tentato di verificare in quale misura, a quasi tre anni dall’inizio del suo mandato, quella
promessa di cambiamento si stia concretizzando, andando a concentrare l’attenzione
sull’obiettivo dichiarato di Obama di provvedere ad un ridimensionamento del ruolo degli
Stati Uniti nel mondo, a fronte dei mutati equilibri globali e della necessità di risanarne
l’immagine deteriorata dall’intransigente unilateralismo di Bush. Ci si è dunque domandati se
e fino a che punto, il presunto nuovo approccio del presidente Obama alla politica estera si
stia parimenti traducendo in un nuovo modo di rapportarsi all’Iran, con particolare attenzione
alla concettualizzazione di tale approccio e quindi alla componente linguistico-cognitiva
tramite cui esso si realizza. Ci si chiederà se Obama, più di chi l’ha preceduto, si stia
rivelando capace di operare la necessaria distinzione tra un regime repressivo e una nazione
civile e importante, dimostrando così maggiore avvedutezza nel veicolare l’immagine della
realtà iraniana all’opinione pubblica americana e occidentale. Si è così scelto di restringere il
campo di ricerca ad un raffronto tra le figure dei presidenti Barack Obama e Mahmoud
Ahmadinejad fondato sull’analisi del loro stile retorico e dei contenuti delle dichiarazioni con
cui essi si rivolgono alla controparte. Tutto ciò al fine di sviluppare alcune ipotesi in merito
alla loro posizione reciproca che, dato l’importante ruolo istituzionale che essi ricoprono, si
presume vada inevitabilmente a incidere sulle scelte di politica estera dei paesi che essi si
Stefania Maccagno – Corso di Laurea Magistrale in Scienze Internazionali
7
trovano a rappresentare, quindi sulla possibilità o meno di giungere ad una normalizzazione
delle relazioni tra Washington e Teheran. Com’è intuibile e come si avrà modo di verificare,
ai fini della tesi che verrà proposta di seguito, la componente di analisi linguistica risulta
essenziale, sebbene il percorso analitico si sviluppi anche su altri livelli, tra i quali spiccano
certamente quello della comunicazione interculturale e delle relazioni internazionali, senza
poter prescindere dalle dinamiche storiche che hanno interessato le relazioni tra gli Stati Uniti
e l’Iran negli ultimi trent’anni. Si avrà infatti modo di constatare come proprio
l’interdisciplinarietà intrinseca all’analisi critica del discorso la renda adatta a combinarsi in
modo complementare con le scienze sociali, dando così vita ad un intersecarsi di teoria
politica, sociale e linguistica.
Venendo ora ai contenuti puntuali della tesi che ci si accinge a presentare, il primo capitolo
sarà dedicato alla definizione del quadro teorico di riferimento per la successiva analisi
linguistica. In un primo momento ci si occuperà di introdurre due approcci differenti ma
potenzialmente complementari all’analisi del discorso politico, quello della Critical Discourse
Analysis e quello della Linguistica Cognitiva. Ampio spazio verrà in seguito dedicato
all’esposizione delle teorie degli studiosi George Lakoff e Drew Westen, le quali forniranno
un punto di vista utile alla trattazione di temi di politica interna ed estera. Si procederà poi, nel
secondo capitolo, alla definizione del contesto storico-politico in cui si sono sviluppati i
rapporti tra gli Stati Uniti e l’Iran. Mantenendo come punto di riferimento la prospettiva
critico-cognitiva precedentemente considerata, verranno così ripercorsi gli eventi salienti che
a partire dal Secondo dopoguerra hanno interessato i due paesi nelle loro relazioni reciproche.
Verrà fornito poi un primo esempio di quale importanza rivesta la componente retorica e
discorsiva nell’indirizzo delle scelte strategiche di politica estera dei diversi attori statali. In
seguito, nel terzo capitolo, ci si concentrerà sullo stato attuale dei rapporti tra gli Stati Uniti e
l’Iran attraverso un confronto diretto tra le figure dei rispettivi presidenti: Barack Obama e
Mahmoud Ahmadinejad. Dopo aver presentato la prospettiva negoziale in cui si andrà a
inserire tale confronto, si procederà ad effettuare un’analisi del discorso volta a ripercorrere i
momenti salienti di quest’ultimo, sia in ambito multilaterale sia bilaterale e si sarà così in
grado di proporre delle prime considerazioni sullo stato delle relazioni tra Washington e
Teheran. Nel quarto capitolo della tesi, nel tentativo di volgere lo sguardo ai possibili risvolti
futuri di queste ultime, ci si soffermerà poi sul ruolo sempre più decisivo che le nuove
tecnologie potrebbero assumere negli scenari geopolitici di breve e lungo periodo. Il quinto e
The Obama-Ahmadinejad Relationship: a Critical Discourse Analysis
8
ultimo capitolo sarà infine dedicato a rievocare l’intero percorso analitico al fine di verificare
le ipotesi sviluppate nei capitoli precedenti e proporre delle considerazioni conclusive.
Quanto segue è un modesto tentativo di scalfire quella coltre di appiattimento mediatico cui si
è sottoposti quotidianamente e che troppo spesso sfocia nell’accettazione acritica delle
versioni dei fatti che vengono proposte dai canali d’informazione più accreditati. L’intento è
quello di scendere per un attimo dalla “giostra mediatica” e approfondire, andare oltre i luoghi
comuni e le generalizzazioni, i giudizi sommari che celano un vuoto fatto di acriticità,
ignoranza o di mero, talvolta insidioso, disinteresse. Tutto questo nella forse ingenua speranza
di poter cogliere quanto di positivo la globalizzazione è in grado di offrire: l’opportunità di
aprire la mente alla scoperta di ciò che esula dalla propria quotidianità, di trarre arricchimento
da tale confronto, di non fermarsi alla superficie delle cose, di conoscere per non restare
intrappolati in un’atavica paura del diverso.
“ La realtà del mondo è varia e non sempre, anzi, quasi
mai, siamo in grado di padroneggiarla. Siamo costretti a
constatare la nostra ignoranza e la nostra presunzione.
Che cosa dovremmo ancora imparare, perché si diventi più
umili di fronte a ciò che è diverso da noi?
Anche la mia visione del mondo è del tutto occidentale.
Credo però che dovremmo accettare la legittimità di molte
cose che occidentali non sono, se non vogliamo appiattire
differenze e soffocare tradizioni che rappresentano la
ricchezza dell‟umanità. ”
G. Zagrebelsky
Stefania Maccagno – Corso di Laurea Magistrale in Scienze Internazionali
9
1. DEFINIZIONE DEL QUADRO TEORICO
Il capitolo è dedicato alla definizione del quadro teorico di riferimento per l‟analisi che verrà
proposta in seguito. In un primo momento ci si occuperà di introdurre due approcci differenti
ma potenzialmente complementari all‟analisi del discorso politico, quello della Critical
Discourse Analysis e quello della Linguistica Cognitiva. Ampio spazio verrà poi dedicato
all‟esposizione delle teorie degli studiosi George Lakoff e Drew Westen, le quali forniranno
un punto di vista utile alla trattazione di temi di politica interna ed estera.
1.1 La Critical Discourse Analysis (C.D.A.)
Prima di procedere con l’analisi linguistica oggetto della presente tesi, è opportuno delineare
il quadro teorico di riferimento in cui essa si svilupperà nei prossimi capitoli. A tale scopo è
bene prendere spunto dalla definizione di un elemento presente nel titolo di questa stessa
dissertazione, la Critical Discourse Analysis (CDA). Le sue origini possono essere fatte
risalire alla Critical Linguistics (CL), un filone della linguistica sviluppatosi negli Anni
Settanta traendo ispirazione da numerose teorie sociali e, da un punto di vista più prettamente
linguistico, dalla teoria della grammatica sistemico-funzionale di Michael Halliday (Hoyer,
2008: 12). L’elemento innovativo principale, che ha reso la CL una valida alternativa alla
teoria dominante della Grammatica Generativa di Chomsky, è il fatto che essa si ponesse
come obiettivo primario quello di fornire una spiegazione funzionale alle strutture
linguistiche, in contrasto al più tradizionale approccio strutturalista al linguaggio. In altri
termini, era interessata ad andare oltre l’impostazione per cui le parole costituiscono entità
astratte, per verificarne invece il ruolo concreto, in quanto investite di significato in relazione
ad un preciso contesto (El-Hussari, 2010). In particolare, ciò che della CL ha maggiormente
influenzato la CDA è l’idea della multifunzionalità dei testi, i quali simultaneamente
rappresentano la realtà, svolgendo quella che Fairclough (1995: 25) definisce la loro
ideational function, e pongono in essere relazioni sociali e identità (interpersonal function).
Altrettanto importante risulta poi l’idea per cui le scelte lessicali e linguistiche non siano
semplicemente scelte grammaticali e di vocabolario, bensì abbiano implicazioni ideologiche.
Dopo questa breve introduzione alle origini della CDA, si cercherà di spiegare in cosa
consista tale particolare approccio analitico, impostosi negli ultimi vent’anni a livello
The Obama-Ahmadinejad Relationship: a Critical Discourse Analysis
10
multidisciplinare. A tale scopo, un buon punto di partenza sembra essere la definizione dei
singoli elementi che compongono la dicitura Critical Discourse Analysis. In primo luogo ci si
deve quindi avventurare nell’arduo tentativo, che ha afflitto e continua ad affliggere numerosi
studiosi di linguistica, di fornire una definizione univoca del termine “discorso”, il quale
risulta di assai ampia applicazione. A tal proposito può essere utile fare riferimento alla
risposta che lo studioso olandese Van Dijk (1997: 1) tenta di fornire ad una domanda,
all’apparenza semplice, da egli stesso posta: “What exactly is discourse, anyway?”. A partire
da una definizione di uso comune che considera il discorso come particolare forma di uso del
linguaggio, lo studioso passa ad una caratterizzazione più specifica del concetto, quella di
evento comunicativo tra individui, volto ad esprimere idee e stati d’animo, che ne delinea gli
aspetti funzionali (relativi cioè a come, perché, quando e da parte di chi avviene tale uso del
linguaggio). A ciò si deve aggiungere, a parere dell’autore, una terza ed ultima accezione del
concetto di discorso, quella di forma di interazione verbale. Lo sforzo di definizione di Van
Dijk quindi, oltre a essere dimostrazione di quanto sia arduo fornire una caratterizzazione
univoca di un concetto sfaccettato come quello di “discorso”, ne delinea le tre principali
dimensioni (uso del linguaggio – comunicazione di credenze – interazione sociale),
evidenziando come il tentativo di fornire teorie che spieghino la relazione tra di esse
costituisca l’obiettivo di uno sforzo compiuto a livello multidisciplinare. Per quanto riguarda
poi il secondo elemento caratterizzante della CDA, il fatto cioè che si tratti di un’analisi
“critical”, implica la presenza di una distinzione a monte tra due diversi approcci all’analisi
del discorso, uno “non-critico” ed uno “critico”. Come spiega Fairclough (1992: 12),
quest’ultimo approccio si distingue dal primo non solo nel modo di descrivere le pratiche
discorsive, ma anche poiché mostra come il discorso sia plasmato da relazioni di potere e da
ideologie, andando a ricoprire un importante ruolo nella costruzione delle identità sociali e dei
sistemi di valori e credenze, tutti fattori che normalmente restano occulti per coloro che
partecipano a tali pratiche. Van Dijk (1997: 22) approfondisce tali aspetti sostenendo che il
passaggio ad un approccio critico avviene nel momento in cui l’analista del discorso diviene
attivamente coinvolto negli argomenti e nei fenomeni che costituiscono il proprio oggetto di
studio, abbandonando la pretesa di oggettività (che l’autore definisce “theory-oriented” e
“value-free”) per assumere una prospettiva decisamente più “issue-oriented”. Gli autori
succitati concordano sul fatto che tale passaggio si verifichi in modo particolare quando
oggetto di analisi sono discorsi con implicazioni di tipo politico-sociale. In tal caso il fine
Stefania Maccagno – Corso di Laurea Magistrale in Scienze Internazionali
11
dell’analisi non risulta più esclusivamente scientifico ma assume, come si vedrà, risvolti
sociali, politici e morali.
“Critical scholars of discourse do not merely observe such linkages between discourse and
societal structure, but aim to be agents of change, and do this in solidarity with those who
need such change most” (Van Dijk, 1997: 23)
A questo punto, pur rimandando ai prossimi capitoli la presentazione dettagliata dei testi scelti
come oggetto di studio della presente tesi, è bene tener presente che si tratta di testi a
contenuto politico-internazionale, che ben si prestano quindi all’impostazione analitica fin qui
esposta. Dopo aver definito in termini piuttosto generali le origini e il contenuto della CDA, si
passerà ora ad introdurre quei principi che ne costituiscono il fondamento e a presentare due
tra le impostazioni teoriche dominanti che la riguardano, quelle proposte dai succitati linguisti
Fairclough e Van Dijk. Per quanto concerne le caratteristiche generali della CDA, una delle
più importanti è la sua natura interdisciplinare, che fa sì che essa si combini in modo
complementare con le scienze sociali, in un intersecarsi di teoria politica, sociale e linguistica.
Essa si caratterizza, infatti, per un approccio esplicitamente socio-politico al discorso, che
pone in rilievo la componente sociale del linguaggio. Si assume infatti che chi parla, facendo
quindi uso del mezzo discorsivo, si trovi in una precisa posizione gerarchica determinata da
un meccanismo di power relations. L’analista che utilizza la CDA abbandona dunque ogni
pretesa di neutralità in favore di una presa di posizione socialmente e politicamente situata,
prestandosi ad essere strumento di contrasto di potenziali abusi di potere e disuguaglianze tra i
partecipanti all’evento discorsivo. La CDA consiste dunque in:
“a tool that helps a discourse analyst to illustrate how unmasking the written/spoken word can
bring about a different perspective and a deeper understanding of whose interest is being
served. In short, CDA tries to illuminate ways in which the dominant forces in a society
construct versions of reality that favor their often hidden agendas” (El-Hussari, 2010).
È bene poi tener presente che, quando si parla di abuso di potere, quest’ultimo non è da
intendersi solamente in termini di accesso al discorso pubblico, ma anche per quanto riguarda
il controllo su di esso. Quest’ultima affermazione risulta valida soprattutto in riferimento ai
mass media, dal momento che il potere di controllo sui mezzi d’informazione da parte di
coloro che si trovano in posizione dominante può sfociare in manipolazione ed esercizio della
censura, un aspetto, questo, che sarà oggetto di approfondimenti successivi (Cfr. Sez. 4).
Verranno di seguito presentati due tra i principali approcci teorici alla CDA, quello di Norman
Fairclough e quello di Teun Van Dijk.
The Obama-Ahmadinejad Relationship: a Critical Discourse Analysis
12
Per quanto riguarda Fairclough, il suo approccio all’analisi discorsiva si sviluppa a partire
dalla teoria degli orders of discourse (Fairclough, 1989), in base alla quale esistono diversi
tipi di discorso a seconda dell’ambito o situazione sociale in cui essi sono inseriti, per cui essi
assumeranno particolari caratteristiche e saranno strutturati in modo differente. In tale
contesto, le power relations assumono quindi particolare importanza dal momento che gli
orders of discourse risultano determinati proprio in base alle relazioni di potere esistenti tra
diverse classi sociali così come ad altri livelli, ad esempio tra uomini e donne o tra gruppi
etnici differenti. Per Fairclough il linguaggio risulta quindi inevitabilmente connesso a tali
relazioni di potere. L’autore identifica poi tre elementi che costituiscono l’oggetto su cui si
sviluppa l’analisi del discorso, ovvero Testo, Interazione e Contesto Sociale, ai quali
corrispondono i tre livelli della CDA:
- Descrizione del Testo
- Interpretazione della relazione tra testo e interazione
- Spiegazione della relazione tra interazione e contesto sociale
In tale prospettiva quindi, l’analisi del testo costituisce solamente una parte, seppur molto
importante, dell’analisi del discorso. Merita infine ricordare come per Fairclough gli elementi
che costituiscono il testo (parole, strutture grammaticali, metafore, ecc.) possono assumere tre
valori diversi: esperienziale (legato cioè a credenze e valori), relazionale (relativo alle
relazioni sociali) ed espressivo (relativo quindi alle identità sociali, in base alle quali tale
valore espressivo potrà assumere una valenza positiva, negativa o neutra). Per quanto riguarda
invece Van Dijk, il quale ha dedicato gran parte dei propri studi all’analisi dei media, egli ha
elaborato un Social-cognitive model strutturato su tre prospettive di analisi: del Testo, della
Pratica discorsiva e della Pratica socioculturale. In tale contesto l’autore, per il quale
acquisisce particolare rilevanza il legame tra l’analisi testuale e l’analisi socioculturale,
teorizza l’esistenza di una cornice socio-cognitiva per cui “modelli” e “schemi” cognitivi
caratterizzano la produzione, il contenuto e, di conseguenza, anche il processo di analisi dei
discorsi. A parere dell’autore, l’organizzazione del testo è gerarchica e governata dalla
presenza di quella che egli definisce “macro-struttura” (Van Dijk, 1983), ovvero il principale
tema trattato, che svolge il ruolo di fulcro su cui si sviluppa l’intero discorso. Svolgendo
un’analisi dei testi fondata su tale modello socio-cognitivo, diventa possibile per Van Dijk
smascherare l’abuso di potere esercitato da chi assume una posizione dominante nell’evento
Stefania Maccagno – Corso di Laurea Magistrale in Scienze Internazionali
13
discorsivo. La presenza di tale approccio cognitivo nell’impostazione analitica di Van Dijk
risulta utile per introdurre il secondo elemento che va a comporre il quadro teorico che si sta
presentando, la Linguistica Cognitiva, cui sarà dedicata la seguente sezione.
1.2 La Linguistica Cognitiva
La Linguistica Cognitiva
1
(LC), al pari della Critical Linguistics, è andata affermandosi a
partire dalla metà degli Anni Settanta come paradigma alternativo ad approcci al linguaggio di
tipo più formale, in particolare alla già citata teoria Chomskiana, cognitivamente realista,
della Grammatica Generativa. Alla base di tale impostazione linguistica innovativa, la quale
rientra nel più ampio e multidisciplinare filone di studi delle scienze cognitive, vi è l’idea che
il significato, elemento fondamentale per la LC in quanto matrice della comunicazione, sia
direttamente riconducibile al rapporto tra chi parla e la realtà circostante. Anche in questo
caso, come già in quello della CDA, lo studio del linguaggio è quindi direttamente correlato
allo studio del suo uso e all’idea per cui, alla base di ogni attività linguistica, siano presenti
processi inconsci di costruzione del significato, i quali fanno riferimento a determinati modelli
culturali e a specifiche risorse cognitive. Il linguaggio non viene dunque considerato come
un’attività autonoma, bensì esso è complementare ad altre capacità cognitive quali la
percezione, il pensiero e la memoria. Risulta a tal proposito fondamentale il concetto
(difficilmente traducibile con un termine equivalente in italiano) di embodiment (Fauconnier,
2006), in base al quale la mente si trova inserita in un corpo, che le consente la percezione
sensoriale del mondo esterno. Il linguaggio dipende quindi dalla mente, la quale è incorporata
nella dimensione fisica ai diversi livelli del cervello, del corpo e delle leggi fisiche presenti
nel mondo circostante. Tale collegamento diretto tra mente e mondo, mediato dal filtro del
corpo umano, è alla base della corrispondenza diretta che esiste tra l’elaborazione della
conoscenza e la capacità linguistica. Il processo di attribuzione del significato si sviluppa ed è
motivato dunque a partire da basi corporee che influiscono direttamente sulle strutture del
pensiero, le quali danno origine a concetti generali da cui poi ne derivano di via via sempre
più specifici. Nella prospettiva della LC la semantica svolge quindi il ruolo di ponte tra
facoltà cognitive e capacità linguistica, in un’ottica olistica in cui non vi è distinzione
categorica tra l’esperienza fisica umana e la sua rappresentazione mentale e linguistica. Il
1
Per un’introduzione alla Linguistica Cognitiva è utile consultare il sito Internet dell’ICLA (International
Cognitive Linguistics Association) http://www.cognitivelinguistics.org.
The Obama-Ahmadinejad Relationship: a Critical Discourse Analysis
14
valore semantico di un’espressione non risiede nelle proprietà inerenti all’oggetto, o nella
situazione che essa descrive, ma coinvolge il modo in cui tali oggetti o situazioni vengono
esperiti, cognitivamente elaborati ed infine pensati dal soggetto in un continuo interscambio
tra la realtà e l’individuo. Il significato di un’espressione consiste non solo nel suo contenuto
concettuale, ma anche nel modo in cui tale contenuto prende forma e viene costruito dal
soggetto a partire dall’esperienza. Concetti e categorie non sono quindi da considerarsi astratti
ed universali, ma sono elaborati a partire dalla realtà concreta esperita da chi parla e
funzionano come connessione tra mente e mondo, sono quindi partecipative e non
rappresentative, strumenti per l’azione sul mondo. In tale prospettiva assume particolare
importanza un elemento, la metafora, che a parere di Lakoff e Johnson sarebbe “not a matter
merely of words, but of action” (V.D.Weele, V.D.Boomen, 2008). I due autori, con il loro
Metaphors We Live By (1980), hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo della
linguistica cognitiva, rivoluzionando il concetto di metafora, fino ad allora considerato come
mero elemento retorico, affermando invece che i sistemi concettuali che governano il nostro
pensiero, quindi le metafore, sono dimostrazione del fatto che la mente sia, come già detto,
embodied. Come spiega ulteriormente Lakoff in Moral Politics (2002), il meccanismo che
sottende alla comprensione delle conceptual metaphors è un processo convenzionale, spesso
inconscio, di concettualizzazione di un dato dominio dell’esperienza attraverso l’uso di un
linguaggio definito. Tale processo avrebbe come conseguenza il delinearsi di specifiche
radial categories, ovvero delle più comuni categorie concettuali umane, le quali
rappresentano una variazione rispetto ad un determinato modello centrale (detto proto-tipo).
Merita evidenziare l’utilizzo, in riferimento al processo che è situato alla base dell’espressione
metaforica, del termine inconscio, che sarà riproposto in seguito (Cfr. Sezione 1.3).
Ci si è occupati finora di fornire un quadro introduttivo della Linguistica Cognitiva, volto a
comprenderne la portata innovativa rispetto alle teorie linguistiche che dominavano in
precedenza. Nelle sezioni che seguiranno si tenterà di mostrare come tale approccio cognitivo
possa rivelarsi utile ai fini dell’approfondimento di questioni discorsive in ambito di politica
internazionale, oggetto della presente tesi.
Stefania Maccagno – Corso di Laurea Magistrale in Scienze Internazionali
15
1.3 Cognitive Politics
Verranno ora esposte le teorie elaborate da due studiosi americani, George Lakoff e Drew
Westen, i quali, a partire dalle più recenti scoperte in ambito neuro scientifico e cognitivo,
hanno apportato un contributo estremamente innovativo all’analisi della teoria e della pratica
politica, in particolare per quanto riguarda il panorama politico statunitense. In base a tali
considerazioni si è quindi deciso di attribuire alla presente sezione il significativo titolo di
Cognitive Politics. Come si vedrà in seguito, la combinazione dei due approcci, quello di
Lakoff e quello di Westen, potrà rivelarsi funzionale all’analisi che verrà presentata in
seguito, soprattutto per quanto riguarda la figura del presidente Barack Obama. Prima di
dedicarsi ad una esposizione più approfondita delle singole teorie dei due studiosi, è
opportuno presentare brevemente quegli aspetti teorici e scientifici che caratterizzano, come
accennato, le più recenti scoperte in ambito delle neuroscienze, che hanno ispirato entrambi
gli autori. Si tratta in particolare di teorie relative al funzionamento della mente e della
ragione umane e alle implicazioni che tali scoperte possono avere in ambito politico.
L’assunto principale su cui si sviluppa tale nuova impostazione è che most reason is
unconscious (Lakoff, 2008: 9). La maggior parte (circa il 98%) dell’attività cerebrale umana,
quindi del pensiero, è inconscia, viene infatti definita Cognitive Unconscious ed è reflexive,
automatica e non consciamente controllabile, mentre il restante 2% del pensiero umano è
conscious e reflective. Ne consegue quindi che gli esseri umani non siano a conoscenza di ciò
che accade nel proprio cervello e soprattutto non lo possano controllare, come afferma Lakoff
(2008: 9): “your brain makes decision for you that you are not consciously aware of”. Il
secondo assunto da tener presente è che, come accennato nella Sezione 1.2, il pensiero e la
mente umani sono embodied, frutto di processi chimici e fisici che avvengono nel corpo
umano, non sono quindi astratti, né tantomeno, poiché inconsci, sottomessi a totale arbitrio.
Alla base del pensiero umano vi sarebbe infatti un processo chimico di connessione neuronale
(neural binding) che provocherebbe l’attivazione simultanea di diverse aree del sistema
cerebrale. Tale meccanismo permette che il pensiero umano sia strutturato in termini di quelle
che Lakoff (2008: 22) definisce frames, cornici concettuali, che possono a loro volta essere
parte di sistemi di pensiero più complessi, le complex narratives. Ed è proprio attraverso tali
strutture concettuali, le quali sono “instantiated phisically in our brains” (Lakoff, 2008: 33),
che la mente umana percepisce la realtà circostante. Il meccanismo di neural binding è inoltre
implicato nel processo di formazione delle emotional experiences (Lakoff, 2008: 27). Nel
The Obama-Ahmadinejad Relationship: a Critical Discourse Analysis
16
cervello umano esistono infatti due distinti percorsi emozionali costituiti a partire da differenti
neurotrasmettitori, uno per le emozioni positive (circuito della dopamina), l’altro per le
emozioni negative (circuito della norepinefrina). Tali circuiti neuronali, connettendo le
emozioni a determinate sequenze di eventi che compongono una narrazione, sono i
responsabili del contenuto emozionale dell’esperienza quotidiana e quindi anche
dell’esperienza politica e morale, aspetto, quest’ultimo, che interessa in modo particolare sia
Lakoff sia Westen.
“Narratives and frames are not just brain structures with intellectual content, but rather with
integrated intellectual-emotional content. Neural binding circuitry provides this integration.”
(Lakoff, 2008: 28)
Le cosiddette moral narratives sono dunque composte di due elementi, una dramatic
structure e una emotional structure, connessi tramite neural binding. Tale meccanismo di
attivazione simultanea, ripetuta in diverse aree del cervello, provoca dunque un rafforzamento
graduale dei collegamenti sinaptici cerebrali, facendo sì che determinate strutture narrative
siano associate sempre più automaticamente e inconsciamente a circuiti emozionali positivi o
negativi. Sulla base di tali presupposti scientifici, sia Lakoff, sia Westen sostengono la
necessità di giungere ad una nuova consapevolezza del reale funzionamento della mente e del
pensiero umani e sul modo in cui il cervello percepisce ed elabora la realtà che lo circonda e
gli stimoli visivi, uditivi e linguistici a cui è sottoposto. In particolare, per entrambi gli autori,
risulta importante il risvolto pratico che tali scoperte possono avere in ambito politico. Tali
premesse di tipo scientifico infatti, che possono a tratti risultare di difficile comprensione,
risultano fondamentali per lo studio del pensiero politico in quanto, come afferma Lakoff
(2008: 35): “Politics is about cultural narratives”. La comprensione dei meccanismi cognitivi
inconsci che governano la mente umana contribuirebbe quindi a rendere gli individui più
consapevoli del modo in cui essi compiono le proprie scelte elettorali e giudicano i personaggi
politici. “We understand public figures by fitting them into such narrative complexes”
(Lakoff, 2008: 34). Un ulteriore elemento che accomuna l’impostazione di Westen e quella di
Lakoff è la severa critica a cui essi sottopongono l’ala liberale dello spettro politico
statunitense. In particolare i due autori concordano nell’attribuire l’inerzia politica che ha
caratterizzato il partito democratico statunitense in tempi recenti e il conseguente svantaggio
accumulato in favore dell’ala conservatrice, al prevalere nelle loro fila di quella che Lakoff
definisce una “old Enlightment view of reason” (2008: 15). A partire da tale obsoleta
Stefania Maccagno – Corso di Laurea Magistrale in Scienze Internazionali
17
impostazione illuministica, ignara del reale funzionamento della mente umana fin qui esposto,
gli esponenti dell’ala democratica tenderebbero quindi a considerare la ragione come
“conscious, universal, disembodied, logical, unemotional, value neutral, interest based,
literal” (Lakoff, 2008: 7-8), compromettendo così le proprie possibilità di successo politico.
L’errore di considerare il pensiero e la mente umani come razionali ha infatti implicazioni
enormi per quanto riguarda l’approccio al discorso politico e la conduzione delle campagne
elettorali. Particolarmente dannosa risulterebbe l’idea che gli individui siano per natura portati
a compiere scelte politiche esclusivamente basate sul proprio interesse personale, a partire
cioè da valutazioni utilitaristiche fondate sul calcolo ponderato dei possibili costi e benefici
delle diverse opzioni. Tali valutazioni porterebbero quindi i democratici ad elaborare le
proprie proposte di policy in base ad un approccio eccessivamente issue-oriented, riponendo
cioè una fiducia eccessiva nei risultati dei sondaggi.
Nelle sezioni seguenti (1.3.1 e 1.3.2) si avrà modo di vedere come Lakoff e Westen hanno
rispettivamente declinato l’impostazione scientifica fin qui presentata, elaborando proprie
specifiche teorie da applicare al contemporaneo panorama politico statunitense.
1.3.1 George Lakoff, The Political Mind
Da quanto esposto finora è emerso come precise scelte linguistiche abbiano, in ambito
politico, implicazioni importanti per quanto concerne la concezione della moralità e, più
concretamente, la definizione delle linee di policy da attuare. Ciò è possibile, come si è visto,
grazie al meccanismo di neural binding, in base al quale il riferimento a determinate
narratives e frames permette l’attivazione simultanea di aree diverse del cervello, suscitando
così emozioni positive o negative. Tali assunti risultano fondamentali per le teorie esposte da
Lakoff nel suo lavoro più recente, The Political Mind (2008), nel quale l’autore arricchisce la
teoria delle moral worldviews
2
, già esposta in Moral Politics (2002), introducendo un nuovo,
interessante elemento, i modes of thoughts (Lakoff, 2008: 43), sistemi concettuali che
2
In Moral Politics (2002) Lakoff aveva affermato che le posizioni antitetiche dei due schieramenti dello spettro
politico statunitense, l’ala conservatrice e quella liberale, avrebbero origine da visioni del mondo apparentemente
inconciliabili e reciprocamente incomprensibili, fondate su di una divergente concezione del common sense. A
partire dalla metafora della Nation as a Family, l’autore aveva quindi elaborato la cosiddetta theory of political
worldview, affermando l’esistenza di due opposti modelli di moralità e delle rispettive concezioni della politica
che da essi derivano. Il primo modello, che l’autore definiva Strict Father Model, rispecchierebbe la percezione
della moralità da parte dei conservatori ed è fondato sui concetti di autorità e self-reliance. Il secondo modello
(Nurturant Parent Model), distinguerebbe invece l’approccio dei liberali ed è fondato sui valori di empatia e
social-consciousness.
The Obama-Ahmadinejad Relationship: a Critical Discourse Analysis
18
strutturano il nostro pensiero e sono elaborati a partire da precise narratives e frames. In base
a tale strutturazione, a seconda della cornice concettuale in cui vengono inserite, le parole si
trovano ad assumere precisi significati, evocando a loro volta cornici più complesse. In tale
quadro Lakoff introduce quindi l’idea dei “contested concepts”, in base alla quale un concetto
non esiste di per sé, non possiede quindi un significato neutro, bensì ne assume uno specifico
a seconda della cornice concettuale nella quale viene inserito e concepito. I modes of thoughts
assumono per Lakoff un ruolo fondamentale poiché sono indicativi di cosa costituisca la
moralità, aspetto, questo, che presenta implicazioni di particolare importanza in ambito
politico. Come già in Moral Politics, anche in The Political Mind l’autore afferma infatti
l’esistenza di una stretta relazione tra la concezione della moralità e la concezione della
politica.
“Politics is about moral values. Every political leader presents his or her policies on the
grounds that they are “right” – that is, they are moral. Yet basic conservative and progressive
modes of thought start from very different perspectives on what constitutes morality”.
(Lakoff, 2008: 43)
Lakoff identifica tre diversi modes of thoughts, due principali, quello Progressista e quello
Conservatore, ed un terzo, quello Neo-liberal, che egli considera come una deviazione rispetto
al sistema Progressista. Si cercherà ora di presentare tali sistemi di pensiero ponendo
particolare attenzione al contenuto valoriale che distingue gli uni dagli altri e al modo in cui
tali differenze si riflettono nella concezione e nella gestione della cosa pubblica. Il primo ad
essere preso in esame è quello che Lakoff definisce Progressive Mode of Thought, il sistema
concettuale progressista, il quale deriva dal modello del Nurturant Parent (Cfr. Nota 2) e si
sviluppa a partire da un elemento che per l’autore risulta basilare, il sentimento di empatia
3
nei confronti degli altri esseri umani e del mondo nella sua interezza. Da tale sentimento di
empatia, che si traduce in termini pratici nell’innata propensione a immedesimarsi negli altri e
a prendersene cura, “care about others and each other” (Lakoff, 2008), deriverebbero il senso
di responsabilità collettiva e la tendenza alla cooperazione. Quando poi tale dovere morale si
trova a essere associato al ruolo del governo nei confronti dei propri cittadini, esso assume i
tratti di due valori tra loro complementari ed essenziali per la buona condotta di un governo:
3
L’empatia è sintomo dell’esistenza di un legame chimico-biologico tra gli esseri umani, riconducibile al ruolo
svolto da un tipo particolare di neuroni, i cosiddetti mirror neurons. I neuroni a specchio, situati nella corteccia
premotoria e collegati attraverso la corteccia insulare alle vie metaboliche positive e negative, fanno infatti sì che
il nostro cervello utilizzi le stesse strutture neuronali, quindi lo stesso meccanismo di attivazione di emozioni
positive o negative, sia per immaginare di compiere una data azione o vederla svolgere da altri, sia per svolgerla
in prima persona. I neuroni a specchio sono quindi i responsabili del processo di simulazione mentale e di
integrazione tra azione (acting) e percezione (imagining).