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CAPITOLO 1
TEORIA DELLE AREE VALUTARIE OTTIMALI
1.1 Introduzione
La teoria delle Aree Valutarie Ottimali si presenta come un insieme eterogeneo di
contributi provenienti da diversi economisti che nel tempo è stata più volte ripresa e
abbandonata. Un tema molto importante spesso accompagnato allo sviluppo di questa
teoria riguarda l’Eurozona: ci si chiede infatti se l’Unione Monetaria Europea nel suo
complesso sia più efficiente di tutti gli Stati sovrani che la compongono.
In questo primo capitolo dunque verrà discussa la teoria AVO, dalla sua nascita ai suoi
sviluppi più recenti. Nel paragrafo 1.2 affronteremo i temi introdotti da Milton
Friedman e Robert Mundell: mentre il primo verrà trattato sommariamente in quanto
non ha un forte peso nella formulazione della teoria AVO, il secondo è considerato il
vero padre della teoria, in quanto solo dopo la sua pubblicazione nascerà l’interesse
per questo dibattito.
Nel paragrafo 1.3 verranno riportati i lavori di Ronald McKinnon e Peter Kenen, che
vanno a completare la cosiddetta teoria “tradizionale”. I due introducono elementi
molto importanti per identificare un’area valutaria ottimale, come il grado di apertura
dell’economia, la diversificazione e l’integrazione finanziaria.
Segue, nel paragrafo 1.4, il nuovo approccio della teoria AVO basata sui costi e
benefici derivanti dalla formazione di un’area valutaria: la teoria tradizionale viene
infatti criticata in quanto non riesce ad evidenziare i vantaggi, ma solo le condizioni in
cui gli effetti correttivi del cambio flessibile si annullano. Inoltre, con la Nuova Teoria
AVO introdotta da George Tavlas nel 1993, si dà sempre più importanza al fattore
Teoria delle Aree Valutarie Ottimali: Analisi e Criticità dell’Eurozona
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della credibilità
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. Maggiore importanza viene data anche agli shock asimmetrici, in
particolare vengono studiati i fattori che li rendono meno efficaci.
Il paragrafo 1.5, che precede le conclusioni, verterà invece sulla Teoria delle Aree
Valutarie Ottimali Endogena, la quale prevede che le condizioni ottimali di un’area
valutaria si creino ex post. Seguiranno infine le critiche recenti più influenti,
soprattutto in merito alla formazione dell’Unione Monetaria in Europa.
1.2 Origine della teoria: Da Friedman a Mundell
1.2.1 Milton Friedman e il dibattito sul regime di cambio
Il primo contributo alla Teoria della Aree Valutarie Ottimali arriva da Friedman
(1953), fondatore della teoria monetarista che, pur non accennando in merito alle aree
valutarie, contribuì con i suoi studi a crearne il dibattito negli anni a seguire. Egli
sostiene come il cambio flessibile, rispetto al cambio fisso, sia uno strumento di
politica economica più adatto al raggiungimento dell’equilibrio interno ed esterno.
Friedman riprende infatti dalla teoria generale di Keynes (1936) i concetti di rigidità
nominali, riconoscendo che in caso di shock esogeno i prezzi e i salari non si muovono
nel breve periodo in quanto rigidi, portando dunque ad un mancato aggiustamento e
ad una allocazione inefficiente delle risorse. È doveroso ricordare che in quel periodo
vigeva il sistema del Gold Exchange Standard e quindi ogni Paese era vincolato da un
sistema di cambi fissi verso il dollaro americano, il quale era l’unica valuta convertibile
in oro: la critica di Friedman suggerisce che con l’impossibilità di agire sul tasso di
cambio e con una vischiosità dei prezzi e dei salari è inevitabile avere uno squilibrio
nelle bilance dei pagamenti, a meno che non si raggiunga una forte unione fiscale.
Supponendo infatti di avere due Paesi A e B con regime di cambio fisso e prezzi fissati,
immaginiamo di avere uno shock positivo sulla produttività nel Paese A: in questo
caso il Paese A venderà una quantità di beni subottimale, in quanto i prezzi non
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“Capacità delle autorità di politica economica di convincere i soggetti privati che gli impegni presi
dalle stesse autorità verranno in effetti mantenuti e che quindi le loro azioni future saranno coerenti
con gli annunci fatti precedentemente”. (Andrea Boitani, 2012, “Dizionario di Economia e Finanza”).
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potranno scendere a seguito di un aumento di produttività. Con cambi flessibili invece
la variazione del tasso di cambio agisce sui prezzi relativi rendendoli più bassi
all’estero: in questo caso si avrà un aumento delle esportazioni verso il Paese B ed
un’allocazione maggiormente efficiente.
Friedman sottolinea anche come il cambio flessibile renda più semplice la libera
circolazione di beni e capitali stimolando quindi il commercio internazionale, in
quanto il tasso di cambio agirebbe da stabilizzatore automatico.
Infine, per quanto riguarda l’equilibrio interno, viene sottolineata l’importanza di una
Banca Centrale indipendente che possa attuare politiche monetarie ad hoc: questo
risulta molto più semplice con il cambio flessibile, in quanto adottando un regime di
cambio fisso sarebbe necessario limitare l’ingresso o l’uscita di capitali.
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1.2.2 Robert Mundell: il padre della Teoria AVO
Friedman ha lanciato per primo il dibattito su come scegliere un regime di cambio,
ma per arrivare ad impostare un quadro generale della Teoria si dovrà aspettare il
lavoro dell’economista canadese Robert Mundell: “A Theory of Optimum Currency
Areas” (1961).
Il concetto che sta alla base di questo articolo prevede di preferire un sistema di cambi
fissi o flessibili sulla base delle condizioni economiche nella regione di interesse: a
differenza di quanto espresso da Friedman, Mundell non ritiene migliore il cambio
flessibile, piuttosto individua le condizioni economiche che ne rendono inefficaci i
benefici, chiamando le regioni con queste caratteristiche “aree valutarie ottimali”.
Per fare ciò Mundell inizia con due esempi dimostrando i limiti del cambio fisso in
determinati contesti, criticando quindi il sistema di Bretton Woods e sostenendo la
necessità di cambi fluttuanti nel mondo. Nel primo esempio prende due paesi A e B,
in equilibrio esterno e con piena occupazione, entrambi con la propria moneta
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È impossibile che coesistano un regime di cambi fissi, una politica monetaria autonoma e una perfetta
mobilità dei capitali (questo viene definito, in economia, “trio inconciliabile”). Se infatti scegliessimo
di adottare un regime di cambi fissi e una politica monetaria indipendente, il differenziale tra tassi di
interesse porterebbe ad una immediata fuga o entrata di capitali, che dunque andrebbe inevitabilmente
limitata con controlli sui movimenti.
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nazionale ed in regime di cambio fisso, con prezzi fissati nel breve periodo e con una
politica monetaria che non favorisca l’inflazione. In caso di shock sulla domanda da B
ad A, l’equilibrio verrà compromesso in quanto avremo il paese B con un aumento
della disoccupazione, mentre nel paese A avremo una spinta inflazionistica
prontamente bloccata da una restrizione del credito; l’onere del riaggiustamento quindi
starebbe al paese B che, in caso di impossibilità di modifica delle ragioni di scambio,
deve contrarre la produzione e l’occupazione.
La conclusione che se ne trae è che in aree valutarie con diverse monete, le politiche
di contenimento dei prezzi dei paesi in surplus portano a una tendenza recessiva
nell’economia dei paesi in deficit.
Nel secondo esempio Mundell prende due regioni con una moneta unica ed economia
chiusa. Lo spostamento di domanda dalla regione B alla regione A porta ad un aumento
di disoccupazione in B e all’aumento dei prezzi in A. In questo caso la Banca Centrale
può aumentare l’offerta di moneta per ridurre l’occupazione nella regione B, ma ciò
aumenterà la pressione inflazionistica nella regione A.
Con ciò Mundell conclude evidenziando un trade-off: per raggiungere la piena
occupazione è necessario che l’intera area venga colpita da un aumento dei prezzi; al
contrario, per mantenere stabili i prezzi è necessario un aumento generale della
disoccupazione.
Il terzo esempio proposto da Mundell è fondamentale in quanto spiega le
caratteristiche che deve avere un’area valutaria ottimale. I paesi presi in considerazione
sono Canada e Stati Uniti, i quali hanno due monete distinte in regime di cambio
flessibile. Inoltre viene fatta anche una separazione dal punto di vista produttivo, senza
tener conto dei confini nazionali: l’Est produce automobili, mentre l’Ovest produce
legname.
In caso di aumento di produttività nell’industria automobilistica si avrà un eccesso di
domanda di legname e un eccesso di offerta di automobili, pertanto la conseguenza
sarà un aumento della disoccupazione ad Est e pressione inflazionistica ad Ovest, con
riserve bancarie che si sposteranno da Est a Ovest (ossia dalla regione in deficit a quella
in surplus di bilancia dei pagamenti).
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In questo caso avremo Stati Uniti e Canada in una situazione economica molto simile,
dato che entrambi i paesi hanno una regione in surplus e una in deficit. Prendendo
come riferimento il Canada, dunque, avremo un’unica moneta ma due regioni
economiche distinte: si ricrea dunque un caso molto simile a quello descritto nel
secondo esempio. La banca centrale potrà intervenire con un’espansione monetaria al
fine di ridurre la disoccupazione nell’Est, altrimenti potrà contrarre l’offerta di moneta
per limitare l’aumento dei prezzi. La conclusione che si può trarre è che il cambio
flessibile tra Canada e Stati Uniti non riesce ad evitare il trade-off tra disoccupazione
ed inflazione all’interno dei paesi.
Mundell specifica che il cambio flessibile in certi casi rimane utile, ma solo quando la
moneta non è nazionale, bensì regionale (dove la regione rappresenta l’area valutaria
ottimale): riprendendo l’esempio precedente, se l’Est fosse riunito sotto un’unica
moneta e l’Ovest sotto un’altra moneta, allora non avremmo più il problema
dell’inflazione e della disoccupazione, in quanto le fluttuazioni del tasso di cambio
porterebbero ad una situazione di equilibrio ottimale.
Le regioni Est e Ovest appaiono quindi come aree valutarie ottimali: ossia aree in cui
vi è alta mobilità interregionale dei fattori e immobilità internazionale dei fattori.
Mundell nelle sue conclusioni spiega che il cambio flessibile è utile solo quando non
è presente mobilità dei fattori, mentre nel caso contrario gli effetti stabilizzatori del
tasso di cambio sono nulli.
In particolare, soffermandoci sulla mobilità del fattore lavoro si può dimostrare come
l’effetto inflazionistico e l’aumento di disoccupazione possono essere annullati in
un’area monetaria: riprendiamo l’esempio dei due paesi A e B aventi la stessa moneta
nazionale, ma con un’alta mobilità di lavoro. In caso di spostamento della domanda
dal paese B al paese A, conseguirà un aumento della disoccupazione nel paese B ed
un aumento dell’inflazione nel paese A. In questo caso il fattore lavoro tenderà a
spostarsi dal paese B al paese A, in modo che in B la disoccupazione scenda mentre in
A l’inflazione diminuisca grazie all’aumento di lavoratori.
Mundell si chiede quindi se l’Europa occidentale rappresenti o meno una possibile
area valutaria ottimale, rifacendosi alle idee di J.E. Meade (1957) e Tibor Scitovsky
(1958): il primo crede che la mobilità del lavoro sia troppo bassa e, conseguentemente,
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sia impossibile riunire l’Europa sotto un’unica moneta; il secondo crede che la mobilità
del lavoro debba essere migliorata e che la mobilità del capitale sia una condizione
favorevole alla formazione dell’unione monetaria. Il tema della mobilità dei fattori
resta centrale per entrambi gli autori, ma mentre per Meade un percorso di integrazione
monetaria europea risulta impossibile, per Scitovsky può essere attuato con le dovute
correzioni.
1.3 Analisi successive: gli studi di McKinnon e Kenen
1.3.1 Ronald McKinnon e il grado di apertura dei mercati
Il lavoro di Mundell è stato ripreso nel corso degli anni ’70, concludendo di fatto i tre
lavori fondamentali della teoria AVO.
In ordine cronologico, dei tre lavori fondamentali dopo quello dell’economista
canadese troviamo l’apporto di Ronald McKinnon (1963) che definisce l’area valutaria
ottima quella regione che, grazie a corrette politiche fiscali, monetarie e di cambio,
permette di conseguire i seguenti obiettivi:
• Il mantenimento della piena occupazione;
• L’equilibrio della bilancia dei pagamenti;
• La stabilità dei prezzi interni.
Di fondamentale importanza è il grado di apertura, ossia il rapporto tra beni
commerciabili (“tradable goods”) e non commerciabili (“non-tradable goods”). Per
definire i “tradable goods” McKinnon fa riferimento alla descrizione data da Harrod
(1953), che li divide in due tipologie di beni:
- I beni esportabili che vengono prodotti internamente e, in base al livello di
consumo domestico, parzialmente esportati.
- I beni importabili che vengono prodotti internamente e, in base al livello di
consumo domestico, parzialmente importati.
Prendiamo come riferimento un’area valutaria e ipotizziamo che il resto del mondo
consista in un’altra grande area valutaria: il problema sta nello scegliere se queste due