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approfondite di singoli casi e pertanto non completamente generalizzabili (Cicero,
2007).
Questo contributo presenta pertanto un breve accenno alle origini della SIT e alle sue
formulazioni iniziali, insieme alla SCT, analizzando le principali linee di ricerca ispirate
da questo approccio ed in particolare l’applicazione nel mondo del lavoro e delle
organizzazioni, con riferimenti diretti alla comunicazione organizzativa e allo stato
dell’arte di tale argomento.
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1. LA TEORIA DELL’IDENTITÀ SOCIALE
1.1 LE ORIGINI DELLA TEORIA DELL’IDENTITÀ SOCIALE
La sistematizzazione della Teoria dell’Identità Sociale e la descrizione approfondita del
concetto di “identità sociale” si deve in particolar modo a Henry Tajfel e alla sua
collaborazione con John Turner già nei primi anni ’70. I concetti elaborati da questi due
autori non sono però nuovi nell’ambito della psicologia sociale: spesso infatti, si ritrovano
concetti simili anche se definiti in altro modo.
Un primo esempio delle origini del concetto di “identità sociale” si ritrova in James
(1890), il quale definì tre diversi livelli del Sé: il Sé materiale (definito da elementi
materiali tangibili come le proprietà, il corpo, gli abiti); il Sé spirituale (definito dai
processi psichici tipici di ogni individuo, le attitudini e gli stati di coscienza); infine, il Sé
sociale, definito sulla base del riconoscimento da parte di altri individui e gruppi.
Mead (1934) invece distingue all’interno del Sé un “Io”, soggetto, definito come la parte
attiva del Sé, da un “me”, oggetto, definito invece come la parte riflessiva del Sé,
corrispondente agli atteggiamenti degli altri. Il Sé pertanto viene costruito
nell’interscambio continuo di simboli durante le interazioni tra le persone e risulta inoltre
essere costituito sulla base degli atteggiamenti sociali che costituiscono l’“altro
generalizzato”. Per “altro generalizzato” si intende, appunto, l’insieme delle attitudini e
degli atteggiamenti posseduti da un gruppo, il quale viene dunque inteso come un’unità a
cui una persona appartiene. Ogni persona, infatti, assume i ruoli e gli atteggiamenti
“richiesti e propri degli altri significativi, della comunità sociale e nello stesso tempo
definisce la propria identità” (Cicero, 2007).
All’interno del più ampio quadro della Teoria dell’Identità Sociale, Tajfel definisce ed
elabora il concetto di “identità sociale” partendo dalla considerazione che gli individui
hanno la consapevolezza di appartenere a determinati gruppi sociali e che tale
consapevolezza è caratterizzata e legata a valori, percezioni ed emozioni che sono
connesse e derivano dall’appartenenza ad un gruppo sociale (Tajfel, 1972).
Le considerazioni più sistematiche e formalizzate sull’identità sociale sono state
formulate da Tajfel negli anni ’70 (anche se considerazioni preliminari si ritrovano
precedentemente; Tajfel, 1959).
La SIT nasce infatti per studiare il comportamento delle persone all’interno di un gruppo
e analizzare i processi intra- e inter-gruppi attivati dall’appartenenza ad un determinato
gruppo o categoria sociale (Tajfel, Flament, Billig & Bundy, 1971; Tajfel, 1974, 1975,
1978; Billig & Tajfel, 1973). La SCT, invece, come verrà meglio spiegato in seguito,
deriva dall’approfondimento dell’analisi del processo cognitivo di autocategorizzazione o
categorizzazione del Sé, effettuato già negli anni Ottanta da Turner e dai suoi collaboratori
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(Turner, 1985; Turner, Hogg, Oakes, Richer e Wetherell, 1987) e proseguito negli anni
Novanta (Turner, Oaks, Haslam e McGarty, 1994; Hogg & Therry).
La Teoria dell’Identità Sociale, in particolare, fu inizialmente formulata per tentare di
dare una spiegazione agli inaspettati risultati di alcune ricerche che dimostrarono la
tendenza delle persone alla discriminazione nei cosiddetti gruppi minimali (per un maggior
approfondimento: Tajfel, Flament, Billig, & Bundy, 1971). Nello specifico, in situazioni
sperimentali di gruppo era stata riscontrata la tendenza delle persone a destinare maggiori
risorse ad un anonimo membro del proprio gruppo (ingroup) piuttosto che ad un membro
dell’altro gruppo (outgroup). Tali risultati portarono alla conclusione che la semplice
divisione in gruppi era sufficiente per dare luogo ai fenomeni di favoritismo dell’ingroup e
di discriminazione dell’outgroup. Ciò avveniva anche in situazioni che non implicavano la
presenza di interessi personali dei soggetti che partecipavano agli esperimenti o di una
situazione di reale competizione tra i gruppi, persino quando venivano assegnati
casualmente ad uno dei due gruppi, senza sapere neanche chi fossero i membri del proprio
o dell’altro gruppo e pur essendo consapevoli del fatto che non avrebbero potuto
beneficiare personalmente del loro comportamento discriminativo (Cicero, 2007; Ellemers,
Haslam, Platow, van Knippenberg, 2003).
Parafrasando ciò che scrisse Tajfel: “in una situazione priva delle usuali manifestazioni
dell’appartenenza al gruppo … i soggetti agiscono in termini della loro appartenenza al
gruppo e della categorizzazione intergruppo. Le loro azioni sono inequivocabilmente
dirette a favore dei membri del proprio gruppo e contro i membri dell’altro gruppo. Ciò
accade nonostante la consapevolezza che una strategia alternativa, agendo ovvero in
termini del miglior bene comune, sia chiaramente accessibile e comporti un costo minore”
(Tajfel et al., 1971).
Tale fenomeno riscosse notevole interesse, tanto da spingere numerosi ricercatori ad
effettuare esperimenti simili, nei quali venivano indagati differenti variazioni del
paradigma, prima di escludere varie spiegazioni alternative.
1.2 LA FORMULAZIONE INIZIALE DELLA SIT E I SUOI CONCETTI PRINCIPALI
Gli studi sui gruppi minimali ed altre ricerche successive, portarono Tajfel a sviluppare la
formulazione iniziale della Teoria dell’Identità Sociale. In particolare, quest’autore
interpretò i risultati di questi esperimenti come l’effetto di due processi psicologici
fondamentali:
1) Categorizzazione sociale: la tendenza a percepire sé stessi e gli altri in termini di
appartenenza a specifiche categorie sociali invece che in termini di singoli individui
portatori di caratteristiche proprie (per esempio, l’appartenenza alla categoria degli uomini,
degli studenti, degli impiegati, dei cattolici etc.). Tale processo deriva da un altro processo
cognitivo fondamentale che le persone utilizzano quando interagiscono con qualunque
aspetto del mondo circostante (Bruner, 1957): il processo di categorizzazione. Esso, infatti,
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risulta essere implicato, oltre che nella percezione di oggetti, situazioni ed eventi, anche
nella percezione delle persone o di qualunque entità sociale. Le categorie sociali
permettono di semplificare e ordinare gli elementi della realtà sociale e di discriminare tra
essi, stabilendo logiche di appartenenza ed esclusione. In conseguenza di ciò si ha che,
anche in presenza di categorizzazione arbitraria, hanno luogo fenomeni quali il perceptual
accentuation effect (Tajfel, Wilkes, 1963; Tajfel et al., 1971): la categorizzazione sociale
implica cioè la magnificazione delle differenze tra gruppi diversi e la minimizzazione, se
non addirittura l’annullamento, delle differenze interne ai gruppi, in modo da facilitare la
distinzione e il riconoscimento dei membri e dei non membri, per favorire l’organizzazione
e la comprensione del nostro mondo mentale e sociale (Brown, 2000a). Il fenomeno per cui
un insieme di persone-stimolo vengono percepite come membri di uno stesso gruppo, e
dunque come un’entità unica, era già stato definito da Campbell (1958) con l’espressione
di “entitatività” (entitativity) percepita ed è stato successivamente dimostrato dagli studi di
Gaertner, Mann, Murrell e Dovidio (1989).
2) Confronto sociale: la tendenza a valutare i gruppi e gli individui prendendo come
termine di paragone gli altri gruppi e, di conseguenza, la tendenza a percepirsi e a definirsi
in modo positivo piuttosto che negativo. È stata riscontrata infatti, una sorta di motivazione
nelle persone a valutare positivamente sé stessi e il proprio gruppo, allo scopo di acquisire
e mantenere un livello adeguato di autostima. Il coinvolgimento dell’autostima in tale
processo era stato già sottolineato da Festinger (1954) nella sua teoria sul confronto
sociale, secondo la quale le persone tendono a paragonarsi con altre persone, simili o
lievemente migliori rispetto ai parametri rilevanti, allo scopo di poter valutare le proprie
caratteristiche per mantenere o incrementare l’autostima. In breve, nella Teoria
dell’Identità Sociale la preferenza per l’autovalutazione positiva viene estesa al proprio
gruppo d’appartenenza, poiché esso contribuisce a definire la propria identità: ciò
comporta fenomeni quali il favoritismo per l’ingroup e la discriminazione per l’outgroup,
poiché questi consentono indirettamente di definire positivamente la propria identità e, così
facendo, di mantenere, innalzare o difendere la propria autostima. L’ipotesi della
motivazione per il mantenimento di un elevato livello di autostima è stata ulteriormente
approfondita in alcuni sviluppi successivi alla formulazione originaria della SIT, come ad
esempio in Hogg e Abrams (1990). È stato infatti sottolineato come il fatto di appartenere
ad un gruppo sociale valutato positivamente contribuisca al mantenimento di un’identità
positiva e dell’autostima collettiva dei membri del gruppo. Inoltre è stato rilevato come le
persone, che presentano un basso livello di autostima legata all’appartenenza a un gruppo,
dovrebbero essere motivate a incrementarla tramite il favoritismo per il proprio gruppo. Vi
sono tuttavia numerose ambiguità nei risultati ottenuti studiando tali processi come pure
problemi metodologici legati alla definizione del legame tra autostima individuale e
collettiva (Long, Spears, 1997). Contributi più recenti hanno tentato di definire in modo
più chiaro il rapporto tra il livello individuale e quello di gruppo dell’autostima ed il loro
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legame con il favoritismo per il proprio gruppo (Hunter, Platow, Howard, Stringer, 1996;
Long, Spears, 1997; Rubin, Hewstone, 1998).
Tajfel, nei suoi scritti iniziali definì questi due processi e il modo in cui agiscono e si
combinano, sottolineando dunque che esistono una serie di situazioni in cui le persone
effettivamente definiscono sé stessi e gli altri e, conseguentemente, interagiscono tra di
loro facendo, prima di tutto, riferimento ad una dimensione di gruppo (cioè di
appartenenza ad un gruppo o categoria sociale piuttosto che individuale o interpersonale).
Gli scambi sociali possono quindi essere impostati su uno di questi livelli. L’attenzione di
Tajfel e della SIT si concentrò particolarmente su tutti quei casi e fenomeni in cui il livello
intergruppi diventa prioritario. In sostanza si tratta di una dimensione che si può ritrovare e
può influenzare tutte le interazioni tra le persone e il mondo circostante. Scambi e relazioni
sociali governati in modo netto dalla dimensione di gruppo sono evidenti, per esempio, nei
fenomeni dei conflitti interetnici e delle lotte tra differenti gruppi o classi sociali (Cicero,
2003).
Alla fine degli anni ’70 e negli anni ’80 la collaborazione di Tajfel con Turner (1979,
1985) portò ad una maggiore formalizzazione della SIT, con i suoi principali assunti e
ipotesi. In particolare vennero trattate anche le strategie di tipo sia cognitivo sia
comportamentale che gli individui mettono in atto quando fanno parte di un gruppo allo
scopo di definire o stabilizzare la propria identità sociale. La presenza e l’utilizzo di tali
strategie dipenderebbero da specifici aspetti sia psicologici sia socio-strutturali del gruppo
di riferimento. La definizione di tali aspetti assume quindi particolare importanza nella SIT
e si ritrova nelle prime formulazioni della teoria, tra gli anni ’70 e ’80 appunto, come pure
negli sviluppi successivi (fino alla fine degli anni ’90): alcuni di questi aspetti sono stati
infatti studiati e verificati empiricamente nel corso di questi decenni. Di seguito verranno
presentati tali concetti con brevi riferimenti agli eventuali autori che hanno contribuito al
loro sviluppo e ai risultati che le ricerche hanno evidenziato:
a) Livello di commitment. Questo aspetto psicologico si rifà alla distinzione di tre
componenti dell’identità (cognitiva, valutativa, emozionale) postulata da Tajfel (1978) ed è
stato successivamente approfondito nello studio della differenziazione positiva intergruppi
in quanto sarebbe la componente affettiva del commitment con il gruppo ad influire
sull’intensità del favoritismo per il proprio gruppo (cfr. Ellemers, Kortekaas, Ouwerkerk,
1999);
b) Stabilità e legittimità delle relazioni e delle differenze di status esistenti tra i gruppi.
Questo aspetto, che deriva dal confronto intergruppi, consiste nella differenziazione di
status che normalmente viene a crearsi tra i gruppi e nella percezione di
illegittimità/legittimità di tali differenze nonché dell’arbitrarietà e ingiustizia dei principi
sui quali si fondano;
c) Permeabilità dei confini del gruppo. Questo aspetto strutturale consiste nella presenza
di confini relativamente permeabili tra i gruppi che permettono all’individuo di entrare in
un altro gruppo oppure ad altri di entrare nel proprio gruppo.