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Introduzione
“Tutto è solidamente dato e descritto per vero, ma
tutto è anche campato fuori dalla geografia e
dalla storia e colorito come in un miraggio”
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Questo studio parte da una semplice considerazione: Dino Buzzati è certamente uno scrittore
che costituisce un unicum all’interno del panorama della letteratura italiana del novecento.
Tale considerazione assume valore soprattutto alla luce dell’evidente difficoltà in cui
moltissimi critici, sui cui nomi e teorie discorrerò in seguito
2
, si sono trovati nell’inserire lo
scrittore bellunese in un dato movimento culturale o corrente di sorta o persino nell’accostarlo
ad un singolo autore, tanto che fiumi d’inchiostro sono stati spesi sui rapporti veri o presunti
con il “realismo magico” di Bontempelli, con i rondisti Cecchi e Cardarelli, con l’ipotizzato
maestro Kafka e con tanti altri, ma ad emergere da ogni confronto è sempre una difficoltà di
fondo, una sorta di azzardo, tanto da far spesso trapelare, alla fine, l’idea di trovarsi di fronte a
un narratore “fuori dal novecento” sia per lo stile che per le tematiche delle opere. Ma in
realtà basta leggere uno solo dei suoi lavori per rendersi conto che quest’idea è assurda, per
capire che essa non può esser giusta. Il problema tuttavia resta, e per trovare una soluzione è
bene allora precisare cosa si intende per novecentesco: con esso si delinea una rivoluzione, un
cambiamento epocale che sarà avvertibile in ogni forma d’arte e non solo, un cambiamento
dovuto a Bergson e Freud, Einstein e Nietzsche e altri che, in pochi anni, nel bel mezzo del
cambiamento di secolo, tolsero all’uomo ogni certezza riguardo tutto ciò che gli gravitava
intorno e persino dentro sé, col risultato che in pochissimo tempo ogni pilastro di una
conoscenza più che millenaria si rivelò fallace, annientato da quelle teorie che rendevano ogni
dimensione spaziale e temporale, una volta dominate dall’oggettività derivante dall’idea di
centralità dell’uomo, relative, e il pensiero, il cui funzionamento era sempre stato creduto
lineare e pienamente controllato, era ora descritto come in larga parte sconosciuto e
inconoscibile, alieno dalla volontà di colui che si era sempre creduto come suo padrone. La
letteratura e le arti in genere furono così costrette a cambiare profondamente le proprie
caratteristiche per potersi fare specchio di una realtà in profondissima crisi, che cercava
1
P. Pancrazi in «Corriere della sera», 2 agosto 1940, poi in Scrittori d’ oggi, IV, Bari, Laterza, 1946.
2
Cfr. l’introduzione curata da C. Toscani per D. Buzzati, Bàrnabo delle montagne, Milano, Mondadori, 1979
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disperatamente una visione del mondo che potesse essere in linea coi nuovi parametri:
l’uomo, proprio attraverso le mutate forme d’arte, cercava un nuovo terreno su cui poggiare i
piedi, dato che quello che aveva sempre avuto gli era stato tolto in maniera così improvvisa e
traumatica, e non a caso il frutto di tutto ciò possono esser considerati i cosiddetti movimenti
d’avanguardia, che simboleggiano la totale rottura col passato innescata proprio dalla
rivoluzione intellettuale, a cui seguiranno poi negli anni varie correnti e movimenti che
sembreranno riportare la cultura e l’arte a posizioni più consone, come un’onda che, dopo
essersi infranta sulla spiaggia e aver dato sfogo alla propria potenza devastatrice, ritorna
placidamente in mare. In realtà il mare non poteva più essere lo stesso, e così il frutto di
quello sconvolgimento appena descritto a grandissime linee è che «l’arte contemporanea che
rompe con la tradizione colloca il tempo nell’opera»
3
, e cioè che l’arte novecentesca è
costretta a cercare all’interno di sé stessa un’autenticità e una sicurezza che all’esterno non
poteva pretendere d’avere: si tratta di un principio a cui nessun artista potrà mai più venir
meno.
Ed ecco allora come proprio la concezione del Tempo, affiancata a quella dello Spazio,
diviene una peculiarità fondamentale di ogni opera del secolo appena passato e di ogni analisi
ad essa dedicata, ma soprattutto ecco come proprio questo nuovo sentimento del Tempo e
dello Spazio costituisce anche il fil rouge che lega Buzzati alla letteratura novecentesca, che
fa sì che anche un autore dallo stile così sobrio e pragmatico, e quindi atipico, e dalle
tematiche tanto lontane da quelle di moda, qualsiasi essa fosse, possa esser considerato come
appartenente al Novecento non solo per via anagrafica. Dimostrare ciò è l’obiettivo che
questo studio si pone, ma è importante sottolineare come esso si situi in relazione soprattutto
con i romanzi dello scrittore bellunese e non con la totalità delle sue opere, la cui quantità e
varietà è assolutamente enorme, tanto da poter essere vista come una delle cause di
quell’incertezza interpretativa di cui si è parlato all’inizio di quest’introduzione. Ecco allora
come l’oggetto dell’analisi saranno unicamente i cinque romanzi, pubblicati lungo l’arco di un
trentennio (1933-1963) e intervallati da numerose raccolte di racconti, romanzi che credo
perciò possano esser considerati come il compendio di tutte le specificità di un autore tanto
prolifico e ricco quanto interessante.
3
A. Asor Rosa, Tempo e nuovo nell’avanguardia, ovvero: l’infinita manipolazione del tempo, in AA.VV., Le
frontiere del tempo, a cura di R. Romano, Milano, il Saggiatore, 1981, pagg. 78-79.
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Tempo
“Il significato del tempo varia da un periodo, da
un popolo, da una cultura ad altri periodi, popoli,
culture, a seconda che la durata si limiti al
quadro d’un azione precisa, di una vita umana, di
una serie di generazioni o di una serie
interminabile di vite successive. Tutta l’attitudine
dell’uomo dinanzi alle cose, il ritmo della sua
vita, il suo comportamento, il suo pensiero, sono
determinati dalla risposta che dà a questa
domanda: cos’è il tempo?”
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1 Appuntamento con Einstein
All’interno dei Sessanta racconti si trova un brano estremamente interessante dal titolo
Appuntamento con Einstein
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dove l’inventiva di Buzzati imbastisce un incontro tra il famoso
fisico e un diavolo incaricato di portarlo nell’aldilà, il tutto ambientato tra i viottoli attigui
all’università di Princeton. Vero protagonista del racconto è il tempo, o meglio il fiume
temporale, come lo stesso autore lo definisce spesso nel Deserto dei Tartari
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, metaforizzato
nelle due proroghe che lo scienziato chiede al diavolo per ultimare i propri studi (entrambe
della durata di un mese). Il vero risultato di queste proroghe non consiste tanto nel fatto che lo
studioso, al loro termine, è riuscito a terminare il proprio lavoro, quanto nell’accorgersi di
quanto possano sembrare brevi due mesi agli occhi di chi deve concludere degnamente il
lavoro di una vita, mentre lo stesso periodo può sembrare «lungo se si aspetta la persona
amata»
7
; tutto ciò assume ancor maggior valore se si considera che sullo sfondo della trama si
trovano le riflessioni di Einstein sulla natura e la dimensione dello spazio, e di enorme
importanza devono esser considerate anche le battute finali del diavolo attraverso cui rivela
4
S. Stelling-Michaud, Quelques aspects du problème du temps au moyen âge, in «Etudes Suisses d’historie
gènèrale», vol. XVII, 1959, pag. 7.
5
D. Buzzati, Sessanta racconti, Milano, Mondadori, 1958, si cita da Milano, Oscar Mondadori, 1994, pagg. 261-
266.
6
D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Milano, Rizzoli, 1940, si cita da Milano, Oscar Mondadori, 1989.
7
D. Buzzati, Sessanta racconti, op. cit., pag. 264.
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che il suo vero compito non era quello di portarlo nell’oltretomba ma di mettergli fretta
affinché concludesse i suoi studi (che, afferma, sono stati molto apprezzati in passato dai suoi
“superiori”!): in questo modo viene a delinearsi una strana rete di rapporti tra le rinnovate
concezioni del tempo e dello spazio e un quasi necessario intervento diabolico alle loro spalle.
Al di là dei forse involontari richiami alle vicende copernicane (la rivoluzione scientifica per
eccellenza, in cui in molti videro l’intervento del Maligno), il brano ci mette in luce
l’attenzione di Buzzati per gli studi di Einstein e per le tematiche ad essi legate, come se
l’autore bellunese volesse evidenziare le basi scientifiche di ciò che era stato già largamente
trattato nei tre romanzi che precedettero la raccolta in cui è contenuto il brano e che
ritorneranno con assiduità nelle opere successive, e cioè una concezione estremamente
soggettiva (per certi versi “magica”) dello Spazio e del Tempo attraverso la caduta di ogni
criterio obiettivo, caduta che aveva portato ad esiti culturali quasi apocalittici, tanto da
spingere la fantasia dello scrittore ad immaginare nel brano in questione il tifo e l’impegno dei
diavoli in favore di quelle teorie che si riveleranno decisive per le scoperte scientifiche del
fisico, le stesse teorie che minacciavano di distruggere sia il mondo della cultura, con le nuove
concezioni di tempo e spazio, sia quello reale e tangibile, con la costruzione della bomba
atomica. Protagonista di questo primo capitolo è allora il Tempo, con le innovative peculiarità
che esso acquista nel Novecento a seguito appunto di Einstein e di altri e, soprattutto, con le
immagini e le considerazioni che Buzzati esprime ed utilizza all’interno dei suoi cinque
romanzi.
2 Gli orologi inutili…
Lo storico tedesco Karl Lamprecht osservò che negli ultimi decenni del XIX secolo in
Germania ci fu un’impennata nella produzione e nell’importazione di orologi da taschino (12
milioni di pezzi importati a fronte di una popolazione di circa 52 milioni di tedeschi)
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, ovvero
di un oggetto che fino ad allora era stato ritenuto superfluo e che si apprestava invece a
diventare assolutamente indispensabile alla vita quotidiana di ognuno. Questo dato non può
che indicare un forte interesse da parte di tutto il mondo, e non solo di quello scientifico,
8
S. Kern, Il tempo e lo spazio: la percezione del mondo tra Otto e Novecento, Bologna, Il mulino, 1999, pag.
142.
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verso il tempo e la sua misurazione, e in fondo non c’è da stupirsene: siamo, infatti, negli anni
in cui si comincia a discutere sulla necessità di adottare un sistema orario valido in tutte le
regioni del globo (l’odierno fuso orario basato sul meridiano di Greenwich) ed è quindi in
questi anni che si ravviva l’interesse verso la dimensione temporale da parte di scienziati e
letterati, pittori e filosofi che, come S. Agostino quindici secoli fa, hanno fatto del tempo uno
degli oggetti privilegiati della propria riflessione; paradossalmente, però, proprio da questo
periodo d’enorme interesse nascerà tutta una serie di teorie ed intuizioni che avranno come
risultato finale il considerare il tempo inesistente; in questo modo non può esser considerato
un caso il fatto che uno dei maggiori scrittori del novecento, Thomas Mann, permetterà a
Hans Castorp, protagonista de La montagna incantata, di non aggiustare il proprio orologio
durante i lunghi mesi di sanatorio, poiché lo strumento sarà spesso percepito dal personaggio
come inutile.
Dire chi abbia avuto più peso nel “condannare” l’esistenza del tempo è impossibile, ma di
certo si devono considerare come fondamentali due figure su tutte: Bergson e Einstein.
Il filosofo francese, infatti, è stato il primo ad ipotizzare, all’interno del Saggio sui dati
immediati della coscienza
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, la presenza di due diverse percezioni del tempo, una meccanico-
scientifica e un’altra spirituale, dove la prima assumeva le caratteristiche di qualcosa di
astratto e “quantitativo” in quanto risultava essere reversibile (si pensi alla ripetitività di un
esperimento in laboratorio) e separato in attimi distinti e indipendenti l’uno dall’altro, come
una collana in cui è possibile individuare e separare ogni pietra preziosa; il cosiddetto tempo
della vita, invece, assumeva le sembianze di un gomitolo di attimi che si ingrossa sempre più
su se stesso, dove ogni esperienza è legata, anche segretamente (vedi il concetto freudiano di
inconscio…), ad altre e il tempo finisce per identificarsi con la durata reale, ovvero un flusso
continuo non frazionabile in ore e minuti, diversamente vissuto da ciascun individuo perché
esso sembra emergere dal sottosuolo della nostra psiche, tanto da non poter essere individuato
dall’intelletto ma solo da una facoltà diversa e irrazionale, che Bergson denomina intuizione.
Ecco allora delinearsi due tempi estremamente differenti, dove a uno che trova nella
meccanica finitezza dell’orologio una sorta di vita in cattività, risponde l’altro dotato di una
libertà quasi selvatica, la cui purezza è salvaguardata dalla presenza dell’intuizione: tutto ciò è
ben visibile nella Ricerca del tempo perduto di Proust, dove i principi bergsoniani trovano
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H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, Torino, SEI, 1951