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INTRODUZIONE
1.1 Il mais in Italia
Il mais (Zea mays L.) è una delle piante maggiormente coltivate al mondo.
Importato in Europa subito dopo la scoperta dell’America, si è rapidamente
diffuso nei sistemi colturali locali, compreso l’agroecosistema padano. Qui, è
stato documentato per la prima volta nel 1554 nel Polesine e nel Veronese e
nel 1558 nel Milanese, ha rapidamente sostituito le coltivazioni di sorgo e
panico per imporsi come coltura principale nel periodo primaverile-estivo. Tale
successo è originato dalla grande plasticità del mais, ovvero nella sua possibilità
di adattamento ai sistemi colturali dei climi temperati, e all’aumento delle rese
ad ettaro ottenute dalla sua coltivazione. La grande variabilità genetica,
emersa in Italia come risultato della selezione adattativa e produttiva dei
genotipi introdotti dalle Americhe, ha condotto alla formazione di un complesso
di varietà locali e agro-ecotipi adatti a soddisfare le esigenze dei numerosi
microclimi offerti dalle condizioni di un’orografia complessa e di una
pluviometria estiva tendenzialmente scarsa, specialmente nel sud della
penisola.
Dal punto di vista agronomico la differenziazione concerne il ciclo tardivo,
medio-tardivo (a ciclo pieno), medio-precoce (per semine ritardate) e precoce
da montagna o da zone semi-aride.
Mentre nei primi secoli la coltivazione maidicola era unicamente condotta in
regime pluviale, da pantano o con occasionali interventi irrigui, nel periodo tra
i due conflitti mondiali si è notevolmente espanso il ricorso agli interventi
irrigui, che ha determinato la selezione di varietà ad alta produttività e
l’utilizzo di fertilizzanti minerali che ha generato un progressivo incremento
delle rese (Brandolini e Brandolini, 2007; Maggiore e Agostini, 2007).
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A seguito della seconda guerra mondiale, l’introduzione degli essiccatoi e
l’impiego della granella nel settore zootecnico hanno inoltre conferito un
notevole impulso al processo di sostituzione delle varietà tradizionali che
avevano elevate qualità organolettiche ma produttività nettamente inferiore
agli ibridi “dentati” di prima generazione, divenuti fattori essenziali della
nuova alimentazione zootecnica. Dal 1948 al 1958, con l’introduzione degli
ibridi appena citati, la produzione italiana crebbe da 22 a 37 milioni di quintali
(Maggiore e Agostini, 2007).
La nuova tecnica colturale cambiò il metodo di semina: la distanza fra le file
resta commisurata a quella dei separatori della testata della mietitrebbia (70-
80 cm), mentre quella lungo la fila è legata alla densità finale che si vuole
ottenere (passando da 3 a 3,5 piante/m² delle varietà tradizionali alle 6-7 degli
ibridi moderni).
Pur con queste innovazioni, fino al 1960 i campi di mais erano ancora popolati
da persone, in genere donne, che perfezionano il lavoro effettuato dalle
macchine: diradamento, sarchiatura e rincalzatura, nonché raccolta delle
spighe cadute nel corso della mieti-trebbiatura. Date le sempre maggiori
esigenze idriche del mais e le non più impellenti necessità alimentari delle
popolazioni agricole, il cereale non venne più coltivato in montagna e la collina
per la pianura irrigua, dove è possibile intensificare le produzioni.
Intorno al 1965 anche in Italia il mais comincia a essere coltivato per la
produzione di trinciato integrale destinato all’insilamento: tale erbaio diventò
il nuovo alimento per il bestiame e dette la possibilità di concentrare dapprima
l’allevamento dei bovini da carne e, in seguito, anche quello dei bovini da latte.
Negli ultimi decenni del ’900 continuò il processo di sviluppo tecnologico della
produzione agricola e, mettendo in crisi la vecchia organizzazione aziendale e
la piccola proprietà, trasformò radicalmente la vita e l’aspetto del paesaggio
agrario: l’abbandono dei piccoli poderi e di un’agricoltura di
autosostentamento fondata sulle produzioni miste (cereali, viti, olivi ecc.),
indusse a concentrare gli investimenti dove si prospettavano maggiori
possibilità di riconversione e remuneratività. Nel nuovo paesaggio le colture
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tradizionali lasciarono il posto a estese zone di seminativo in “omosuccessione”
maidicola, dove in tempi indefiniti si continua a succedere la stessa coltura.
Nel 2006 l’Istat registrò 1.383.000 ha di superficie a coltura maidicola, di cui
1.108.000 ha a mais da granella e 275.000 a mais da insilato (Maggiore e
Agostini, 2007). Il 90 % del mais da granella e il 75 % di quello a trinciato
integrale era localizzato nel Nord Italia, prevalentemente nelle aree di pianura
di Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Emilia- Romagna
(Brandolini e Brandolini, 2007; Maggiore e Agostini, 2007).
Sempre l’Istat, nel 2020, registra un forte calo della superficie a coltura
maidicola attestandola a 600.000 ha di mais da granella e 380.000 di mais da
insilato (ISTAT, 2020).
Dall’inizio del nuovo millennio, il mais comincia ad interessare le aziende anche
per impieghi alternativi all’alimentazione umana ed animale, come la
produzione di etanolo, combustibile in campo energetico, o silomais per
ottenere biogas (Brandolini e Brandolini, 2007; Maggiore e Agostini, 2007).
Per quanto riguarda le problematiche che possono intaccare la produzione e la
sua qualità, le avversità sono suddivisibili in biotiche e abiotiche: tra le biotiche
si ricordano parassiti animali come la Diabrotica (Diabrotica virgifera virgifera)
e la Piralide (Ostrinia nubilalis); un ampio elenco di funghi (Fusarium spp.,
Helmintosporium spp., Penicillium spp., Aspergillus flavus, etc.) tra cui alcune
specie che producono micotossine agenti sugli animali e sull’uomo; una vasta
selezione di piante infestanti tra cui la sorghetta da rizoma (Sorghum
halepense), il giavone comune (Echinochloa crus-galli) ed il cencio molle
(Abutilon theophrasti) mentre il tema principale della presente tesi, ovverosia
gli agenti atmosferici, sono avversità abiotiche (Battilani, 2007a, 2007b; Polini,
2007; Viggiani, 2007).
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1.2 Il danno prodotto da agenti atmosferici
1.2.1 I danni da grandine sul mais
Negli ultimi anni, eventi estremi come tempeste, ondate di calore e fenomeni
siccitosi sono aumentati notevolmente: a titolo d’esempio, in Europa (compresa
la Russia europea) sono stati registrati aumenti di temperatura senza
precedenti nel corso della stagione estiva del 2003 e del 2010 (Vescovo et al.,
2016). Sempre durante l’estate, nel 2007, il Regno Unito ha subito una serie di
alluvioni distruttive, al punto che le opere di contenimento dei corsi d’acqua si
sono rivelate poco efficaci (EASAC, 2013). Rimanendo in tema di alluvioni, nel
2013 sono stati coinvolti da inondazioni record anche la Germania, l’Ungheria
ed altri Paesi del Centro-Europa. Per quanto riguarda le temperature, dalla fine
di luglio all’inizio di agosto del 2013, nell’intero continente europeo (dal
Mediterraneo alla Scandinavia) sono state registrate alte temperature. Il caso
austriaco è una sineddoche nel contesto europeo: la temperatura media del
mese di luglio si è attestata a 2,2°C in più rispetto alla media del periodo 1981-
2010 (NOAA, 2013), raggiungendo picchi superiori ai 40°C, in alcune zone.
Questa situazione di instabilità sembra rappresentare un rischio per le colture
coltivate in Europa: i forti temporali e gli eventi estremi associabili come agenti
atmosferici dannosi sono in aumento (Mohr e Kunz, 2013).
Una delle avversità abiotiche tipiche della stagione estiva europea è la grandine
che consiste in un insieme di corpi di ghiaccio irregolari che si formano in nubi
convettive (Kunkel e Changnon, 2003), e sono in grado di causare danni
significativi alle colture ed alle proprietà, immobili e mobili (Prabhakar et al.,
2019). Il verificarsi di fenomeni grandinigeni è comune nelle medie latitudini
ed ha un impatto significativo sulle colture coltivate in queste regioni. Come
accennato all’inizio, è previsto che il cambiamento climatico in essere possa
aumentare la frequenza degli eventi meteorologici estremi (Diffenbaugh et al.,
2013; Piani et al., 2005) e se ciò dovesse essere confermato ne risulterebbe una
tendenza di innalzamento del rischio per le produzioni agricole (Torriani et al.,
2007). Tuttavia, sono presenti in letteratura studi discordanti: infatti, a
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discapito di quanto appena affermato, alcuni dati raccolti al di fuori dell’Unione
Europea, precisamente negli USA, hanno confermato che gli eventi grandinigeni
ed i danni conseguenti ai raccolti ed alle proprietà mostrano tendenze al ribasso
per il periodo 1950-2009 (Kunkel e Changnon, 2003).
Sempre negli Stati Uniti, sono state stimate le perdite colturali totali dovute
alla grandine: esse ammontano a 1,3 miliardi di dollari americani all’anno,
quantificabili nel range 1-2% del valore complessivo delle colture raccolte negli
Stati Uniti (Changnon, 1997). Nello specifico, la coltura maidicola ha subito
perdite dovute all’azione meccanica operata dalla grandine per 580 milioni di
dollari americani (Changnon, 2009), circa il 2% della produzione del mais
americano (Hillaker et al., 1985).
Per quanto concerne l’Italia, gli eventi grandinigeni si concentrano
principalmente solo in una parte del Paese: la Pianura Padana (Nord Italia) e le
Prealpi, nello specifico in Lombardia e Veneto. In quest’area si registra il
maggior numero di eventi grandinigeni al mondo a causa della sua particolare
conformazione (Morgan, 1973). Sempre in questa zona la coltura maidicola è
particolarmente diffusa, arrivando a rappresentare il 90% della produzione
italiana di mais (ISTAT, 2016). La destinazione del mais qui coltivato è per l’82%
del prodotto totale,è l’alimentazione zootecnica (Dell’Orto et al., 2007) e il
periodo di semina spazia dalla metà di marzo alla metà di maggio per i mais di
primo raccolto. La stagione produttiva del mais si concentra nei mesi di giugno,
luglio ed agosto, sovrapponendosi quasi perfettamente al periodo di massimo
rischio di grandine.
L’impatto meccanico della grandine sulla superficie fogliare del mais da
granella ed il conseguente danno è ben documentato (Hanway, 1969; Hicks et
al., 1977; Klein et al., 2011; Shapiro et al., 1986). La pianta reagisce in più
modi all’indebolimento dello stocco, all’eventuale ingresso di patogeni e alla
defogliazione. Quest’ultima, nello specifico, rappresenta una delle principali
conseguenze che la grandine causa alla coltura e la perdita di area
fotosinteticamente attiva è direttamente associata ai decrementi di resa alla
raccolta (Eldredge, 1935; Erickson et al., 2004; Lauer et al., 2004). E’
dimostrato infatti che la defogliazione comporta perdite nella quantità di
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granella raccolta a fine ciclo (Siahkouhian et al., 2013) e di quantità di biomassa
raccolta (Fasae et al., 2009).
La grandine non influenza in modo uniforme la resa del mais: la tempistica
(ovvero lo stadio fenologico in cui la coltura si trova al momento dell’evento) e
la gravità di defogliazione (l’inefficienza fogliare e la quantità di foglia
asportata) sono le variabili principali che consentono con buona
approssimazione la determinazione del danno. A titolo d’esempio, una
defogliazione completa nelle fasi iniziali dello sviluppo della coltura maidicola
può determinare effetti minimi o non determinare alcuna diminuzione della
resa finale. Il motivo è legato alla posizione del meristema del mais in queste
fasi iniziali dello sviluppo: infatti, se il punto di crescita delle piante di mais
non è influenzato dall’azione meccanica della percossa, il recupero ed il ritorno
alla normalità fisiologica sono più probabili (Battaglia et al., 2019).
Defogliazioni di grande entità potrebbero verificare dei ritardi nella fenologia
fino al periodo di fioritura (Battaglia et al., 2019), probabilmente dovuti al
recupero della normale funzionalità fisiologica della canopy. D’altro canto,
defogliazioni di bassa intensità successive a V10 potrebbero ridurre il
rendimento finale anche del 30% (Battaglia et al., 2019). A parità di gravità
dell’evento, il momento di massima penalità è intorno alla fioritura. Infine, al
verificarsi di fenomeni grandinigeni nelle fasi finali del ciclo del mais, per
esempio nella fase di riempimento delle cariossidi, il danno diminuisce
progressivamente. La defogliazione avvenuta attorno a VT influenza
comunemente il tempo di emissione delle sete, l’intervallo tra antesi e
emissione delle sete e il tasso di crescita delle piante, ma non il tempo di antesi
o il numero di cariossidi (KN). La defogliazione durante la fase Riproduttiva 2 o
“della formazione della cariosside” (R2) influenza comunemente il peso della
cariosside (KW), senza modificare KN (Battaglia et al., 2019).
Una conseguenza di tale comportamento del mais è il metodo d’analisi del
danno subito dalla coltura quando questa risulta assicurata presso una
compagnia assicurativa che si occupa di beni agricoli: i tecnici si avvalgono di
grafici per stimare la percentuale di perdita di resa del mais dovuta alla
defogliazione e a eventi connessi. Questi grafici sono stati sviluppati alla fine
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degli anni ’60 e sono tutt’ora validi nella maggior parte delle situazioni
(Battaglia et al., 2019). Nel campo delle assicurazioni agricole, uno dei metodi
di stima del danno prodotto dalla grandine consiste nell’utilizzo di tali grafici e
tabelle unitamente all’analisi di alcune piante (n variabile, da 5-6 a decine) che
costituiscono un campione rappresentativo dell’appezzamento: con questo
metodo si mette in relazione empirica il danno della pianta e la perdita di
produzione ad esso associata (Erickson et al., 2004). Tuttavia, utilizzare
correttamente tale metodo e determinare con accuratezza il danno
dell’appezzamento valutando un numero sufficiente di piante può richiedere
molto tempo e il danno che verrà stimato seguirà uno schema irregolare
all’interno del campo per via della differente topografia, della direzione dei
venti che hanno direzionato la grandine e per la casualità con cui questa ha
colpito la coltura. Inoltre, parti colpite dell’appezzamento potrebbero risultare
inaccessibili, oppure la presenza di una coltura alta e ben sviluppata potrebbe
impedire la visione in profondità delle superfici fogliari (Erickson et al., 2004).
Sorgono pertanto dei problemi operativi nel procedere con tali metodologie.
Fig. 01: esempio di ciclo biologico del mais
Un ulteriore problema si riscontra nella determinazione del danno da grandine
sul mais non finalizzato alla raccolta della granella secca: mentre gli effetti del
danno da grandine simulato sul mais da granella sono stati ampiamente studiati,
non sono stati svolti molti studi di ricerca sugli effetti del danno da grandine
nel mais da biomassa e da insilato (Barimavandi et al., 2010; Lauer et al., 2004;
Simonelli et al., 1983). Un lavoro degli anni settanta (Baldridge, 1976) ha
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simulato il danno da grandine valutandone gli effetti sia sulla resa in foraggio
(biomassa) sia sulla resa in granella in ambienti irrigui del Montana (USA): la
defogliazione nelle fasi a V7 e V11 ha ridotto la resa del foraggio più della resa
in granella; al contrario, la defogliazione nelle fasi a 15 foglie, in VT e durante
la maturazione lattea ha causato una riduzione della resa in granella maggiore
della resa in foraggio.
1.2.2 Danni da vento forte sul mais
Per danni da vento forte si intende il danno direttamente collegato all’azione
meccanica del vento e alle sue conseguenze sulla pianta: questo è
l’allettamento, ovvero un ripiegamento al suolo della coltura. Questo
ripiegamento influenza la capacità produttiva, la fecondazione delle sete (se
avviene in prossimità della fioritura) e complica le operazioni di raccolta.
Dal periodo della rivoluzione verde ad oggi sono stati fatto molti progressi nella
costituzione di varietà di cereali (specialmente autunno-vernini) resistenti
all’allettamento. Le moderne pratiche colturali, tuttavia, si caratterizzano per
una maggiore densità di piante coltivate e l’uso intensivo di fertilizzanti,
aumentando il rischio di un possibile allettamento (Minami e Ujihara, 1991).
Per dare un valore quantitativo all’importanza di questo problema Zuber e
Kang, nel 1978, hanno determinato che l’allettamento è causa di perdite di resa
comprese tra il 5 ed il 25% per il mais coltivato negli Stati Uniti, in base
all’annata. Non direttamente collegato alla coltura, sussiste il danno logistico
della difficoltà della raccolta mentre la qualità della granella potrebbe risultare
deteriorata dal contatto col terreno (danno qualitativo).
Una diminuzione della resa in granella dovuta all’allettamento è stata segnalata
in molte colture cerealicole.
L’allettamento di piante di mais può avvenire in varie fasi dello sviluppo: da
prima della levata alla maturità prossima alla raccolta, con due tipi di
ripiegatura, ovvero la ripiegatura all’altezza delle radici e la ripiegatura sullo
stocco, in qualsiasi sua parte. La prima è causata dalla rottura delle radici senza
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danneggiamento dello stocco e la seconda dalla rottura dello stocco in un
qualunque punto (Minami e Ujihara, 1991). Alcuni effetti meccanici diretti del
vento includono movimenti delle piante come risultato sia della turbolenza sia
della resistenza delle piante al vento; lo sradicamento delle piante quando la
forza del vento supera la resistenza degli steli o della radice e il danno fisico
alle foglie causato da lacerazione, strappo e abrasione (Cleugh, 1998). Le
piante rispondono in vari modi a questi effetti meccanici: la risposta principale
è un cambiamento nel tasso di crescita e ciò può avvenire per l’intera pianta o
solo per alcune parti di essa; altri effetti includono una modificazione nella
morfologia e una diminuzione delle rese in granella.
L’erosione di particelle di terreno dovuta al vento è possibile anche prima che
la coltura si sia stabilita e i semi seminati possono essere fisicamente spazzati
via dal suolo (Kort, 1988). Forti venti possono portare addirittura al
seppellimento di nuove colture per quanto frequentemente vengano strappate
le giovani piantine dal terreno oppure esposte parzialmente le loro radici
(Komlev, 1960; Woodruff and Lyles, 1972), ma tale fenomeno non è tipico dei
climi italiani, se non per piccoli comprensori. Una canopy (ovvero la parte della
vegetazione superiore al terreno) che non copre completamente il suolo
permette alle particelle del terreno di essere mobilizzate e sollevate dalla forza
di taglio del vento sulla superficie del suolo. Queste particelle trasportate dal
vento possono causare abrasione, finendo per danneggiano le piante. Quando
le piante raggiungono uno stadio più maturo, i movimenti indotti dal vento
possono far strofinare le foglie, continuando il processo di abrasione. Man mano
che la coltura diventa più alta ed il baricentro delle piante si sposta, la forza
del vento può causare facilmente dei danni, rompendo gli steli o causando il
collasso delle piante sul terreno. Le colture cadute, si ribadisce, sono difficili
da raccogliere e il loro recupero potrebbe non essere economico (Kort, 1988).
L’insieme di questi problemi (grandine e vento forte) è un punto critico per la
gestione della coltura maidicola e del rischio della produzione ad essa associata
e si rende necessario il suo monitoraggio.
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1.3 Assicurazioni agricole
L’assicurazione è uno dei metodi più ampiamente riconosciuti ed applicati per
la gestione della perdita da rischi indotti dagli agenti atmosferici. Essa è un
metodo di protezione passivo, in quanto assicurarsi non previene il rischio di
danno, ma permette un risarcimento in base al danno ricevuto. Questi
potrebbero essere danni alla proprietà (ad es. Case private, edifici
commerciali, veicoli o colture agricole) causati da eventi meteorologici quali
vento forte, siccità, freddo frastuono, forti nevicate, grandine o pioggia (Curry
et al., 2012; Erhardt, 2017; Hall, 2017). Tali eventi possono essere categorizzati
come eventi catastrofici (poco frequenti, ad alto impatto) o non-catastrofici
(eventi frequenti e di basso impatto). Cumulando le perdite anno per anno,
questi ultimi tendono a causare perdite maggiori dei disastri naturali (Scheel et
al., 2013), tuttavia ricevono un’attenzione notevolmente minore da parte dei
media, dell’opinione pubblica e in letteratura.
Misurare l’impatto degli eventi non-catastrofici è un passo fondamentale per
sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi meteorologici, sviluppare strategie
efficienti di mitigazione del rischio meteorologico e migliorare la
resilienza/resistenza della società (Stulec, 2017; Toeglhofer et al., 2012). Ad
esempio, il rischio meteo non-catastrofico può avere un impatto diretto
sull’aumento dei costi e sulla diminuzione del volume delle vendite nelle
aziende agricole ed edili (Pres, 2009). Rischi elevati implicano anche
un’assicurazione più costosa o addirittura una negazione della copertura
assicurativa (Lyubchich et al., 2017). Una considerazione importante per la
gestione del rischio assicurativo è l’effetto del cambiamento climatico, che
parrebbe dimostrare l’amplificazione della frequenza e della gravità degli
eventi meteorologici estremi. I cambiamenti climatici sembrano aumentare il
rischio di danni legati alle condizioni meteorologiche, che impattano
direttamente su tutti i settori dell’economia, dalla pesca e l’agricoltura al
turismo (Smith et al., 2015).
L’Istituto Meteorologico Norvegese, in collaborazione con l’EASAC (European
Academies Science Advisory Council) redige il rapporto sugli eventi estremi in
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Europa. Secondo tale rapporto, il settore assicurativo registra un forte aumento
del numero di eventi meteorologici che causano perdite economiche
significative in Europa (Hov et al., 2013). Nello specifico, a titolo d’esempio del
settore agricolo, nel 2013 le assicurazioni sulla grandine in Austria hanno
risarcito danni per 240 milioni di euro a causa di eventi meteorologici estremi
(Österreichische Hagelversicherung, 2013). Poiché il numero di richieste di
risarcimento alle compagnie di assicurazione agricole è aumentato
significativamente in molte aree del pianeta, vi è un interesse verso gli
strumenti innovativi per far fronte alla situazione. Strumenti di monitoraggio
sempre migliori possono fornire informazioni strategiche per la pianificazione
di misure di adattamento nei settori agricolo e forestale. Tali misure sono
necessarie per ridurre gli impatti dei cambiamenti climatici previsti e la
variabilità nel tempo degli stessi.
Un processo di stima del danno tradizionale, operato dai tecnici di
un’assicurazione allo scopo di risarcire i propri clienti e basato sulla stima del
danno ottenuta dall’interpolazione di linee su grafici di accrescimento
empirici, potrebbe incorrere in diverse problematiche: in primis, il costo del
rilevamento e le difficoltà di accesso a determinati appezzamenti; altre
problematiche sono l’efficienza del monitoraggio e l’accuratezza delle stime.
Secondo Prabhkar et al., (2019), nel contesto indiano sia l’efficienza sia
l’accuratezza delle stime sono costantemente basse.
Con tali premesse, lo sviluppo tecnologico può fornire nuove opportunità e si
potrebbero applicare i metodi del telerilevamento attuale in nuovi campi, tra
cui il settore assicurativo. Gli strumenti innovativi per il monitoraggio
dell’agricoltura di precisione sarebbero utili non solo per il settore delle
assicurazioni, ma anche per l’agricoltura su larga scala: la cartografia dei danni,
a titolo d’esempio, può fornire informazioni importanti migliorare la gestione
della produzione (Vescovo et al., 2016).