1
1) Introduzione
Lo scopo di questa tesi è di descrivere gli attuali dispositivi microelettronici a stato solido (a semiconduttore
inorganico) di tipo bulk, ovvero dispositivi privi di nanostrutture confinanti per i portatori di carica mobile, come
pozzi, fili e punti quantici (“quantum wells, quantum wires, quantum dots”), adatti a rivelare elettricamente un
segnale luminoso incidente, caratterizzato da una certa intensità e frequenza. Presenteremo una panoramica
sulle tecniche di fotorivelazione più utilizzate, riservando amplio spazio alla fisica che sta alla base
dell’optoelettronica ed accennando brevemente alle applicazioni di maggior interesse, come ad esempio le
telecomunicazioni su fibra ottica, i rilevamenti telemetrici o vari tipi di “mapping” per uso di diagnostica medica,
terminando con i fotomoltiplicatori, di ultima generazione, candidati ad essere utilizzati nella tomografia ad
emissione di positroni (in inglese PET – “Positron Emission Tomography”). Questi ultimi sono noti, in ambito
tecnico – scientifico, con il nome di SiPMs (“Silicon Photon Multipliers” – fotomoltiplicatori al silicio). Dei
dispositivi per fotorivelazione che prenderemo in esame descriveremo i principi di funzionamento, richiamando
alcuni concetti fondamentali di fisica dei semiconduttori e alcune loro proprietà ottiche, le principali
caratteristiche e le proprietà in base a cui vengono classificati (ad esempio l’efficien za quantica, l’efficienza di
rivelazione dei fotoni, il rapporto segnale/rumore, il guadagno, il range dinamico, la responsività, la risoluzione
temporale ecc… ) e citeremo brevemente alcune tecnologie e passi di processo importanti che ne consentono
l’integrazione a livello sub – micrometrico. Analizzeremo i dispositivi optoelettronici, ad omogiunzioni ed
eterogiunzioni, più utilizzati, come i PIN (semiconduttore drogato p/semiconduttore intrinseco/semiconduttore
drogato n), gli APDs (“Avalanche Photo Diode s” – fotodiodi a valanga), i SAM – APDs (“Separate Absorption and
Multiplication APDs” - fotodiodi a valanga a regioni di assorbimento e moltiplicazione separate), i SAGM – APDs
(“Separate Grading Absorption and Multiplication APDs” – SAM a variazione graduale del gap di energia), i GM –
APDs (“Geiger Mode APD s” – APDs funzionanti in modalità Geiger) ed i SiPM. Vedremo come il loro impiego
consenta di risolvere alcuni dei problemi che interessano i dispositivi a tubo (noti come PMTs – “Photon
Multipliers Tubes” - fotomoltiplicatori a tubo), ampiamente usati in passato e tutt’oggi . Infine, una volta chiarite
la fisica e la topologia dei suddetti fotorivelatori, illustreremo (in appendice D), a livello di principio, il contesto
strumentale nel quale vanno inseriti, al fine di acquisire immagini computerizzate nell’ambito della PET.
2) La tomografia ad emissione di positroni (“Positron Emission
Tomography” – PET)
2.1) Il principio fisico alla base della PET
Prima di discutere il funzionamento di un generico fotorivelatore, è opportuno descrivere sinteticamente il
principio fisico, sfruttato nell’ambito della PET, per l’acquisizione di immagini computerizzate. In natura un
neutrone isolato (la cui vita media τ è stimata intorno ai 15 minuti, con un’accuratezza dell’ordine del secondo)
può decadere in un insieme di particelle comprendente un protone, un antineutrino elettronico ed un elettrone
(quest’ultimo storicamente chiamato “raggio beta” ), secondo la seguente reazione, conosciuta sotto il nome di
“decadimento beta” :
-
n → p + + e
−27
massa del protone = m= 1,672 621 71(29) × 10 kg
p
−27
massa del neutrone = m= 1,674 927 29(28) × 10 kg
n
tempo di dimezzamento = = τ
Il processo ora discusso è possibile grazie alla conservazione dell’energia: il neutrone ha massa a riposo
2
maggiore di quella del protone, per cui la quantità di energia pari a (m – m)c (l’energia “residua” della
np
trasformazione del neutrone isolato in un protone) dà origine alle altre due particelle. Dunque, essendo m> m,
n p
2
il decadimento beta avviene spontaneamente in natura. La reazione seguente si riferisce, invece, ad un
decadimento, noto come “decadimento beta inverso”, che non può avvenire spontaneamente in natura, dal
momento che la legge di conservazione dell’energia non sarebbe verificata.
+
p → n + ν + e
e
Un protone isolato non può trasformarsi in un insieme di particelle comprendente un neutrone, un neutrino
elettronico ed un positrone (l’antiparticella dell’elettrone, cioè una particella avente massa pari a quella
dell’elettrone e carica uguale, ma di segno opposto), poiché m< m, per cui se non interviene un “agente
p n
esterno” che fornisce al protone un’ulteriore energia pari a circa 2MeV, tale reazione non avviene. Se invece il
protone, anziché essere libero, risulta legato (ad esempio un protone all’interno di un nucleo), l’energia di
legame nucleare (pari a circa 8 MeV) fornisce al protone “l’energia mancante”, e la reazione precedente può aver
luogo con tempi caratteristici che dipendono dal nucleo nel quale si trova il protone. Può quindi accadere che un
nucleo (A,Z) decada nel modo seguente:
+
(A , Z) → (A , Z –1) + ν + e [e1]
e
Questa reazione è alla base della PET.
2.2) Il principio su cui si basa la rivelazione fotonica in ambito PET
Sappiamo che ogni sostanza o composto, se iniettato nel corpo umano, si concentra maggiormente su certi
tessuti piuttosto che su altri (ad esempio lo Iodio 131 si deposita maggiormente sui tessuti tiroidei). Dunque se
iniettiamo nel paziente (spesso si fa per via endovenosa) un certo isotopo legato ad una molecola
metabolicamente attiva (in genere uno zucchero), tale molecola si deposita sul tessuto di interesse, veicolandovi
18
l’isotopo a d essa associato. Per la scelta di quest’ultimo si ricorre frequentemente al F, poiché ha un tempo di
dimezzamento di 118 minuti, che è sufficientemente corto per poter essere impiegato ai fini di una visita
medica, e abbastanza lungo per poter essere trasportato dal ciclotrone di produzione (acceleratore di particelle
con il quale si producono gli isotopi di interesse) all’ospedale; tuttavia, solo a titolo di esempio, assumiamo di
22
poter usare il sodio 22 (Na). Prima che una buona percentuale di campione iniettato si sia depositata sul
tessuto di interesse è necessario attendere il lasso di tempo caratteristico della molecola metabolicamente attiva
22
utilizzata per veicolare l’isotopo Na. A quel punto l’isotopo decade seguendo la [e1], resa possibile dal fatto che
il protone è legato all’interno di un nucleo. Nel caso del sodio 22:
2222+
Na → Ne + ν + e
e
Il tessuto sul quale si è concentrato il sodio, dopo il relativo tempo di dimezzamento, diviene una “sorgente” di
+22 11
positroni (detti anche raggi β): tali raggi costituiscono una “traccia” (motivo per cui gli elementi come Na, C,
13151867131+
N, O, F, Ga e I vengono chiamati “ isotopi traccianti β”) che, se indirettamente rilevata, ci consente di
determinare la posizione che il campione iniettato ha assunto all’interno del corpo (in altri termini di mappare la
densit{ dell’isotopo nel corpo). Un positrone, emesso a partire dal tessuto, viaggia lungo una certa traiettoria
(circa due millimetri in acqua), finché non incontra un elettrone atomico: a questo punto si verifica
2
un’annichilazione positrone/elettrone, in cui l’energia di massa 2mc della coppia elettrone/positrone si
e
trasforma in una coppia di fotoni γ e γ, entrambi di energia pari a 511 keV, ovvero appartenenti allo spettro dei
12
raggi gamma. Questi, a partire dal punto di annichilazione, viaggiano lungo la stessa direzione ma in versi
opposti.
3
Fig. 1
Rappresentazione del fenomeno fisico alla base della rivelazione fotonica in ambito PET. Il positrone emesso dal decadimento beta inverso
attraversa una piccola regione di tessuto e annichila con un elettrone atomico; l’energia di ma ssa elettrone/positrone si trasforma nei due
fotoni γ e γ. Ciascuno di questi può essere visto come un’onda elettromagnetica che viaggia lungo una traettoria rettilinea, in base alla prima
12
legge dell’ottica lineare.
La direzione di propagazione dei due fotoni prende il nome di LOR (“Line of Response”) ed è la linea di volo di γ
1
e γin un punto della quale si è verificato l’evento di annichilazione. Il tessuto, divenuto una sorgente di positroni
2
a causa del decadimento beta inverso, grazie all’ annichilazione materia/antimateria diviene ora una sorgente di
fotoni, la cui frequenza rientra nel range delle onde elettromagnetiche gamma. Non ci resta che predisporre una
strumentazione atta alla rivelazione di tali fotoni, per ricostruire un’immagine al computer della geometria del
tessuto su cui si sono depositati gli isotopi traccianti. Saranno necessari almeno due fotorivelatori, uno che riveli
l’arrivo del fotone γe l’altro che riveli l’arrivo di γ. Occorrerà un’elettronica di “ front-end” (elettronica di
1 2
lettura) capace di estrarre l’informazione circa la posizione approssimata del punto di annichilazione, lungo la
LOR congiungente i due fotorivelatori. Se poi, anziché avere due fotorivelatori, abbiamo (caso più realistico) due
pannelli, ciascuno costituito da diversi fotorivelatori, allora è necessario che l’elettronica suddetta prenda in
considerazione solo una coppia di fotoni incidenti (uno incidente sul pannello 1, l’altro sul pannello 2) in due
istanti separati da pochi nanosecondi, ossia due fotoni quasi simultanei. In tal modo i due fotorivelatori così
eccitati, posti ciascuno su un pannello, individueranno una possibile LOR. Se riusciamo a determinare tutte le
possibili LOR, con opportuni algoritmi (di retroproiezione) si possono ricostruire i probabili punti di
annichilazione e dunque la forma del tessuto da visualizzare. È questo il principio cardine della tecnica
diagnostica PET.
4
Fig. 2
Schema di principio dello stadio di fotorivelazione di un sistema PET. Nell’esempio ciascun pannello è costituito da 12 SiPMs. L’elettronica di
lettura, a valle dei due pannelli, tiene conto solo di due fotoni incidenti quasi simultaneamente. Due SiPMs interessati da due eventi luminosi
simultanei individuano una possibile LOR, lungo la quale si trova un punto di annichilazione. Le linee colorate rappresentano le LOR rilevate,
dal cui insieme si deduce la forma del tessuto.
Esiste anche un’estensione della PET chiamata TOF PET (“Time of Flight PET”). L’elettronica , a valle del sistema
di fotorivelazione, calcola la differenza temporale fra gli istanti di arrivo dei due fotoni γe γ: se il punto di
1 2
annichilazione si trova, lungo la LOR, più vicino al SiPM 1 e più lontano dal SiPM 2, assumendo che le traiettorie
dei due fotoni siano rettilinee (e quindi trascurando le deviazioni rifrattive dovute alle discontinuit{ dell’indice di
rifrazione n), e che la velocit{ di propagazione dell’onda elettromagnetica relativa al fotone γ (c/n, con n
1
dipendente dal punto del tessuto nel quale, ad un certo istante, si trova il fotone) sia approssimativamente
uguale a quella dell’onda relativa al fotone γ, allora γarriva prima di γ. Dunque, calcolando la differenza fra i
21 2
tempi di arrivo, si deduce la posizione approssimata del punto di annichilazione (si legga l’appendice D per
ulteriori dettagli sulla TOF PET).
3) Il tubo fotomoltiplicatore (PMT – “Photon Multiplier Tube”)
3.1) Concetti generali riguardanti un fotorivelatore
Prima dello sviluppo e del perfezionamento delle tecnologie che consentono, oggi, un’integrazione “ spinta” dei
dispositivi a stato solido, i fotomoltiplicatori fatti con tubi a vuoto costituivano le uniche apparecchiature usate
per la rivelazione di eventi luminosi (al giorno d’oggi conservano ancora un ruolo centrale in diverse
applicazioni, PET inclusa). In generale un fotorivelatore può essere visto come un sistema che riceve in ingresso
un segnale luminoso, monocromatico o più in generale policromatico, e che rende disponibile in uscita un
segnale elettrico la cui ampiezza e struttura temporale sono legate alle caratteristiche del segnale ottico
incidente. Il segnale luminoso incidente sul fotorivelatore possiede uno spettro di intensità luminosa I = µc,
νν
32
dove µ è la densità spettrale volumetrica di energia, misurata in J/mHz, per cui I, che si misura in W/mHz, è
νν
proporzionale al numero di fotoni di cui consta il segnale luminoso, o meglio al numero di fotoni equienergetici
(energia = hν) che attraversano una superficie unitaria nell’unit{ di tempo .
5
Fig. 3
Modello teorico di un qualunque dispositivo di fotorivelazione
Ad esempio se in ingresso entra un segnale luminoso monocromatico a frequenza ν ed intensità variabile, in
uscita avremo un segnale elettrico la cui ampiezza è determinata proprio dal numero di fotoni che incidono sul
fotorivelatore: se l’intensità I è alta, la corrente di uscita del sistema sarà alta, se I è bassa la corrente sarà bassa.
νν
Dunque la corrente d’uscita è un segnale elettrico la cui ampiezza è proporzionale all’ energia luminosa incidente
sull’ingresso. Oppure supponiamo che l’evento luminoso monocromatico sia ad intensità fissa e frequenza
variabile: allora il modulo del segnale elettrico in uscita sarà proporzionale a tale frequenza.
Il caso ideale di frequenza ν fissata ed intensità I variabile potrebbe essere riprodotto sperimentalmente
ν
illuminando un fotorivelatore con un laser DFB (“Distributed Feed Back”); ovviamente l’esperimento si discosta
dalla situazione ideale descritta poiché la frequenza ν, durante la modulazione elettrica dell’intensità ottica
uscente dal laser ed incidente sul fotorivelatore, varia leggermente a causa del ben noto “effetto Chirp” legato al
funzionamento del laser. Inoltre il laser “tipo bulk” (= non basato su nanostrutture, ovvero nessun fenomeno di
confinamento quantistico rilevante per i portatori di carica) DFB, così come qualunque altro dispositivo
emettitore di luce, possiede uno spettro di emissione di larghezza finita, per cui il segnale incidente sul
fotorivelatore non può essere monocromatico, per quanto la selettività (= coerenza spettrale) del laser DFB sia
buona. Il caso ideale di intensità fissata e frequenza ν variabile potrebbe essere riprodotto sperimentalmente
illuminando un fotorivelatore con un laser DBR (“Distributed Bragg Reflector”), meno selettivo del laser DFB ma
accordabile in frequenza; l’esperi mento si discosta dalla situazione ideale descritta poiché durante la
modulazione elettrica della frequenza ν, uscente dal laser ed incidente sul fotorivelatore, l’intensit{ ottica I
ν
varia, oltre alla solita non monocromaticità del segnale luminoso.
Quello che cambia, fondamentalmente, fra un tipo di fotorivelatore ed un altro è:
la modalit{ con la quale l’energia luminosa interagisce col sistema, ovvero in base a quale principio
fisico la luce in questione trasmette al sistema “la sua informazione”: in altre parole come
l’informazione passa dal “dominio fotonico” a quello “elettronico”, cioè il principio fisico attraverso il
quale si forma il “fotosegnale” elettronico originale (primario)
la modalità con la quale il fotosegnale elettronico primario viene “trattato” al fine di renderne possibile
o di migliorarne “l’intelligibilit{” da parte di un sistema esterno di front – end
6
3.2.1) Il tubo fotomoltiplicatore classico (PMT): estrazione elettronica per effetto fotoelettrico
Nel caso dei PMT l’interazione fra la luce incidente ed il sistema di rivelazione è modellizzabile mediante il ben
noto effetto fotoelettrico ed il postulato di Planck, entrambi riassunti nella figura 4.
Fig. 4
Rappresentazione schematica dell’effetto fotoelettrico, con il quale è possibile modellizzare l’interazione fra i fotoni e la placca metallica
catodica sulla quale questi incidono.
A sinistra è riportata la relazione fra la massima energia cinetica T dell’elettrone estratto da un metallo e la
frequenza della radiazione luminosa incidente ν. ν è la “frequenza di soglia” del metallo, sotto la quale la
0
radiazione incidente non estrae alcun elettrone. A destra è riportata la buca di potenziale, prevista dal “modello
dell’elettrone libero” , con la quale si è soliti rappresentare un metallo dal punto di vista energetico. L’elettrone al
suo interno può essere visto, da un punto di vista ondulatorio, come una singola onda piana monocromatica di
De Broglie Ψ(r,t), la cui espressione completa è:
e
Ψ(r,t) = A
e
k è il vettore d’onda, il cui modulo è pari a n2π/λ, dove λ è la lunghezza d’onda dell’onda elettromagnetica
00
associata all’ elettrone nel vuoto, n è l’indice di rifrazione del metallo in cui si trova l’elettrone, calcolato alla
lunghezza d’onda λ, r è il vettore posizione, che moltiplica scalarmente k, mentre E/ coincide con la frequenza
0
angolare ω dell’elettrone nel metallo, che per convenzione può essere assunta pari a quella dell’elettrone nel
0
vuoto (a rigore tale uguaglianza è falsa). Il vettore k individua direzione e verso di propagazione dell’onda di De
Broglie Ψ(r,t) associata all’elettrone , mentre il suo versore , moltiplicato per l’intensit{ ottica dell’onda I,
eν
fornisce il vettore di Poynting associato a Ψ(r,t). A rappresenta la costante di normalizzazione. È bene ricordare
e
che un’onda di De Broglie, formalmente, non è normalizzabile, poiché questa descrive il comportamento spaziale
e temporale di una particella massiva (un elettrone) libera, ossia delocalizzata in una regione infinita di spazio
nella quale la densità di probabilità di trovare la particella è equidistribuita e di valore prossimo a zero. Nel caso
in cui il cristallo metallico, nel quale si trova l’elettrone ( quest’ultimo avente massa a riposo m ed energia totale
0
E), ha dimensioni molto maggiori della lunghezza d’onda λ dell’elettrone, la cui espressione è:
e
λ = λ =
eDe Broglie
2
allora l’onda di De Broglie diventa normalizzabile e dalla definizione di densit{ di probabilit{ |ψ(r,t)|si ricava
e
che:
7
A =
dove V è il volume del cristallo metallico. Quindi l’elettrone è localizzato all’interno del metallo, all’interno della
buca di potenziale del metallo, se quest’ultimo non è esposto alla luce. Se il cristallo viene colpito da un fotone di
energia almeno pari alla funzione di lavoro qΦ tipica del metallo in questione, un elettrone al suo interno può
M
assorbire l’energia hν (> hν) fornita dal fotone ed uscire dalla buca di potenziale. In altre parole la densità di
0
probabilità dell’elettrone può aumentare al di fuori della buca, al di fuori del metallo, azzerandosi, in sostanza,
all’interno. Questa situazione corrisponde all’estrazione dell’elettrone per effetto fotelettrico.
Nel grafico mostrato nella parte destra di figura 4, f(E) è la ben nota distribuzione statistica quantistica di Fermi
-1-3
– Dirac (di cui ricorderemo alcuni elementi nel paragrafo 4.1), mentre D(E) = 2π (eVcm) è la densità
tridimensionale di stati per gli elettroni del metallo ed è proporzionale alla radice quadrata dell’energia totale
degli elettroni (E); m è la massa a riposo dell’elettrone.
0
3.2.2) Il tubo fotomoltiplicatore classico (PMT): struttura di base
Riferiamoci al PMT riportato in figura 5:
Fig. 5
Disegno schematico di un PMT. La luce irradia la superficie di un elettrodo, chiamato “fotocatodo”, atto alla rivelazione di un evento luminoso
di opportune frequenze. In virtù dell’effetto fotoelettrico gli elettroni estratti dalla placca, posizionata fra x1 e x2, costituiscono un segnale
(primario) il cui flusso viene collimato, presso la sezione indicata con “LEM”, da un sistema di lensing elettromagnetico. Il segnale è
progressivamente moltiplicato all’interno delle regioni di potenziale create dai dinodi. Infine giunge presso una placca metallica chiamata
“anodo”, che ha il compito di raccogliere le cariche elettriche.
il tubo fotomoltiplicatore raffigurato riceve la radiazione luminosa sulla superficie di un elettrodo a forma di
piastra, chiamato “fotocatodo”, attraverso una finestra antiriflettente (multistrato), al fine di minimizzare la
frazione riflessa della potenza ottica incidente. I materiali con cui sono costruiti la finestra ed il fotocatodo
sottostante dipendono dalla frequenza della luce che siamo interessati a rivelare. Fissata una particolare
frequenza ν, il materiale della finestra antiriflettente va scelto in modo da creare la minore discontinuità
γ
possibile fra l’indice di rifrazione dell’aria (leggermente maggiore di quello del vuoto, che è 1) e quello del
materiale con cui è costruito il catodo, così da minimizzare il coefficiente di riflessione ottica R (in base alla legge
di Snell, riportata nel glossario), e in modo che l’energia di gap del materiale della finestra sia sufficientemente
maggiore dell’energia dei fotoni incidenti (E > hν), così che i fotoni non siano assorbiti dalla finestra
gapγ
(trasparenza passiva del materiale della finestra rispetto alla frequenza ν). Il materiale con cui costruire il
γ
fotocatodo deve essere scelto in modo che l’energia fotonica hν sia maggiore della funzione di lavoro qΦ, nel
γ
caso di un metallo, così da consentire l’estrazione di elettroni per effetto fotoelettrico, o maggiore dell’affinit{
8
elettronica qχ, nel caso di un semiconduttore a temperatura ambiente. Per rivelare luce ad alta energia, ovvero
ad alta frequenza, ad esempio blu o ultravioletta, è indicato realizzare il fotocatodo con un metallo, poiché
l’energia fotonica in questione è compatibile con la funzione di lavoro dei metalli (qΦ 3 ÷ 6 eV). La finestra
metallo
può essere realizzata con silice SiO, dal momento che hν qualche eV < E ( 9 eV). Un fotocatodo
2γgapSiO2
realizzato in metallo non consentirebbe la fotorivelazione della luce visibile (blu 400nm < λ< 700nm rosso),
γ
dato che questa è costituita da fotoni aventi energie di circa 2eV, insufficienti per l’estrazione di elettroni .
Il PMT è costituito da un tubo di vetro in cui è stato creato un vuoto spinto o molto spinto (fra qualche mbar e
frazioni di µbar), al cui interno sono disposti dei dinodi (una catena di differenze di potenziale), ovvero delle
placche metalliche la cui geometria e posizioni reciproche sono studiate per consentire, al flusso di elettroni, di
fluire attraverso il tubo in modo da ricevere la maggiore amplificazione possibile. Ciascun dinodo è connesso ad
un terminale positivo, la cui tensione è maggiore rispetto alla tensione del dinodo precedente. Ai fini della nostra
esposizione è più semplice schematizzare l’effetto di trascinamento complessivo degli elettroni (lungo l’asse x,
verso l’anodo ) da parte dei campi generati dalle tensioni positive dei vari dinodi con l’effetto di trascinamento
prodotto da un unico campo elettrico ε, generato da una differenza di potenziale anodo – catodo di circa 2000 V
(valore tipico), come mostrato in figura 6.
3.2.3) Il tubo fotomoltiplicatore classico (PMT): funzionamento in condizione di buio
Fig. 6
Schema di un PMT in cui supponiamo, per ragioni di semplificazione analitica, che l’effetto di trascinamento del flusso elettronico sia
garantito da un’unica differenza di potenziale fra anodo e fotocatodo (valore tipico di 2000 V). Il fotocatodo non è irradiato dalla luce.
Finchè il fotocatodo non è colpito da alcuna luce, oppure finchè la luce monocromatica che lo colpisce ha
frequenza inferiore a quella di soglia del materiale con cui è costruito, ciascun elettrone del metallo si trova in
una buca di potenziale dalla quale è poco probabile che esca. Tale probabilità è tanto inferiore quanto maggiore è
il lavoro di estrazione W (= U(x) – E , dove E è l’energia totale di un singolo elettrone nel catodo, x l’interfaccia
22
catodo – vuoto, U(x) = U(x) – qεx l’energia potenziale , rappresentata in blu nel disegno), tanto inferiore quanto
2
maggiore è la larghezza media della barriera di potenziale B e quanto inferiore è il coefficiente di trasmissione T
(effetto tunnel) relativo alla suddetta barriera. Tale coefficiente è calcolabile, approssimativamente, utilizzando il
noto metodo WKB (Wentzel – Kramers – Brilluoin), secondo il quale:
T dove k(x) = [e2]
in cui m è la massa a riposo del singolo elettrone del catodo, mentre ђ = h/2π è la costante di Planck ridotta.
0
9
In assenza di luce sul catodo un qualunque elettrone, localizzato all’interno dell’elettrodo, può essere descritto,
come già osservato, da una funzione d’onda ψ(x,t) a quadrato sommabile, la quale consta di una dipendenza
e
spaziale e di una temporale; queste due funzioni fattorizzano, dal momento che gli operatori hamiltoniano e
temporale commutano.
−
ђ
ψ(x,t) = ψ(x)
ee
La dipendenza spaziale ψ(x) è ricavabile risolvendo l’equazione di Schrödinger, indipendente dal tempo, nel
e
caso monodimensionale (si osservi la [g8]):
[E – U(x)] = 0 [e3]
quindi:
−
ђ
ψ(x,t) =
e
dove:
k= k= k(x)= k= k(x) =
1 2 2 3 3
si noti come le interfacce fotocatodo/vuoto e vuoto/anodo comportino la riflessione di un’onda di De Broglie
progressiva, dando luogo ad una regressiva. Le costanti complesse A, B, C, D, F e G sono calcolabili imponendo le
condizioni al contorno di continuità per ψ(x) e per la sua derivata.
e
ψ(x,t), ad un generico istante t precedente l’evento luminoso ed il conseguente assorbimento fotonico (t =
eBBB
istante di buio), ha la rappresentazione grafica mostrata qualitativamente in figura 7.
Fig. 7
Rappresentazione qualitativa della dipendenza spaziale della funzione d’onda associata ad un elettrone del metallo catodico, quando questo
non è irradiato dalla luce.
A causa dell’effetto tunnel c’è una densità di probabilità non nulla, seppur abbastanza piccola (rappresentata da
2
|ψ(x,t)|), che un elettrone, anche in assenza di luce incidente sul fotocatodo, attraversi la barriera compresa
eB
fra le coordinate x e B e riesca a raggiungere l’anodo, dando luogo ad una corrente di uscita (un valore tipico, a
2
10
temperatura ambiente, potrebbe essere dell’ordine dei fA), rilevabile dall’amperometro posto in serie all’anodo
stesso. Questa “dark current” (corrente di buio) è, ovviamente, non gradita, poiché costituisce un errore
sistematico che degrada l’accuratezza di una qualunque misura dell’intensità luminosa incidente.
Richiamando il noto concetto di meccanica quantistica della “densità superficiale di corrente di probabilità di
particella”, possiamo definire la “densit{ di corrente di probabilit{ di elettrone” j(x,t), monodimensionale,
eB
relativa ad un elettrone descritto da ψ(x,t), nel modo seguente (riferiamoci alla figura 6):
eB
j(x,t) = – [ ] = Im [e4]
eB
dove:
) = ψ(x) è stata ricavata dalla [e3]
e
e considerando l’espressione approssimata del coefficiente di trasmissione T di barriera di potenziale, fornita
nella [e2], possiamo mettere in relazione la densit{ di corrente di probabilit{ di elettrone all’interno del
fotocatodo (metallico) non investito dalla luce j(x<x<x,t), ovvero in ingresso alla barriera, con la densità di
e12B
corrente di probabilità di elettrone presso la sezione indicata con la coordinata B j(B,t), ossia in uscita alla
eB
barriera, utilizzando la definizione generale del coefficiente T:
|j(B,t)| T |j(x<x<x,t)|
eBe12B
j(B,t) rappresenta una “densit{ di corrente di probabilit{ di rumore di buio” primaria. j(B,t) dipende
eBeB
fortemente dalla temperatura a cui si trova il PMT, in particolar modo il fotocatodo (ad alte temperature
l’estrazione calda degli elettroni incrementa il rumore di buio), e più debolmente dalle tensioni dinodiche: è bene
osservare, infatti, che maggiore è la tensione risultante fra anodo e catodo, maggiore è la pendena, lungo l’asse x
del PMT, dell’energia potenziale U(x) (proporzionale al campo ε) e maggiore è il coefficiente di trasmissione T
della barriera, dato che la larghezza media di quest’ultima è diminuita. Chiaramente |j(B,t)| subirà
eB
un’amplificazione dovuta ai dinodi, prima che il flusso di elettroni primari e secondari raggiunga l’anodo,
peggiorando ulteriormente il problema del rumore di buio.