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Introduzione 
In ambito informatico il Test di Turing non ha certo bisogno di presentazioni. 
Proposto da colui il quale è ritenuto unanimemente il padre dell‟informatica, continua 
a rappresentare ormai da oltre mezzo secolo una sfida ed un‟inesauribile fonte di 
dibattito e di ispirazione per la ricerca nel campo dell‟Intelligenza Artificiale (IA) e resta 
a tutt‟oggi uno tra i criteri più accreditati per stabilire se una macchina sia in grado di 
pensare o, in senso più ampio, se sia intelligente. Nonostante ciò, forse pochi sanno 
che nel suo storico articolo, Computing Machinery and Intelligence, Turing descrisse 
inizialmente il test in termini di un gioco da lui stesso battezzato “imitation game” [1]. 
In seguito, il test perse i connotati di gioco e assunse i tratti più formali sotto i quali è 
attualmente noto. Sempre nel 1950, Claude Shannon avviò i suoi studi per riuscire a 
programmare un computer per il gioco degli scacchi [2]. Anche se si trattava soltanto 
dell‟alba di quella che sarebbe stata la rivoluzione informatica, visionari come Turing 
e Shannon riuscivano già allora a vedere l‟immenso potenziale insito nei computer ed 
erano animati dal desiderio di usarli per applicazioni che avrebbero facilmente 
attirato l‟attenzione del pubblico, piuttosto che per scopi militari come accadeva a 
quei tempi. I giochi apparivano un‟applicazione naturale per i computer, nonché 
un‟attività che poteva fregiarsi di un consenso praticamente globale. Questo stesso 
interesse per i giochi motivò Arthur Samuel ad iniziare un suo “viaggio” personale, 
durato circa 25 anni, orientato alla realizzazione di un programma in grado di battere 
a dama un avversario umano [3]. Gli sforzi iniziali di questi autorevoli personaggi 
produssero comprensibilmente un enorme effetto catalizzatore, portando, in poco 
tempo, ad un consistente ampliamento della schiera di studiosi intenti ad usare i
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giochi come campo di prova per metodologie, tecniche e strumenti di IA sempre più 
nuovi e all‟avanguardia. La ricerca sui computer games divenne in breve una delle 
principali e più seguite aree dell‟appena nata IA: non è un caso che una delle prime 
“grandi sfide” per l‟IA fu costruire un programma per il gioco degli scacchi in grado 
di assurgere al titolo di campione del mondo. Negli anni „70 e „80, la ricerca si 
concentrò sugli scacchi e sul cosiddetto “approccio bruta forza”, basato 
sull‟applicazione di algoritmi di ricerca esaustiva su strutture dati ad albero. Dalla fine 
degli anni „80 ad oggi, sono stati elaborati algoritmi di ricerca migliori e innovativi, 
nonché idee per l‟apprendimento automatizzato [4]. Nel corso dei decenni, lo studio 
sui computer games è stato la culla di diversi risultati dei quali hanno beneficiato 
domini di applicazione tra i più disparati e ha condotto alla creazione di sistemi 
intelligenti in grado di battere avversari umani, anche di calibro mondiale, in giochi 
quali dama [5] o scacchi [6]. 
Escluse poche eccezioni, tutti tra giovani e meno giovani, hanno almeno una 
vaga idea di cosa sia un computer game: un gioco, in formato software, pensato 
appositamente per essere giocato tramite un computer, avendo come avversari o 
come compagni, altre persone e/o Non-Player Characters (NPCs), ovvero entità virtuali 
create e controllate dallo stesso software. Esiste una sottile distinzione tra computer 
games e videogames, basata principalmente sul tipo di dispositivo hardware per il 
quale sono destinati: infatti, i primi richiedono necessariamente l‟uso di un computer, 
mentre gli altri possono fare riferimento a diverse architetture di elaborazione avendo 
come unico requisito imprenscindibile quello di disporre di un video tramite il quale 
fornire output visivo agli utenti [7]. In pratica, un computer game è anche un 
videogame, mentre può non valere il viceversa. I videogames possono essere 
classificati secondo diversi criteri. Uno tra i più usati è quello basato sul gameplay,
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ovvero sulle modalità con le quali il player può interagire e manipolare l‟universo 
virtuale nel quale è immerso e le entità che lo popolano [8]. In termini del concetto di 
look-and-feel proprio dell‟interazione uomo-macchina, il gameplay lo si può far 
corrispondere al feel. Sulla base del gameplay, i videogiochi vengono suddivisi in vari 
generi, anche se tale suddivisione non è sempre ben accetta, soprattutto per quei 
videogiochi che combinano caratteristiche appartenenti a generi diversi oppure 
presentano elementi di originalità difficilmente riscontrabili in altri videogiochi. 
Volendo citare alcuni tra questi generi è possibile ricordare i giochi da tavolo, con le 
carte, puzzle, d‟azione, di avventura, di ruolo, di strategia, di sport, ecc.. Il sorgere di 
nuovi gameplay e di nuovi generi è costantemente richiesto dai gamers, sempre alla 
ricerca di nuove esperienze di gioco, ma è dettato principalmente dal progredire della 
tecnologia o da break-through nel campo del game design.  
 Il breve excursus storico proposto in apertura testimonia inequivocabilmente 
l‟esistenza di un legame piuttosto forte tra IA e computer games. Ciò non deve 
affatto sorprendere, quanto semmai far cogliere con quanta semplicità e naturalezza il 
gioco coinvolga alcuni degli aspetti dell‟intelligenza umana che da sempre l‟IA cerca 
di imbrigliare e di riprodurre all‟interno di un sistema software: ragionamento, 
apprendimento, adattamento a situazioni nuove ed impreviste, nonché capacità di 
rispondere emotivamente a determinati impulsi con comportamenti, a volte, non 
proprio razionali, ma che fanno comunque parte di quel mistero chiamato umanità. 
Inoltre, rispetto a molte altre occupazioni dell‟uomo che parimenti possono dirsi in 
grado di suscitare un tale livello di coinvolgimento intellettuale ed emotivo, il gioco 
può vantare una maggiore predisposizione ad essere implementato su un sistema di 
elaborazione, ma, soprattutto, un seguito di gran lunga più numeroso (chi non ama 
giocare?). Da qui a rendere i computer games uno dei più apprezzati testbed per la
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sperimentazione sull‟IA il passo è stato breve.  
Il lettore esperto ed attento avrà, però, notato che, nel ripercorrere 
sinteticamente i passi della ricerca sui computer games, sono stati menzionati solo 
giochi alquanto tradizionali. Il motivo risiede nel fatto che lo studio sui computer 
games condotto fino ad ora nelle università e nei laboratori di ricerca ha riguardato 
quasi esclusivamente l‟ambito del problem solving e dell‟IA razionale. Esso ha come 
finalità la realizzazione di agenti software che, posti di fronte ad un problema, siano 
in grado di risolverlo massimizzando una certa misura di prestazione. I problemi 
affrontati sono solitamente ben definiti e vincolati e le tecniche di risoluzione usate si 
configurano generalmente come algoritmi di ricerca che esplorano lo spazio degli 
stati del problema tentando di ricavarne una soluzione. L‟uso di un tale approccio è 
giustificato dalla dimensione dell‟insieme delle soluzioni che è, in ogni caso, limitata e 
calcolabile a priori e dalla possibilità di sfruttare conoscenze specifiche sulla struttura 
interna del problema per escogitare delle euristiche in grado di facilitare e velocizzare 
la ricerca delle soluzioni. In quest‟ottica, computer games come gli scacchi  
costituiscono un testbed ideale, poichè presentano tutte le caratteristiche necessarie 
per poter adottare tali approcci. I moderni videogames, invece, sono generalmente 
giocati in real-time, consentono interazioni complesse con l‟ambiente e offrono 
mondi aperti e dinamici, tutte caratteristiche che rendono l‟uso di algoritmi di ricerca 
esaustiva o euristica pressochè improponibile [9]. Inoltre, i giochi da tavolo, con le 
carte, i rompicapo, ecc., sono giochi “cervellotici”, nei quali gli appassionati del 
genere solitamente traggono un diletto tanto maggiore quanto più è impegnativo il 
livello di difficoltà che sono chiamati a sostenere dal loro avversario. Questa loro 
bizzarra componente li rende adatti all‟utilizzo di “superagenti” software che, 
essendo in grado di “fare sempre la cosa giusta”, finiscono molto spesso per
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sopraffare il loro avversario. Ciò sarebbe difficilmente accettabile nella stragrande 
maggioranza degli altri giochi nei quali il giocatore vuole solo divertirsi: perdere con 
regolarità non rientra sicuramente nell‟accezione comune di divertimento. 
Con l‟uscita di giochi quali Pong (1972) o Pac-man (1980) si è assistito alla 
nascita di una nuova tipologia di computer games spesso distinta da quelle precedenti 
tramite l‟aggettivo “altamente interattivo” o semplicemente “interattivo”. Tale 
tipologia è quella attualmente di gran lunga più diffusa e annovera al suo interno 
generi molto diversi tra loro e in continua evoluzione trainati dal progredire della 
tecnologia e dalla costante richiesta da parte dei gamers di esperienze di gioco nuove 
e sempre più coinvolgenti. Si va dai giochi d‟azione a quelli di avventura, dai giochi di 
ruolo a quelli di strategia, dai giochi di simulazione agli sport, ecc. Tali giochi sono 
solitamente real-time, richiedendo ai partecipanti di reagire agli stimoli esterni in 
frazioni di tempo  che rientrano al più nell‟ordine di pochi secondi, diversamente da 
quanto accade nei giochi a turni dove ogni giocatore ha tutto il tempo di meditare su 
cosa fare e come farlo. Inoltre, a differenza di quanto accade in giochi quali gli 
scacchi o la dama, nei quali non è possibile associare fattezze di alcun tipo 
all‟avversario, ma si può soltanto impersonificarlo al più con il computer stesso, in 
questi giochi il player si trova a gareggiare o a collaborare con delle entità virtuali 
visibili, come i fantasmini in Pac-man, che nel gergo vengono indicati, come già 
accennato, con la sigla NPCs. Tale differenza, all‟apparenza banale, impone un nuovo 
requisito sui computer games. L‟uomo è, infatti, portato naturalmente ad instaurare 
rapporti empatici anche con le cose inanimate che lo circondano: basti pensare, ad 
esempio, al bambino che giocando con un robot giocattolo, gli assegna un nome, gli 
fa compiere imprese eroiche o disonorevoli, gioisce con lui per le sue vittorie e soffre 
se viene danneggiato o sconfitto. Lo stesso vale per i personaggi che animano il
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mondo virtuale dei computer games: il player stabilisce con essi dei rapporti che 
possono essere sia amichevoli che ostili e, cosa più importante, esige che la natura di 
tali rapporti sia tanto più credibile quanto più sofisticata e realistica è la riproduzione 
di tali personaggi. Questo aspetto pone tutta una serie di problemi di IA che risultano 
molto più complessi di quelli con i quali si ha a che fare nei giochi tradizionali. Tra 
questi vi sono la ricerca di cammini (pathfinding), il controllo del movimento, i 
processi decisionali, solo per citarne alcuni [10]. 
 Salvo pochi casi isolati, l‟industria dei videogiochi ha storicamente snobbato 
tali problemi optando per una loro risoluzione “spicciola” o per non risolverli affatto: 
basti pensare che, nonostante la ricerca di cammini da parte degli NPCs sia uno dei 
problemi di IA più comunemente riscontrabili all‟interno dei videogiochi,  l‟algoritmo 
A*, ideato nel 1968, è stato impiegato per la prima volta per la sua risoluzione solo 
nel 1996 [4]. Nell‟economia di un videogioco commerciale, raramente l‟IA ha avuto 
un peso di un certo rilievo, finendo quasi sempre per essere schiacciata da elementi 
ritenuti di gran lunga più meritevoli di attenzioni, primo fra tutti il livello di realisticità 
grafica e fisica dell‟universo nel quale il gioco è ambientato. La realizzazione del 
sottosistema di IA è solitamente collocata alla fine del processo di sviluppo di un 
videogame. In fin dei conti, un videogame deve generare profitti e mostrare una 
demo del gioco con un cattivo sistema di IA può portare ad avere delle recensioni 
negative con un conseguente potenziale impatto catastrofico sulle vendite. Accade 
così che semplicemente l‟IA non abbia la più alta priorità dal punto di vista del 
marketing. Dopotutto l‟uomo è un animale sul quale le immagini esercitano un forte 
potere di suggestione e un bel tramonto si vende molto più facilmente di qualsiasi 
capacità di ragionamento di un avversario, anche se incredibilmente arguta [11]. Il 
risultato di questo modo di pensare, andato consolidandosi nel tempo, è che l‟IA
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della quale è possibile avere esperienza nella stragrande maggioranza dei videogiochi 
moderni ha ben poco di intelligente e finisce spesso per essere additata piuttosto 
come “stupidità artificiale”. Tra le tecniche di IA più in voga tra gli sviluppatori di 
videogiochi vi sono quelle basate su regole del tipo if-then e sulle macchine a stati 
finiti. Nonostante risultino inadeguate per conferire agli NPCs un comportamento 
variabile e adattabile, queste tecniche primeggiano grazie alla loro semplicità di 
implementazione e alla robustezza e affidabilità delle soluzioni che riescono a fornire 
per una grande varietà di problemi, anche se vengono generalmente usate per il 
decision-making. I più temerari ricorrono in alcuni casi alle reti neurali e ad altre 
tecniche di machine learning per simulare negli NPCs la capacità di apprendere e di 
evolversi, ma anche quando ciò accade, per limitare i rischi dell‟imprevidibilità che 
caratterizza tali approcci e che può avere lo spiacevole effetto di far comportare gli 
NPCs in maniera più stupida piuttosto che intelligente, l‟apprendimento viene 
eseguito a priori prima della pubblicazione del gioco nel quale, pertanto, viene usato 
solo il comportamento già appreso senza possibilità di ulteriori evoluzioni spontanee 
[12]. Rimane, poi, ancora piuttosto diffuso il cheating (imbroglio), ovvero la pratica di 
programmare gli NPCs in modo tale da rendere loro accessibili, in qualsiasi 
momento, informazioni relative all‟ambiente o agli altri giocatori che in condizioni di 
gioco eque non sarebbero disponibili e che, ovviamente, pongono gli NPCs in una 
situazione di vantaggio rispetto ai player umani riducendone drasticamente la 
credibilità [13]. Per concludere, bisogna ricordare che lo scopo principale di un 
videogioco resta, comunque, quello di intrattenere e divertire il player. Il 
perseguimento di tale finalità deve emanare da ogni singola componente del 
videogioco, compresa l‟IA. Ne consegue che, anche quando l‟industria videoludica 
prende a prestito idee provenienti dal mondo accademico, esse vengono spogliate di
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quel tono formale che originariamente le contraddistingue per assumere contorni 
non meglio precisati volti soprattutto a strappare ai gamers pochi “wows” di stupore 
e ammirazione piuttosto che ricreare comportamenti human-like degni di studio e 
osservazione [11]. 
 Quanto detto dipinge un quadro nel quale il rapporto tra IA e videogames, 
pur rimanendo piuttosto viscerale, risulta variopinto e di colori cangiante a seconda 
del punto da cui lo si osserva, degli scopi che si attribuiscono all‟IA e della natura dei 
giochi che si prendono in considerazione. L‟IA assume forme e colori diversi a 
seconda che la si guardi dal punto di vista dello sviluppatore di videogiochi o del 
ricercatore e, anche internamente ad uno stesso punto di vista, presenta delle 
variazioni sulla base delle finalità per le quali viene adoperata. 
 Recentemente, tuttavia, alcuni nuovi orientamenti da parte sia dell‟industria 
che dell‟ambiente accademico lasciano presagire la possibilità di attenuare questa 
diversità di sfurmature cromatiche e di ridurre il gap tra loro finora interpostosi. Vi 
sono alcune motivazioni più che fondate e diversi segnali che portano a formulare 
una tale affermazione, alcuni propriamente riconducibili al mondo dei videogames, 
altri a quello della ricerca, altri ancora comuni ad entrambi. Per quanto concerne il 
mondo dei videogiochi, non si può non ricordare che i gamers denunciano già da 
diverso tempo la noiosa ripetizione di gameplay divenuti oramai un clichè prevedibile 
e poco attraente, incapace di soddisfare aspettative di intrattenimento sempre più 
elevate. L‟industria dell‟intrattenimento ludico interattivo riesce, almeno in parte, a 
far dimenticare tali malcontenti facendo leva, soprattutto, sulle impressionanti 
potenzialità computazionali messe a disposizione dai computer e dalle console di 
gioco moderne per ricreare scenari sempre più realistici e stupefacenti in grado di 
vincere anche le ritrosie dei giocatori più critici. Spesso, però, si sente parlare di
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videogiochi che pur essendo letteralmente incredibili sul piano grafico, fino ad essere 
elevati in alcuni casi al livello di vere e proprie forme d‟arte, sono piuttosto deludenti 
nei contenuti e nel gameplay finendo per essere valutati come dei prodotti appena 
accettabili nonostante gli enormi sforzi compiuti durante la loro realizzazione. Tutto 
ciò ha reso ormai chiaro agli addetti ai lavori che il ruolo di trascinatore svolto finora 
dalla computer graphics nei videogames sta per giungere al termine e che bisogna avere il 
coraggio di osare e provare nuove strade. In questa caccia all‟elemento in grado di 
ridare lustro al settore, che a parte rare eccezioni stenta ad emergere, sono sempre di 
più coloro che pensano che un considerevole aiuto può giungere da un maggiore e 
più accurato utilizzo di tecniche di IA. In particolare, considerare l‟IA come parte 
integrante della progettazione del gameplay di un videogioco e non solo come un 
modulo a se stante, potrebbe condurre alla creazione di esperienze di gioco 
completamente nuove: se la grafica può piacevolmente stupire il giocatore a livello 
visivo e gli engine fisici riescono a far percepire il mondo virtuale come se fosse reale, 
l‟IA ha il potere di coinvolgere il giocatore mentalmente ed emotivamente [14].  
Esiste, poi, una motivazione scientifica che spinge a prevedere un aumento 
dell‟uso di tecniche di IA più avanzate da parte degli sviluppatori di videogames per 
dotare gli NPCs di comportamenti e personalità più convincenti e human-like. 
Questa sorta di spauracchio ha nome e cognome: Uncanny Valley (Valle Perturbante) 
[15]. L‟uncanny valley non è “una meta 3 stelle della Guida Michelin”, anche se si 
potrebbe tranquillamente far coincidere con un luogo ben preciso, un luogo della 
mente per l‟esattezza, il punto in cui realtà e finzione si scontrano generando un 
effetto di spiacevole disorientamento. Quella dell‟uncanny valley è un‟ipotesi 
formulata nel 1970 dallo studioso di robotica nipponico Masahiro Mori e sintetizzata 
dal grafico presentato in Figura 1.
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Figura 1. Grafico dell'uncanny valley. 
 
La ricerca condotta da Mori analizza sperimentalmente come la sensazione di 
familiarità e di piacevolezza generata in un individuo da robot e automi antropomorfi  
incrementi di pari passo con la somiglianza alla figura umana fino ad un punto in cui 
l‟estremo realismo rappresentativo produce, però, un brusco calo delle reazioni 
emotive positive destando sensazioni spiacevoli come repulsione e inquietudine 
paragonabili al concetto freudiano di “perturbante”. Il grafico mostra sull‟asse delle 
ascisse il grado di somiglianza con la forma umana di vari oggetti o situazioni messe 
al cospetto del campione di individui analizzati, mentre su quello delle ordinate è 
riportato il livello di empatia da essi provato. Nell‟angolo in alto a destra c‟è un 
individuo in piena salute, in basso a sinistra una macchina aziendale. La zona del 
perturbante coincide soprattutto con la visione di corpi inanimati, nella fattispecie di 
cadaveri. Il senso spiacevole è ancora maggiore quando il cadavere, che si suppone 
inanimato, prende vita, ovvero nel caso degli zombi. Anche se quella di Mori rimane 
sempre un‟ipotesi non provata in alcun modo, l‟industria dell‟intrattenimento ritiene 
comunque prudente non trattarla con leggerezza ed ha iniziato ad interrogarsi sulla
Cap.1 – Introduzione - 11 
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sua rilevanza nella creazione di nuove opere: l‟uso sempre più massiccio di computer 
grafica, infatti, porta a chiedersi fino a che punto sia lecito spingersi nella ricerca del 
realismo esasperato, soprattutto se questo riguarda la creazione di esseri umani o altre 
creature antropomorfe [14] [16]. Al contempo, l‟ipotesi sprona gli sviluppatori di 
videogiochi ad escogitare metodi per riuscire in qualche modo a superare tale valle. 
Se si riuscisse, infatti, a raggiungere anche sotto altri aspetti, quali ad esempio quello 
comportamentale ed emotivo, lo stesso grado di realismo già presente sul piano 
grafico e fisico, i personaggi virtuali che popolano i videogames con tutta probabilità 
non sprofonderebbero nell‟uncanny valley, ma al contrario, accrescerebbero il livello 
di coinvolgimento e di divertimento dei gamers. Anche in questo caso, un 
miglioramento delle tecniche di IA che controllano gli NPCs sembra essere la 
risposta cercata. 
Questo cambio di rotta intrapreso dall‟industria dei videogiochi è una delle 
ragioni che sta portando il mondo accademico a guardare con grande interesse ai 
computer games interattivi che, come detto in precedenza, raramente sono stati 
adoperati per scopi di ricerca. Diversi ricercatori, infatti, intravedono in questo 
cambio di direzione l‟opportunità di collaborare con un‟industria talentuosa e in 
rapida crescita nel perseguimento di concreti avanzamenti nel campo dell‟IA. In 
particolare, si pensa che una delle aree che maggiormente può beneficiare di questa 
sinergia sia l‟IA human-level, detta anche “IA forte” o “IA generale”. Lo scopo dell‟IA 
human-level è la creazione di macchine in grado di compiere con successo qualsiasi 
compito rientrante naturalmente nelle capacità dell‟uomo. Tanto per intenderci i 
sistemi intelligenti ai quali punta l‟IA forte sono quelli che spesso è possibile 
ammirare nei film di fantascienza, quali ad esempio, HAL in “2001, Odissea nello 
Spazio”, oppure DATA in “Star Trek”. In poche parole, si tratta del sogno dell‟IA. I
Cap.1 – Introduzione - 12 
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progressi fatti in questo campo, tuttavia, sono miseri e ironicamente ciò è dovuto 
principalmente al fatto che le attuali applicazioni dell‟IA non richiedono la generalità 
e l‟adattabilità del pensiero umano e, pertanto, si ricorre molto più volentieri a 
soluzioni specializzate che sono più facili da realizzare e meno costose. I computer 
games interattivi possono rappresentare un punto di svolta poiché, come si è visto, 
cominciano ad avere bisogno di questo tipo di IA o, comunque, di uno molto simile. 
L‟elemento che principalmente rende i computer games interattivi un‟attraente 
alternativa ad altri strumenti di sperimentazione e simulazione è la possibilità di avere 
a disposizione delle riproduzioni molto fedeli di ambienti reali, senza al contempo 
dover avere a che fare con tutta una serie di problemi che si incontrano nella realtà, 
come ad esempio la necessità di usare sensori ed attuatori concreti. Ciò consente di 
concentrarsi fin da subito sull‟oggetto vero e proprio della ricerca. Inoltre, i 
videogiochi sono sistemi software robusti, molto economici e sempre più spesso 
straordinariamente accessibili tramite interfacce IA già predisposte [10]. 
Quello fra computer games ed IA sembra, dunque, essere un connubio 
destinato a rafforzarsi, depositario di grandi promesse non solo per i campi 
direttamente interessati, ma anche per quelli ad essi contingenti. 
 
 
1.1 Obiettivi 
Oggetto della tesi è l‟ideazione, implementazione e valutazione di un modello di IA 
per il controllo degli NPCs di Unreal Tournament 2004 (UT2k4), un famoso First-Person 
Shooter (FPS) game. L‟architettura di controllo proposta è, in realtà, istanza di un